di Renato Costanzo Gatti

Socialismo XXI Lazio |

Sulle parole di Landini vorrei aggiungere qualche riflessione su quali obiettivi dobbiamo porci, in particolare, per quanto riguarda il livello dei salari.

I nostri salari sono decisamente bassi, fermi da anni e con la cancellazione della contingenza non riescono più a difendersi dall’inflazione. Porsi come obiettivo l’aumento dei salari ha decisamente tre effetti positivi:

1 – Aumenta la quota salari rispetto agli altri redditi in particolare di quelle attività che riescono a scaricare sui loro clienti gli aumenti dei costi.

2 – Aumenta la domanda globale aiutando le imprese a realizzare economie di scala aiutando la crescita del PIL.

3 – Funziona come “frusta salariale” che costringe le imprese a ricercare maggiore produttività come insegnatoci da Ricardo.

Occorre tuttavia esaminare tutte le conseguenze connesse con i benefici esposti, alfine di aver maggior completezza nel nostro ragionamento.

1 – Aumentare i salari comporta sicuramente un benessere (immediato) nella vita dei lavoratori, ma occorre rendersi conto che negli ultimi 30 anni la produttività in Germania e Francia è aumentata di più del 20% così come sono aumentati i salari. Se in Italia negli ultimi 30 anni la produttività non è aumentata, è necessariamente conseguente che i salari non possono aumentare. Esiste una golden rule capitalista che dice che i salari debbono aumentare nella stessa misura con cui aumenta la produttività; con ciò non aumentano i costi dei prodotti e i maggiori salari permettono di consumare quanto prodotto in più grazie alla produttività.

Aumentare i salari oltre l’incremento della produttività genera inflazione, effetto che automaticamente annulla il beneficio dell’incremento salariale. Viviamo in una economia capitalista e dobbiamo prendere atto dei meccanismi che regolano l’economia in simile contesto.

Forse, in tale contesto, è più raccomandabile cercare di operare nella costruzione della legge di stabilità, sede in cui si gestisce, per quanto concerne il governo dell’economia, la distribuzione del surplus generato dal paese. Sraffa ci ha insegnato che la ripartizione del surplus tra capitale e lavoro non dipende dall’utilità marginale dei contributi dei due fattori della produzione, e Marx nella Critica al programma di Gotha ci ha insegnato che il lavoro nell’assegnare il surplus deve programmare con una visione a lungo termine così come richiesto da una classe dirigente che si assuma gli oneri del governo, e Gramsci ci ha insegnato come la classe operaia può percorrere i passi necessari per passare dalla situazione di subalterni a quella di dirigenti. Ecco che allora la strategia di maturazione della classe operaia, non può limitarsi al solo fatto di avere salari più alti, ma deve porsi nella posizione di gestire il surplus prodotto nel paese. In questo senso interpreto la “rivolta sociale! Di Landini.

2 – Certamente l’aumento dei salari contribuisce ad innalzare la domanda globale aiutando così le imprese a crescere realizzando economie di scala. Naturalmente questo concetto keynesiano vale nella misura in cui esistono fattori della produzione inutilizzati ma non è detto che il meccanismo funzioni sempre ed in ogni circostanza. E’ da considerare la possibilità che l’aumento della domanda globale comporti, invece di un aumento della produzione locale, un aumento delle importazioni, specie se i paesi concorrenti hanno costi più bassi grazie alla maggior produttività realizzata.

3 – Certo che l’aumento dei salari fa scattare quel meccanismo che ci ha spiegato Ricardo. Il concetto è molto semplice: l’imprenditore, se il produrre con lavoro umano costa meno che produrre con le macchine, assumerà personale piuttosto che investire in macchine; in caso contrario preferirà dismettere lavoro umano per investire nell’acquisto di macchine. Ecco che allora l’aumento dei salari costituirà una “frusta” per costringere l’imprenditore ad aumentare la meccanizzazione e a introdurre l’innovazione tecnologica necessaria per aumentare la produttività. Ma in tale contesto l’aumento dei salari si tradurrebbe in pericolo di perdita di posti di lavoro.

Ma a parte di questo contradditorio risultato, ad un livello di ragionamento più elevato, dovremmo considerare che con la frusta salariale sfidiamo il capitale a dimostrare se è o meno in grado di affrontare la sfida della produttività escludendo la classe operaia da questa sfida, anche se ad innestarla è stata la sua richiesta di aumentare i salari. Purtroppo, la recente storia dell’economia italiana è incapace ad accettare e vincere questa sfida. Nel nostro paese c’è un crollo di capacità produttiva, siamo in clamoroso ritardo nell’adozione dei più importanti sviluppi tecnologici, cosa che purtroppo, come chiarisce il rapporto Draghi sulla competitività, riguarda tutta l’Europa.

C’è una crisi profonda nel nostro apparato produttivo, lo sta a dimostrare il fatto che da più di venti mesi l’indice della produzione industriale è in continuo calo. Abbiamo una crisi della nostra imprenditoria e i governi succeduti non hanno, non dico risolto, ma neppure affrontato il tema.

Voglio prendere ad esempio la crisi Stellantis per fare una semplicissima riflessione: come mai le società francesi fusesi con FCA nel nuovo colosso automobilistico europeo vedevano lo stato francese come un socio importante? Evidentemente perché lo stato francese quando dava aiuti alle ditte in difficoltà otteneva, come qualsiasi investitore, azioni societarie in cambio dei finanziamenti. In Italia abbiamo sempre regalato fondi, aiuto, sussidi, incentivi senza avere in cambio azioni societarie, perdendo così ogni possibilità di controllo che i fondi conferiti fossero utilizzati per gli scopi per i quali erano stati deliberati; anche i recenti Bonus 4.0 di Calenda, ispirati dalla giusta considerazione che fosse interesse nazionale spingere all’innovazione le nostre imprese, sono stati erogati senza contropartita azionaria andando a totale beneficio del capitale senza considerare che quei fondi erano generati dalle imposte di tutti ma in particolare di quelle pagate dai lavoratori e dai pensionati.

In sintesi, tutti i governi hanno gestito la politica industriale col seguente meccanismo: prelevato soldi a lavoratori e pensionati, dati bonus e sussidi alle imprese, distribuito dividendi agli azionisti: in sintesi prelevati soldi ai lavoratori e pensionati e regalati al capitale.

Non è delegando o stimolando, tramite la frusta salariale, il capitale che si risolve il problema della produttività e dei salari, ma facendosi carico di una concertazione seria e programmatica che si attua una vera rivolta nella sostituzione del criterio egemone di investire il surplus rappresentato dal profitto con il criterio razionale ed illuminista dello sviluppo sociale globale.