LE RAGIONI DELLA SCONFITTA DELL’OPPOSIZIONE E DELLA VITTORIA DI MUSSOLINI

di Carlo Rosselli Fino al giugno del 1924 i partiti di opposizione erano vissuti su una situazione falsa, iperbolica, come certi falliti che continuano a godere di credito e a condurre vita lussuosa fino a quando l’iniziativa di uno qualunque dei creditori determina il crollo totale. L’opposizione era stata battuta nelle strade, ma a causa del compromesso iniziale cui Mussolini aveva dovuto piegarsi per salire al potere, aveva conservato a “Palazzo” una situazione di privilegio. La Camera, eletta nel 1921, era in maggioranza antifascista; la stampa, idem; in tutti i corpi dello Stato il fascismo era appena tollerato. Questa situazione maggioritaria doveva riuscire fatale all’opposizione, mentre avvantaggiava singolarmente Mussolini che proprio da questa debolezza formale ricavava il massimo di dinamismo. Mussolini non avendo i valori legali, apparenti, badava ai sostanziali e soprattutto alla forza, alla giovinezza, all’iniziativa, all’attacco; le opposizioni, avendo conservato per concessione del dittatore (“avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia…“) le posizioni legali, si battevano sul terreno formale e morale, contestando la validità giuridica dei decreti mussoliniani, e rivendicando la rappresentanza di un’Italia che viveva ormai solo nelle memorie. Scambiando i reali rapporti di forza sociale con i vecchi risultati elettorali, vedevano nel fascismo un semplice colpo di mano contro il suffragio universale, un’avventura di stile sudamericano destinata a concludersi fatalmente nel giro di qualche mese: e non si preoccupavano di rovesciare il rapporto di forze che aveva permesso al fascismo di spazzare il movimento operaio e non si preparavano in nessun modo a resistere e a contrattaccare nelle piazze. E come avrebbero potuto farlo? Per condurre la lotta con stile offensivo nel paese, avrebbero dovuto essere in posizione di minoranza e di illegalità: ora l’opposizione era la legalità, la vecchia legalità, mentre il governo era l’illegalità. Il governo, non l’opposizione, era rivoluzionario. Il governo era un gruppo deciso, senza scrupoli, che messosi con un colpo di mano al centro della vecchia legalità, la scomponeva a pezzo a pezzo. Quella legalità non era che un residuo sospeso ad un filo, al filo della continuità costituzionale che il sovrano aveva voluto che si rispettasse (violare, ma con le forme). L’opposizione si attaccò disperatamente a quel filo. Il giorno che il filo sarà tagliato, l’opposizione – quella opposizione – sarà liquidata. Essa sconterà così per anni il passivismo mostrato durante la marcia su Roma. Abbiamo preso molto in giro Mussolini perché, mentre i fascisti marciavano allegramente su Roma, se ne stava a Milano. Ma che cosa stavano a fare i deputati della sinistra a Roma? Tra il girare nei corridoi attendendo il decreto di stato d’assedio e l’andare nel paese a organizzare la resistenza, era meglio andare nel paese. E a Roma, oltre Montecitorio, c’era San Lorenzo, dove il popolo si batteva; ma nessuno o quasi se ne ricordò in quei giorni. Come nessuno sentì che l’opporre in parlamento superbi squarci oratori alle parole sprezzanti del “duce“, era fare il suo giuoco. Le elezioni dell’aprile 1924 avevano in parte corretto questo stato di cose. L’opposizione diventava per la prima volta opposizione, minoranza; come minoranza, avrebbe potuto darsi una psicologia virile, d’attacco. Ma aveva troppi ex nelle sue file, era troppo appesantita da uomini che avevano gustato le gioie del potere e della popolarità, che si erano fatti in tutt’altra atmosfera. Gli oratori più celebri, usi al successo in un parlamento in cui si trovavano come in famiglia, non resistevano all’ambiente nuovo e ostile creato dai fascisti. Erano depressi, stanchi, preoccupati; non avevano la psicologia dell’attacco ma della ritirata. Tornando ai collegi dopo dure battaglie parlamentari, si sorprendevano di trovare i giovani (ahimè, i rari giovani) in stato di eccitazione. Matteotti era un isolato. Quando terminò la sua improvvisata requisitoria alla Camera, un suo compagno (Baldesi) – morto poche settimane or sono in dignitoso silenzio – lo interpellò bruscamente: “Sicché tu ci vuoi tutti morti?“. Quando la crisi scoppiò, la depressione era al colmo. La decisione di ritirarsi dai lavori della Camera non fu un atto volontario diretto a portare battaglia nel paese, ma un atto necessario di chi, non potendone più, si ritira. Ma poiché la retorica vuole la sua parte, così l’Aventino fu presentato alle masse come la decisione energica di gente che passa all’attacco. Di questo equivoco morrà l’Aventino. L’appello al re fu un altro riflesso di questo stato depressivo. Solo lui può far traboccare le forze materiali dalla nostra parte, pensavano i deputati aventiniani. Quanto alle masse popolari, che si mostravano nei primi giorni in stato di effervescenza, guai a chi avesse tentato metterle in movimento! Solo i comunisti e le minoranze giovani chiesero lo sciopero generale. Ma le opposizioni non vollero, per non spaventare la borghesia e il sovrano. Fu questo il miracolismo dell’Aventino. Credere