LE POLITICHE ECONOMICHE DELLA DESTRA

di Renato Costanzo Gatti

Socialismo XXI Lazio |

1 – Il primo governo Mussolini

Traggo da BENITO di Giordano Bruno Guerri (pag. 88 e seguenti):

“Ottenne la fiducia con 306 voti favorevoli contro 116 contrari, socialisti e comunisti. Votarono a favore De Gasperi, Giolitti, Gronchi, Orlando e Salandra.

Con una legge apposita, si assicurò potere totale in materia economica per un anno. Dopo la guerra l’Italia aveva seri problemi finanziari e il programma fascista puntava alla riduzione dell’intervento statale, come avevano sempre voluto i liberali: oggi si parlerebbe di privatizzazione. Luigi Einaudi, altro futuro presidente della Repubblica e importante economista, lodò il programma con parole solenni.(…)

Grazie al parere degli esperti, nei primi anni il governo eliminò il disavanzo statale con una politica rigidissima di contenimento delle spese, aumentò la produttività e il reddito nazionale. In compenso il valore dei salari scese. Quello dei salari è un tema dibattuto riguardo alla storia del regime fascista, perché – la statistica lo dimostra – diminuirono costantemente negli anni, quindi i lavoratori furono penalizzati, ma poterono godere di benefici – per esempio sulle bollette, sulle spese sanitarie – e la riduzione del salario venne compensata.

D’altra parte, col doppio intento di consolidarsi al potere e risanare l’economia, Mussolini non esitò a favorire sfacciatamente gli imprenditori con una serie di leggi, mentre ebbe la mano pesante con alcune categorie di lavoratori: furono licenziati ben trentaseimila ferrovieri, eppure si riuscì – si diceva con orgoglio, i nostalgici lo dicono ancora – a far arrivare i treni in orario”.

Scrive su Fondazione Luigi Einaudi: “La fine dell’estate del 1922, dunque, la ferma volontà dimostrata dai fascisti di attuare quei principi cari ad Einaudi fece cadere le sue ultime reticenze. Ribadiva che «il programma del fascismo (era) nettamente quello della tradizione liberale classica», auspicandosi una sua pronta attuazione, come annunciato dai fascisti. Dopo la presa di potere da parte di Mussolini, sulla quale Einaudi non intervenne, i propositi del nuovo governo, precisati ora dal neo-ministro delle Finanze De Stefani, andavano nel senso auspicato. Si prevedeva in effetti la restituzione all’esercizio privato di tutte le funzioni economiche assunte dallo stato «per ragioni di urgenza durante la guerra, o di ubbidienza all’imperativo demagogico del dopoguerra». In particolare, ma non solo, si prevedeva l’affidamento dei telefoni a compagnie private; lo sfrondamento dalle ferrovie di tutti i servizi accessori in attesa di vedere se e in quale misura potessero essere anch’esse trasferite, quanto alla gestione, ai privati; la riduzione al minimo dei servizi marittimi sovvenzionati. Forte dell’esperienza dei governi precedenti, ribadì la sua speranza che alle parole seguissero i fatti: «ora che i principi liberali sono tornati al potere, giova sperare che la promessa dell’on. Mussolini di infondere in essi un nuovo spirito di realizzazione sia mantenuta».

Seguirono innumerevoli articoli, spesso tecnici, nei quali Einaudi dette il suo assenso alla politica economica e finanziaria del fascismo, in particolare per quanto riguardava la sua ricerca costante del pareggio di bilancio, attraverso una nuova politica tributaria, la riorganizzazione dell’amministrazione pubblica, la lotta a tutte le forme di protezionismo. (…). Per quanto riguarda la politica fiscale, spesso le riforme precedenti erano state sinonimo di aumento delle tasse perché lo «spirito demagogico» dei governi spingeva ad arrotondare a livello superiore le aliquote, al fine di finanziare una politica di sussidi e di protezione. Invece, secondo Einaudi, le tasse dovevano essere distribuite in modo da assicurare allo stato il minimo indispensabile, ma senza gravare troppo né sul risparmio, né sul capitale.