di poter vincere con le armi legali l’avversario che ha già vinto sul terreno della forza. Pregustare le gioie del trionfo mentre si riceve la botta più dura. Evitare tutti i problemi (Gobetti diceva: “l’Aventino ha un mito, il mito della cautela“) sperando che la borghesia dimentichi il ’19. Attendere che il re e i generali tolgano le castagne dal fuoco col solo intento di consegnarle, a sei mesi dalla data, a lor signori dell’opposizione non appena scottino meno. Supporre che i valori morali possano da soli rovesciare i “rapporti obiettivi di classe“. Venerdì, 8 giugno 1934 (Brani tratto da un lungo articolo pubblicato su Giustizia e Libertà da Carlo Rosselli tre anni esatti prima del suo assassinio, avvenuto a Bagnoles-de-l’Orne per mano fascista il 9 giugno 1937) SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LE VICENDE DELL’ESILIO

Delegati al Congresso PSI-IOS (XXI Congresso del PSI) di Parigi, 1930 Dopo il 1926, costretti a trasferire all’estero le loro sedi e i loro gruppi dirigenti, due furono i partiti socialisti che si trovarono ad operare in esilio, e specificamente in Francia: il Partito socialista italiano, qual era rimasto dopo la scissione comunista, e dopo l’espulsione dei riformisti, avvenuta al congresso di Roma all’inizio dell’ottobre 1922 (si era andati oltre la stessa volontà di Lenin che aveva chiesto “nominativamente” la sola espulsione di Turati); e il Partito socialista unitario dei lavoratori Italiani (PSULI), costituito dai riformisti all’atto della esclusione dal vecchio tronco del partito che Turati aveva contribuito a fondare. I militanti e i dirigenti emigrati del primo erano conosciuti correntemente come “massimalisti“; quelli del secondo come “unitari“. Ovviamente si trovarono tutti alle prese con enormi problemi personali, ai quali si aggiungevano quelli politici e organizzativi. Avevano affrontato con coraggio la via dell’esilio, e si trovavano a dover fare i conti anche con l’esigenza di valutare con spregiudicatezza e severità gli errori compiuti, che avevano condotto alla sconfitta tutto il movimento socialista. Ci si accorse che il primo e fondamentale di questi errori era stata la divisione e poi la frattura del partito. Entrambi aderirono alla Concentrazione antifascista, insieme con il Partito repubblicano, la Lega dei diritti dell’uomo e, più tardi, con Giustizia e Libertà, il movimento fondato dai fratelli Rosselli. Essa collegava i vari settori nell’antifascismo militante escluso quello comunista, che manteneva un atteggiamento settario e pregiudizialmente contrario a quella che considerava una collaborazione con forze della borghesia. Nell’unità antifascista, maturò anche l’esigenza dell’unità socialista, che conquistò rapidamente tutto lo schieramento socialista, con l’esclusione di un piccolo irriducibile settore massimalistico, capeggiato da Angelica Balabanoff, una rivoluzionaria russa, che era stata nemica di Lenin, e che da tempo operava nel partito. I “massimalisti” e gli “unitari” tennero due convegni aperti ad entrambi: il primo a Parigi, il 18 e il 19 dicembre 1927; il secondo a Marsiglia, l’8 e il 9 gennaio 1928. In entrambi, il desiderio, di natura sentimentale e politica insieme, di ricongiungersi in una sola organizzazione si manifestò con grande forza. Ma il convegno decisivo fu quello del partito massimalista che si svolse a Grenoble il 16 e 17 marzo del 1930. Esso si divise, ancor prima di aprirsi, in due distinte riunioni: quella della maggioranza, guidata da Nenni, che si dichiarava favorevole a ricostruire l’unità con il PSULI; e quella, appunto, in cui era presente il gruppo della Balabanoff avverso alla riunificazione. Questa minoranza, avvalendosi di cavilli personali, riuscì a conservare per qualche tempo la sigla del partito, ma visse solo della polemica contro gli altri socialisti, andando gradualmente esaurendo la propria funzione e la propria attività politica. Il congresso che decise formalmente la ricostruzione del partito, superando il precedente, fatale dissidio, si svolse a Parigi il 20 e il 21 luglio 1930, presso la casa del Partito socialista francese. Era da considerarsi come il XXI, essendosi l’ultimo, il XX, tenuto a Milano nell’aprile del 1923, con la separazione dal partito dei “fusionisti” di Serrato, divenuti in seguito in massima parte militanti comunisti. Pietro Nenni tenne la relazione politica, delineando una linea che guardando al futuro, disegnava un processo di superamento del contrasto tra le due “anime” socialiste. Protagonista dell’assise fu anche Giuseppe Saragat, che nel suo discorso fece propri i princìpi dell’austro-marxismo, e con un notevole e felice sforzo teorico dimostrò la possibilità e necessità di coniugare la pratica della lotta di classe con una convinta difesa della democrazia politica e della libertà. I contenuti dei due discorsi furono recepiti nella Carta dell’Unità, approvata all’unanimità dai 96 delegati in rappresentanza dei 146 gruppi e sezioni, presenti al congresso. Insieme ad essa venne votata la deliberazione di aderire alla Internazionale Operaia Socialista (IOS), la Seconda Internazionale che si contrapponeva alla Terza Internazionale leninista. Il più significativo passo della Carta dell’Unità era indubbiamente costituito dal punto terzo, che testualmente recitava: “Il PSI lotta per organizzare un regime di democrazia in cui il libero sviluppo di ciascuno sia la condizione del libero sviluppo di tutti. Democratico nel fine, esso lo è anche nei mezzi“. Questa dichiarazione rappresentava una sostanziale accettazione delle posizioni riformistiche. In questo quadro, il “rivoluzionarismo“, propugnato nel periodo 1919-26 in Italia dai “massimalisti” assumeva anch’esso un diverso significato; veniva a qualificarsi come ipotesi di lotta contro la dittatura, a salvaguardia di quelle libertà che in precedenza erano state considerate spregiativamente “borghesi”. Infatti, proseguiva il testo del punto terzo, “il PSI considerava l’insurrezione come l’esercizio del diritto inalienabile del proletariato di respingere le violenze delle classi dominanti contro l’autonomia della classe lavoratrice e contro le comuni libertà“. La riunificazione socialista non teneva però conto di un elemento nuovo cui pure Nenni aveva direttamente contribuito con la sua partecipazione all’esperienza del “Quarto Stato“. L’elemento, appunto, introdotto dai Rosselli di una critica ideologica e politica complessiva dal socialismo al primo conflitto mondiale. Il revisionismo rosselliano risultava infatti del tutto assente dal processo di riunificazione socialista del 1930. Il discorso ideologico del ricostituito partito unitario era tutto incardinato sulla visione marxista, sia pure successivamente alla interpretazione democratica che ne aveva fornito, in modo del resto magistrale, Giuseppe Saragat. Inoltre, la rifondata unità socialista ebbe come effetto di indebolire i rapporti tra le forze della concentrazione antifascista. Da un lato, i socialisti unificati assumevano una forza rispetto alla quale quella degli altri partecipanti appariva più sproporzionata. D’altro verso, s’accentuava la distanza con le posizioni revisionistiche di “Giustizia e Libertà“. Infine, andava sorgendo una crescente sollecitazione al gruppo dirigente socialista, di dare una risposta affermativa al problema di un rapporto unitario, sia pure non organico, con i “compagni separati” del Partito comunista. Il secondo congresso all’estero (il XXII, il 16 e 17 aprile 1933, a Marsiglia nella sala St. Ferréol) confermò l’adesione alla Concentrazione antifascista, ma fu centrato sul problema dell’unità politica con i comunisti. Poco più d’un anno dopo, il 14 luglio 1934, il Consiglio generale del Partito socialista si pronunciò, sia pure a determinate condizioni, per la stipulazione …

GIORGIO GALLI: NON E’ VERO CHE ALTERNATIVA DA TRATTI SOCIALISTI NON C’E’

di Carlo Patrignani Il mondo è oggi governato dalle multinazionali: arricchirsi impoverendo. Preso atto che una minoranza s’arricchisce sempre più e la maggioranza impoverisce sempre più, non solo economicamente, non è vero che l’alternativa dai tratti socialisti non c’è: sta nelle mani di tutti noi e soprattutto dei giovani che mandano significativi segni di rifiuto dello status quo imposto dal capitalismo finanziario. Direi di più: nell’era della rivoluzione informatica, la minoranza che legge libri, che si informa per conoscere e saper selezionare le informazioni, sarà l’avanguardia dei clerici vagantes. Composto, elegante, chiaro il vegliardo signore novantenne, Giorgio Galli, decano dei politologi italiani, scandisce le parole di fronte a una platea attenta e sedotta dalla sua acuta capacità di analizzare il presente legato al passato da dove ha preso avvio. Così passo dopo passo, l’incontro con Galli alla libreria Odradek di Milano sul breve ma ben scritto saggio La stagnazione d’Italia – Dalla ricostruzione alla corruzione in dieci nodi della Storia italiana dal 1946 al 2017, per Oaks editrice, organizzato dal Gruppo Storia dell’Associazione Amore & Psiche, assume i connotati di una lectio magistralis sulla storia della Repubblica. Noi come i clerici vagantes – aggiunge – non dobbiamo stancarci, dobbiamo insistere in questa continua, affascinante ricerca di provare e riprovare, perchè può succedere che dalla palude affiorino i germi del cambiamento possibile, come ci insegnano due signori avanti con gli anni: Jeremy Corbyn e Bernie Sanders attorno ai quali ruotano tantissimi giovani classe ’99 in su. L’attualità incalza, morde prepotentemente: le elezioni politiche del 4 marzo sono ormai prossime, eccole con il loro carico di disaffezione e di sfiducia. E’ vero, di entusiasmo se ne vede poco, soprattutto tra i giovani, però scommetto sulla intelligenza del corpo elettorale. Quando si è trovato di fronte a proposte chiare ha sempre risposto con saggezza: al referendum del ’46 su Repubblica o Monarchia, alla legge truffa del ’53, al referendum sul divorzio del ’74 o al referendum del 2016 sulla riforma istituzionale. Meno quando le proposte sono mancate di chiarezza per la crisi prima strisciante poi dirompente del sistema dei partiti e con essa della democrazia rappresentativa. Difficile dire come finirà il 4 marzo: l’ipotesi più probabile è che si torni a votare di nuovo. Progetti politici? Il più chiaro è un esecutivo ispirato da Renzi e Berlusconi, con un Premier a metà. Il M5S? I suoi voti li prenderà, ho dubbi su un loro governo. Un governo del Presidente? E’ possibile ma limitato nel tempo per rifare una nuova legge elettorale e tornare appunto a votare. Purtroppo un Corbyn o un Sanders per ora non c’è.  