Ed in questo senso agiva il governo. Einaudi commentava con entusiasmo le misure previste dal nuovo governo e confessava che «l’impressione (era) di gente volonterosa di fare il bene, che non ha vergogna di dire che per far rendere le imposte bisogna lasciar vivere in primo luogo i produttori e i risparmiatori. (…)

La politica del fascismo, insomma, tendeva ad applicare il «principio produttivistico», caro ad Einaudi, secondo il quale le imposte devono essere distribuite in modo da ridurre al minimo la pressione sui produttori al fine di accrescere al massimo il flusso di reddito da distribuire. E le sue attese furono in gran parte soddisfate con la riforma tributaria del dicembre 1923, che, se pur non perfetta, andava sicuramente nella direzione giusta: «sono dodici anni oramai che scrivo in difesa del nome e della cosa; ed oggi ho la soddisfazione di vedere concretati in una legge il nome e la cosa».

2 – I fondamenti della politica economica della sinistra

Si può sintetizzare nella ricerca dell’aumento del denominatore (il PIL) piuttosto che nella ricerca di diminuire il numeratore (il debito).

Combattere l’inflazione o l’eccesso di deficit ovvero l’altissimo debito sono obiettivi condivisibili, ciò che differenzia destra e sinistra è il come, con che politiche si perseguono quegli obiettivi.

Non v’è dubbio che se oggi noi abbiamo un debito di circa 3.000 miliardi di €, ciò è dovuto alla cattiva amministrazione dei governi della prima e della seconda repubblica; ma il debito non dipende soltanto dagli eccessi di elargizioni che uno stato assistenzialista eroga, né da una spudorata ricerca di voti come succede ogni anno con l’approvazione di quella che fino a ieri si chiamava “la finanziaria”.

Lo squilibrio nasce anche dalla mancata realizzazione dei programmi di investimento che lo stato programma con quello che si chiama il debito buono. Questo è un concetto keynesiano che tende a permettere allo stato di fare debito laddove esistano delle situazioni di non completo utilizzo dei fattori della produzione; in questi casi quegli investimenti fatti a debito, con una giusta programmazione, permettono in tempi ragionevoli di produrre nuovo reddito in grado di ripagare il debito originario. Ma se la programmazione è poco accurata ed i programmi, come spesso capita, costano molto più del programmato o rendono meno di quanto ci si aspettasse, ecco che il debito da buono diventa cattivo e si accumula.

Ma il debito nasce anche dalla catastrofica scelta iniziale di istituire un sistema previdenziale a ripartizione anziché ad accumulazione.

Questo pericolo si presenta, a mio parere, concretamente con il PNRR, nel senso che l’assoluta capacità programmatica del governo, investe i fondi, che di volta in volta riceviamo, in progetti vaghi che ben difficilmente saranno in grado dopo il 2026, di generare quel tanto di PIL che ci permetta di restituire i fondi che l’Europa ci ha prestato, né quelli a fondo perduto che, anche se non al 100%, andranno comunque restituiti.

 L’abbandono di una seria politica di programmazione, attuata unicamente nei governi con i socialisti negli anni ’60, rende terribilmente seria la preoccupazione sul come andrà a finire con il Next Generation UE.

3 – La politica economica della destra

Si può sintetizzare nella ricerca della diminuzione del numeratore (il debito) piuttosto che ricercare l’aumento del denominatore (il PIL).

I partiti cosiddetti liberali tendono al contrario di raggiungere gli obiettivi di minor inflazione, cancellazione del deficit e riduzione del debito, affidandosi ciecamente allo spirito di iniziativa del capitale e dell’imprenditoria privata. Ecco che allora ridurrà l’IRES (imposta sulle persone giuridiche), frenerà il rinnovo dei contratti per contenere i salari a livelli sempre più bassi, ridurrà il costo dello stato sociale favorendo la deviazione dei fondi a favore “di chi si dà da fare” (gergo della Garbatella).

L’esempio classico attuale è la gestione della politica economica argentina in questo anno di governo di Milei.

Alla convention di Fratelli d’Italia Atreju, le sue ricette economiche ultraliberiste hanno ricevuto l’apprezzamento del ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti. E infine la premier Giorgia Meloni è intervenuta per dire che le drastiche misure economiche adottate a Buenos Aires non sarebbero replicabili a Roma. 

Ma almeno al di là dell’Ocean0 Atlanticola «motosega» emblematicamente impugnata da Milei per risanare l’economia del suo Paese sta dando risultati?

Già durante la campagna elettorale, Milei aveva annunciato che avrebbe preso in mano la motosega per ridurre la spesa pubblica, che rappresentava quasi la metà del Pil argentino, circa il 44%. Dopo un anno al potere, il suo governo è riuscito a ridurre la spesa pubblica al 33% del Pil, dopo aver effettuato tagli agli stipendi, alle pensioni, alle opere pubbliche e ai sussidi.