Il dito di Galli, già docente di Storia delle Dottrine Politiche all’Università degli Studi di Milano, è posto sulla piaga: la crisi del sistema dei partiti, soprattutto di sinistra, e della democrazia rappresentativa parallela alla ristrutturazione del capitalismo da industriale a finanziario, dal meno Stato più mercato al trionfo del laissez faire il mercato, dal mantra thatcheriano la società non esiste, esiste l’individuo alla terza via blairiana del socialismo è morto acqusito dal Pd. La situazione di oggi, meno diritti e meno partecipazione, ha il suo inizio nei primi anni ’70 quando il capitalismo industriale, quello delle grandi famiglie, mutava pelle ristrutturandosi in capitalismo finanziario: pochi a sinistra capirono quel stava accadendo, ossia che i profitti non andavano più in investimenti produttivi ma prendevano altre strade: la rendita finanziaria più remunerativa. Quel momento fu segnato dal golpe invisibile dietro lo scontro tra il protagonista del primo centro-sinistra, Riccardo Lombardi e il governatore della Banca d’Italia, Guido Carli. Lì, forse, finì l’unica stagione riformatrice del Paese: una fase che andrebbe analizzata meglio perchè lì, forse, s’interruppe bruscamente il processo di radicale rinnovamento culturale e politico del Paese innescato dal primo centro-sinistra riformatore. Da quel momento ha inizio lo smembramento a tappe di grandi conquiste come l’Welfare State e dopo il crollo del Muro di Berlino dell’89, la deriva neoliberista. Se la sinistra pur avendo raggiunto risultati elettorali apprezzabili – elezioni regionali del ’75 e politiche del ’76 – non si è posta come forza di alternativa alla moderata e conservatrice Dc è perchè ha sofferto di un complesso d’inferiorità: ha sopravvalutato la cultura cattolica e le forze politiche che, come la Dc, la esprimevano. Di questo complesso ne soffriva quando c’erano un grande partito come il Pci e un dignitoso partito come il Psi, figuriamoci oggi che sono in profondissima crisi d’identità! Anche lì, in quel momento cruciale, ci fu uno scontro culturale e politico tra chi come Riccardo Lombardi progettava l’alternativa socialista per un nuovo modello di società che chiamava diversamente ricca e chi come Enrico Berlinguer progettava il compromesso storico per un modello di società basato sull’austerità. Questioni simili non si risolvono in un incontro, per quanto di alto profilo culturale, politico e storico: richiedono altro per far affiorare dalla palude qualche prezioso germe per la ricerca di un cambiamento possibile for the many, not the few. Bisogna farlo: ne vale del nostro status di clerici vagantes, afferma sorridendo Galli. E conclude entusiasta con un arrivederci a presto perchè siamo obbligati a insistere nella ricerca di legare quel che succede oggi con il suo precedente nel passato per cui la storia umana e politica di Lombardi che rifiutò la resa incondizionata di Mussolini ci può senz’altro aiutare. Fonte: alganews.it SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL PARADOSSO DI PLECHANOW

Nel clima di violenza instaurato dall’azione fascista, che fa leva anche sulla reazione dei ceti della borghesia all’insurrezionalismo senza sbocchi degli estremisti del PSI, impotenti tra l’altro ad alcuna reale strategia rivoluzionaria, s’avvia la crisi socialista, che si svilupperà rapidamente fino a portare alla scissione. I riformisti, pur vedendo con lucidità i pericoli della situazione, e avendo coscienza che l’unica via d’uscita è nella ripresa dell’alleanza con le forze democratiche e con i cattolici organizzatisi nel Partito popolare, temono di infrangere quest’unità del partito che sarà ben presto frantumata, prima dai comunisti, poi dai massimalisti. Fin da quell’epoca, l’atteggiamento di Turati, tanto nel congresso, che nel complesso della vicenda politica nazionale, suscitò non poche polemiche che si sono poi andate ingigantendo in sede storiografica. Critiche rivolte all’atteggiamento tattico del leader di “Critica Sociale” che nelle conclusioni del dibattito congressuale, a Bologna, aveva preferito confluire insieme con Lazzari e con i suoi seguaci, piuttosto che assumere una posizione distinta. Turati fu accusato e viene ancor oggi accusato di essere stato eccessivamente rinunciatario. Tutte queste critiche e queste accuse ci appaiono superficiali. Esse non tengono conto del fatto che i riformisti erano pressoché isolati, una posizione autonoma, in sede di votazione, avrebbe sottolineato la loro debolezza politica ed organizzativa. Non tengono conto, inoltre, che Lazzari e i suoi s’impegnarono a sostenere la piena legittimità della presenza dei riformisti nel partito, contro la richiesta di espulsione che veniva da tutti gli altri settori del PSI. Non tengono conto, infine, che il congresso si svolgeva a circa un mese di distanza dalle elezioni, che erano state già indette, e che qualora i riformisti fossero stati cacciati dal partito ben difficilmente sarebbero stati in grado in un tempo così breve di organizzarsi per poter partecipare con proprie liste alla competizione elettorale che si svolgeva per la prima volta con il nuovo sistema della proporzionale. Tutte queste considerazioni indussero Turati e i suoi compagni ad adottare l’unica tattica congressuale possibile in quel momento, che non gli impedì affatto, tra l’altro, di parlar chiaro. Nel suo intervento parlò apertamente contro la violenza rivoluzionaria dicendo: “L’appello alla violenza… è, in fondo, la caratteristica del programma che noi combattiamo. Noi non abbiamo mai creduto alle virtù taumaturgiche della violenza“. E ricorda il “paradosso di Plechanow“: “La gente superficiale è indotta a confondere la violenza con la rivoluzione. Sarebbe come – osservava Plechanow – se, dato che quando piove si aprono gli ombrelli, se ne concludesse che basterebbe aprire gli ombrelli per ottenere la pioggia“. E aggiunge: “La violenza non è altro che il suicidio del proletariato, è fare l’interesse degli avversari“. Passando dai princìpi ai fatti, contestava: “Parlare poi continuamente di violenza per rinviarla sempre all’indomani, è – lo notava lo stesso Serrati – la cosa più assurda di questo mondo. Ciò non serve che ad armare, a suscitare, a giustificare anzi la violenza degli avversari, mille volte più forte della nostra… Soprattutto questo vale per voi, che non ammettete possibilità di alcuna intesa, neppure transitoria, con le classi avversarie, che vi atteggiate come un blocco feroce, senza pietà e senza possibilità di compromessi. Di quali armi materiali voi disponete? Chi di voi protestò contro il decreto che imponeva la denunzia e la consegna delle armi? Chi di voi ha preso sul serio la rivoluzione armata di cui tanti si riempiono la bocca?… Quando assalirono l’Avanti! avete confessato che il partito e le masse operaie si guardarono bene di reagire con qualsiasi ritorsione. Protestarono con sottoscrizioni ed ordini del giorno, protestammo noi in Parlamento, ossia nel modo più legalitario che si possa immaginare. E in queste condizioni venite a parlare di violenza vittoriosa immediata!“. È sufficiente questo squarcio di un discorso, così coraggioso ed antiveggente, a mettere in luce la natura del dibattito che si svolse in quel congresso, il nullismo totale delle posizioni “rivoluzionarie” di Serrati e di Bordiga, e la gravità e pericolosità delle conseguenze che potevano suscitare, come non mancheranno di suscitare. Tutto ciò conferma l’esigenza per i riformisti di usare, in quell’assise, un linguaggio chiaro, anzi chiarissimo, e, nello stesso tempo, di usare la necessaria prudenza per non farsi isolare e travolgere dal fanatismo degli avversari di partito. I riformisti avevano bisogno, proprio per la loro linea strategica, di essere presenti in Parlamento; e sarebbe stato un autentico suicidio politico, per essi, mettere a repentaglio la loro rappresentanza elettiva, a poche settimane dal voto popolare. In più, occorre rilevare che la convergenza con Lazzari apriva la strada ad un’interessante evoluzione dell’equilibrio politico interno al partito, che non avrebbe mancato di dare qualche risultato, di lì a poco tempo. Pochi giorni dopo la conclusione del congresso di Bologna, scende in campo l’antico interlocutore dei riformisti, Giovanni Giolitti. Lo fa assumendo, nel famoso discorso di Dronero del 12 ottobre, una posizione di “apertura a sinistra“. Usa addirittura espressioni insolite al suo linguaggio, che è in genere più concreto e meno colorito: “Le forze reazionarie non potranno più prevalere – annuncia con una certa enfasi – perché le classi privilegiate che condussero l’umanità al disastro non possono più reggere da sole il mondo, i cui destini dovranno passare nelle mani del popolo“. Nello stesso discorso, scendendo a cose più precise, annuncia un programma di riforme (tra cui l’istituzione dell’imposta progressiva sui patrimoni e sui profitti di guerra) che suona come una tutt’altro che nascosta candidatura alla guida di un governo “riformista“. I risultati delle elezioni del 16 novembre segnano una grande vittoria dei socialisti che da 48 passano a 156 seggi, e dei popolari che ottengono 100 seggi. Mentre i fascisti vengono clamorosamente sconfitti, non riuscendo ad avere nessun eletto, l’arcipelago liberale ne esce fortemente ridimensionato: dei 380 seggi che contava nella precedente Camera, ne risultano confermati un numero di 235. Il voto offriva, quindi, un’ampia dimostrazione di consenso ai socialisti, nonostante i gravi errori strategici commessi dal partito; ed indicava, ma solo sulla carta, una maggioranza numerica nella somma dei deputati socialisti e popolari. La capacità di manovra politica e parlamentare del PSI era però indebolita …

“IO SONO UNO CHE NON NASCONDE LE SUE IDEE”