Il piano di Milei prosegue e nei prossimi mesi intende continuare a ridurre la spesa pubblica e ad avviare una riforma del lavoro, per la quale ha già chiesto ai datori di lavoro e ai sindacati di impegnarsi. Inoltre, in un futuro non troppo lontano, il governo spera di iniziare ad abbassare le tasse e raggiungere un deficit pari a zero, anche se gli esperti avvertono che è necessaria cautela per quanto riguarda l’economia argentina. La povertà ha raggiunto livelli vicini al 50%.

Vediamo allora che la politica economica di Mussolini, osannata da Luigi Einaudi, quella di Milei e quella del governo di destra oggi in carica, si fondano su chiari principi:

  • Ridurre la spesa sociale ai minimi (cioè al punto che non generino la rivolta sociale invocata da Landini);
  • Favorire al massimo le imprese produttive per generare più PIL, che poi sgocciolerà anche a favore dei subordinati;
  • Accentrare i poteri economici (e non solo quelli) nell’esecutivo a scapito dell’equilibrio e della divisione dei poteri;
  • Fare della fiscalità uno strumento di politica corporativa senza alcuna razionalità ma come strumento di potere.

4 – Come aiutare il sistema produttivo

La nostra economia sta soffrendo una fase molto critica, ciò che deve più preoccupare è il calo dell’indice di produzione industriale che si registra da più di venti mesi; settori come l’automobile, il tessile il metalmeccanico son i più colpiti.

Questa crisi è la necessaria conseguenza del fatto che la produttività nel nostro paese non cresce da trent’anni; inutile lamentarsi sul fatto che i nostri salari sono gli unici ad essere diminuiti nel panorama europeo, se non aumenta la produttività non si trova una soluzione seria.

La situazione è seria per una strutturale debolezza (meglio forse dire incapacità) della nostra imprenditoria e cinismo del nostro capitale.

 La vera lotta di classe consiste nell’intervenire nelle scelte di investimento del surplus: lasciare la scelta a chi decide in base al profitto o lasciare la scelta a chi persegue il bene pubblico.

Per esempio, nel caso Stellantis, caso di lampante disastrosa gestione privata della famiglia Agnelli, vediamo che il governo francese è socio in Stellantis, così come è socio in Renault e progetta una fusione tra Stellantis e Renault per costituire la base per una fusione con Volkswagen.

Ebbene la semplice domanda è? Come mai lo stato francese è socio in Stellantis e Renault? Mi pare che la semplice risposta sia: perché ci ha messo fondi, ha acquistato azioni societarie. Ma allora perché lo stato italiano che dalle commesse nella prima guerra mondiale, alla costruzione dell’autostrada del Sole, agli incentivi e sussidi, ha messo tonnellate di soldi in Fiat non ha alcuna azione societaria?

Ecco un esempio di come non vadano erogati i sussidi, ma noi continuiamo sia con i bonus 4.0 di Calenda che con i bonus 5.0 etc.  

5 – Quale la scelta?

La scelta non può che essere a livello europeo, non serve fare la corte a Black Rock o amoreggiare con Elon Musk; e a livello europeo penso alla proposta sulla competitività elaborato da Draghi: il nostro ritardo tecnologico rispetto a USA e Cina rischia di ridurci ad una colonia, la nostra debolezza sta nella frammentazione delle imprese che non realizzano così economie di scala; serve una collaborazione con il capitale privata ma la programmazione seria e competente deve stare nel potere centrale democratico e popolare.

Investire 800 miliardi per dieci anni, emettendo debito europeo è la sfida di dimostrare che esiste il debito buono e che la cultura della programmazione deve tornare ad essere dominante. Certo i contenuti del piano Draghi non sono totalmente condivisibili (penso alle armi per la difesa) anche se hanno un disincantato concreto valore.

Quello che vedo, da socialista, è il ritorno alla razionalità sociale che si basa sulla scienza economica e si realizza nella programmazione, nella pianificazione; l’esaltazione illuministica di una nuova era che faccia dell’Europa il centro della ricostruzione degli organismi internazionali che avevamo creato nel dopoguerra. Riportare ad essere protagonista l’ONU dimenticando il gendarme del mondo, riportare al centro il WTO violentato dai minacciati dazi di Trump; solo l’Europa ha la cultura per obiettivi di questo livello.