di Greta Merati Luigi Tenco era un cantautore scomodo. Molti dei suoi brani sono stati censurati dalla Rai in quanto considerati “troppo politicizzati.” Il 27 gennaio del 1967 Luigi Tenco veniva trovato senza vita nella sua camera d’hotel a Sanremo, dove partecipava al Festival. Sulla sua morte tante ombre. Ci si è spesi in innumerevoli ipotesi sul “mistero” della camera 219 e sono ancora molte le incertezze. La riesumazione del corpo nel 2006 e due sentenze della magistratura confermano si sia trattato di un suicidio, ma numerose controinchieste sembrano mettere in dubbio che Tenco si sia tolto la vita, depresso perché il suo brano venne scartato. Si è scritto di tutto, dall’omicidio politico, passionale o ancora che sia stato ucciso per soldi o per sapere troppo. Per i 50 anni dalla sua morte è appena uscito il libro di Aldo Colonna, Vita di Luigi Tenco, che avvalora proprio questa tesi dell’omicidio. Oltre ogni valida ipotesi, dietrologia o congettura la sola cosa indiscutibile è che risulta difficile interpretare il suo suicidio come un atto estremo di una persona che non sapeva perdere, come molte critiche asserivano. Tenco infatti ha sempre preso le distanze dalle logiche concorrenziali e speculative che toccano il mondo della musica. Non si conquistava il pubblico accondiscendendo nel provocargli soddisfazioni facili e tantomeno stava a giochi competitivi ed alla corruzione dei concorsi, lui cantava per comunicare. Tenco, nella lettera d’addio che la perizia calligrafica conferma abbia fatto proprio lui, scriveva: Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda “Io, tu e le rose” in finale e una commissione che seleziona “La Rivoluzione.” Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi Il cantautorato progressista, la cosiddetta scuola di genovese, negli anni ‘60 rispecchiava una società in mutamento, ma la società nell’immaginario di Tenco era forse un po’ diversa, era oltre il suo tempo. In più situazioni si è dichiarato deluso dal sistema che lo circondava, e non si riferiva soltanto al mondo della musica. Luigi Tenco incarnava quel progressismo non di certo inedito negli anni delle grandi rivoluzioni culturali precedenti al sessantottismo, ma unico per i temi trattati e per come veicolava i suoi messaggi nella musica. Luigi faticava a definirsi un cantante, in un’intervista rilasciata a Sandro Ciotti nel 1962 affermava che la sua più grande ambizione fosse di farsi capire dagli ascoltatori, “cosa che non è ancora successa”. L’impressione è che usasse la musica come mezzo per arrivare alle persone con i suoi messaggi densi di ideali. Del resto cos’è la musica leggera, il “pop all’italiana,” se non ciò che vuole arrivare alle masse, al più ampio raggio possibile di persone? Spesso con la fama si corre però il rischio di essere fraintesi — e questo Luigi non lo sopportava. Le sue canzoni, spesso dedicate impropriamente dagli ascoltatori alle fidanzate al solo udire della parola “amore”, venivano di frequente equivocate. Nei testi in cui l’autore si rivolgeva alla donna cercava in realtà di scostarsi dalle serenate edulcorate che rappresentavano l’innamoramento. In pezzi come Ballata dell’amore o Se fossi una brava ragazza Tenco prende le distanze da certi vincoli culturali nel corteggiamento ed al comportamento rigidamente conforme ai due ruoli di amanti. A proposito di ruoli di genere e controcultura degli anni sessanta: come non ricordare Giornali Femminili, un pezzo fortemente dissacrante. Nella canzone Tenco ironizza sul ruolo dei media nello stabilire a cosa deve interessarsi la donna in quanto tale: i problemi di cuore, il lusso, la bellezza, ma mai le questioni piú grandi, “trasformare la scuola, abolire il razzismo, proporre nuove leggi, mantenere la pace.” Luigi era un personaggio scostante, sicuramente disinteressato a conquistarsi il pubblico. Era incapace di scenderci a compromessi, ad eccezione di una volta: il fatidico festival di Sanremo del 1967 in cui portò Ciao amore, ciao con Dalida. Il pezzo originariamente s’intitolava Li vidi tornare, ma dato il forte messaggio antimilitarista Tenco decise di ammorbidire i toni slittando sull’emigrazione italiana per non incorrere alla censura. Niente da fare, non è stato comunque apprezzato dalla giuria e questo fu frettolosamente interpretato da molti come il motivo per cui poi si sarebbe sparato alla tempia. Luigi Tenco era un cantautore scomodo Molti dei suoi brani sono stati censurati dalla Rai in quanto considerati “troppo politicizzati.” Rimarcava costantemente il tema delle uguaglianze, come in uno dei suoi pezzi più noti, Cara maestra: “quando entrava in classe il direttore tu ci facevi alzare tutti in piedi, e quando entrava in classe il bidello ci permettevi di restar seduti.” Emblematiche ed antisistema furono La ballata della moda, palese sbeffeggiamento alle dinamiche del marketing e Ognuno è libero, in cui trapela il disprezzo alla superficialità ed al consumismo. Lo chiamavano “il ragazzo col sax,” ma agli esordi oltre che suonare nelle band Tenco aveva scelto Scienze Politiche. La scelta del percorso di studi è stata sicuramente determinante per la politicizzazione dell’artista. Sono in molti a considerarlo comunista anche se altrettanti ricordano che dopo gli eventi in Ungheria stracciò la tessera del partito. Dalida, celebre cantante francese amante di Tenco, in un’intervista al settimanale Oggi del 1987, prima di togliersi la vita, come Tenco, dichiarò: “Luigi mi disse che nel 1964 abbandonò il partito comunista… perché diceva che i rossi si erano completamente sbiaditi.” Forse per questo poi si iscrisse al partito socialista con l’intenzione di militarvi, tant’è che arrivò a chiedere alla Dischi Ricordi, con cui aveva un contratto, di non comparire col suo nome per non subire danni d’immagine in qualità di studente di Scienze Politiche ed iscritto al PSI, pubblicò infatti numerosi brani sotto pseudonimo. Come molti artisti di sinistra Tenco era schedato negli archivi del Sifar ed inserito nella “lista nera” del governo democristiano dell’epoca in quanto elemento considerato sovversivo. Nella lettera lasciata prima di togliersi la vita Tenco esprimeva la sua speranza nell’utilità del suo gesto, voleva essere finalmente compreso. Indubbiamente era provato dalla delusione per un mondo che non lasciava …

LE ULTIME RESISTENZE

La tessera del Partito Socialista Italiano del 1921 Nonostante la crisi che travaglia il Partito socialista, e la scissione dei comunisti, nelle elezioni del maggio successivo si registra ancora un forte consenso popolare intorno al PSI: vengono eletti 122 deputati, mentre il P.C. d’I. ne ottiene 16. Dopo la firma del “patto di pacificazione” tra i socialisti e Mussolini, rapidamente caduto nel nulla, la situazione politica precipita verso la crisi del regime democratico, mentre i fascisti si preparano alla conquista del potere. In un momento simile, il PSI continua a dilaniarsi, pur dopo la scissione comunista, sul problema dell’adesione alla Terza Internazionale. Prima di qualsiasi strategia politica, la direzione massimalistica continua estenuanti e inutili trattative con Mosca per ottenere il riconoscimento di partito e membro dell’Internazionale, pur persistendo nel rifiutare l’espulsione dei riformisti. Al XVIII congresso (Milano, 10-15 ottobre 1921), confermando la loro posizione, i massimalisti presentano una mozione firmata da Serrati e Baratono, che riporta 47.628 voti; quella di Turati e Baldesi, 19.916; una mozione centrista di Alessandri, 8080; la mozione di Lazzari e Maffi, nella quale venivano accolte le richieste della Terza Internazionale, raccoglie appena 3765 voti. Di fronte alle decisioni del congresso di Milano, Mosca decide di riconoscere come membro dell’Internazionale per l’Italia solo il Partito comunista. Nella situazione che si fa sempre più grave, nella quale viene minacciata la democrazia e con essa le libertà conquistate dai lavoratori in decenni di lotte, l’incapacità del PSI (ma anche dei cattolici e dei liberali) di avere una strategia democratica, in grado di contrastare l’ascesa dei fascisti, e di assumersi le responsabilità, anche di governo, che ne conseguivano, favorisce il gioco delle forze eversive che ormai puntano con decisione ad impadronirsi dello Stato. In pieno 1922 serve a ben poco anche la costituzione dell’Alleanza del lavoro che unisce le varie centrali sindacali; e così a ben poco aiuta lo sciopero legalitario promosso dai riformisti. Questi avvertono sempre di più il pericolo della trappola in cui s’è posto il movimento dei lavoratori Italiani. La separazione, ormai matura e necessaria, avviene al XIX congresso, svoltosi a Roma, dall’1 al 4 ottobre del 1922. I massimalisti, sotto la pressione dell’Internazionale, decidono di proporre l’espulsione dei riformisti. Essi prevalgono, sia pure di poco: la mozione massimalistica ottiene infatti 32.100 voti, contro 29.119 voti andati alla mozione unitaria presentata dai riformisti. Questi, usciti dal partito, danno vita a una nuova formazione politica, il Partito socialista unitario (PSU), dove accanto ai vecchi capi, come Turati, assumono una posizione di rilievo giovani dirigenti, combattivi e coraggiosi come Giacomo Matteotti. I riformisti, che hanno ripreso così la loro libertà d’azione, non riescono a sviluppare la loro iniziativa di azione di difesa democratica: ormai è troppo tardi, gli eventi precipitano. Poche settimane dopo, la “marcia su Roma” porta Mussolini al potere. Nel congresso di Milano, portavoce della maggioranza e Baratono: nel suo discorso ha preminenza il problema della difesa “fisica” delle organizzazioni operaie e del partito contro l’ondata violenta del fascismo. Dal canto suo Treves, per i riformisti, afferma che “il partito non può negarsi a priori la partecipazione al potere soprattutto nel momento in cui abbandonava il sogno di una rivoluzione integrale”; ma non si pone, secondo Turati, il problema della partecipazione al governo, che egli continua a giudicare inattuale, “praticamente inesistente“, aggiunge Modigliani. Il congresso, a giudizio di Nenni, “condannava il partito all’inazione, perché ripudiava contemporaneamente l’azione di piazza e l’azione parlamentare, la violenza e la legalità”. Se ne accorgeva, da vecchia volpe, Mussolini, che commentando le conclusioni dell’assise socialista, osservava: “I governi non potranno contare che sull’astensione socialista, mai sul loro voto favorevole. Ne consegue una valorizzazione numerica e morale della destra nazionale, dunque dei fascisti che ne sono la maggioranza“. Si apriva così, praticamente, la strada alla conquista del potere per il fascismo, in quelle forme legali che esso aveva dimostrato di disprezzare con l’esercizio della violenza, ma capace di servirsene al momento opportuno, per realizzare il suo disegno. Da quel momento la tattica dei fascisti mutò. Mussolini puntò ad inserirsi nel gioco parlamentare fiutando la possibilità di ascendere alla guida del governo. I fascisti votarono a favore del governo Facta. Cosicché, mentre i socialisti rifiutavano di percorrere fino in fondo la via legalitaria e di farsi trascinare sul terreno della violenza rivoluzionaria, i fascisti, all’opposto, facevano l’uno e l’altro. Agivano con la violenza sulla piazza, e agivano in Parlamento come partito di maggioranza. Ciò non impedì loro di votare contro il governo Facta, insieme con le opposizioni, determinandone la caduta. Nella crisi che seguì, i vari tentativi degli Orlando, De Nicola, Bonomi, Meda ecc… non sortirono effetto alcuno. (Nitti non ebbe l’incarico, perché contro di lui c’era il veto fascista; Giolitti l’attese vanamente.) C’è da dire che, in questo momento, i riformisti sciolgono il dilemma che da lungo tempo li assillava, e decidono di seguire la via legalitaria, reclamando lo scioglimento della Camera e la convocazione degli elettori sulla base di un sistema elettorale modificato: cioè il ritorno al sistema uninominale che veniva richiesto per ragioni che rimangono, ancor oggi, imperscrutabili. Ma essi fanno ulteriori passi innanzi. Il 21 luglio 1922 il gruppo parlamentare, a maggioranza, votava un ordine del giorno di Modigliani che dichiarava la disponibilità socialista a partecipare a un governo che fosse in grado di “assicurare il rispetto della volontà dell’Assemblea nazionale per la libertà e il diritto di organizzazione“. Turati salì le scale del Quirinale, nel corso delle consultazioni. In realtà l’ala progressista della borghesia non offrì ai socialisti la possibilità di concretizzare questa loro scelta. Nessuno degli uomini politici interpellati, da De Nicola a Orlando, se la sentì di assumere un’iniziativa di questa natura: tutto quello che si offrì alla dichiarata disponibilità dei parlamentari socialisti fu un secondo gabinetto di quel Facta contro il quale essi avevano già assunto un atteggiamento di opposizione; e al quale, quindi, era difficile, se non del tutto impossibile, concedere fiducia. A rendere inestricabile la situazione intervenne anche lo sciopero generale dell’agosto proclamato dall’Alleanza del lavoro. Era, come lo definì Turati, “uno …

TERRACINI, L’AVVOCATO CHE AVEVA FONDATO IL PCI ALLA FINE DISSE: «AVEVA RAGIONE TURATI…»

di Giuseppe Loteta Correva l’anno 1968 quando le città universitarie italiane furono investite dall’uragano della contestazione studentesca. A Roma, in aprile, gli studenti avevano reagito alle cariche della polizia. E fu la “battaglia” di Valle Giulia. Seguita pochi giorni dopo, in piazza Cavour, dalla rivincita dei poliziotti, che effettuarono una dura carica durante una manifestazione, colpendo indiscriminatamente chi si trovava a portata di manganello e di calcio di moschetto. A l’Astrolabio, il settimanale fondato da Ernesto Rossi e diretto da Ferruccio Parri, seguivamo gli eventi con interesse e partecipazione. E pensammo di intervistare Umberto Terracini. Chi meglio di lui, comunista eterodosso e dall’assoluta libertà di giudizio? Eravamo convinti che non avrebbe sposato la cautela del Pci nel seguire l’evolversi del movimento studentesco in Italia e in tutta Europa, che non sarebbe stato insensibile, lui, vecchio rivoluzionario, alle posizioni “barricadere” degli studenti, alla loro pratica di una democrazia diretta. Chi ci va? Proprio in quei giorni era ritornato dalla Francia Giampiero Mughini, dopo avere partecipato alle manifestazioni del maggio studentesco e disselciato dalle strade parigine la sua porzione di pavé. Era un collaboratore del giornale e si trovava con noi in redazione quando decidemmo di chiedere l’intervista. È la persona più indicata, pensammo. Tuttavia, c’era un problema. Rispondendo alla nostra telefonata, Terracini ci aveva detto che era disponibile subito. Ma Mughini indossava una vistosa camicia a fiori, un pantalone a zampa d’elefante e scarpe da tennis. Impossibile farlo andare in quelle condizioni. Ognuno di noi si tolse di dosso qualcosa, giacca, camicia, pantaloni, cravatta, scarpe, e lo vestimmo di tutto punto. Andò all’appuntamento. E dovette fare i conti, anzitutto, con un singolare rituale. Quando riceveva un ospite nel suo studio di ex presidente dell’Assemblea Costituente, Terracini faceva accomodare l’ospite in una capiente poltrona di pelle e lui si sedeva su uno sgabelletto di legno. Se andavi a trovarlo per la prima volta, l’operazione ti lasciava di stucco. Provavi ad alzarti, a protestare. Ma lui, inflessibile, ti rimetteva giù. «Questa è la regola», diceva. E si parlava. Mughini cominciò con le domande. E Terracini, dal suo sgabelletto, lo gelò. Che cosa pensava della contestazione studentesca, dei moti che dai Campus americani si erano rapidamente estesi in tutta Europa, in Francia, in Germania e ora in Italia? «Chi frequenta una scuola secondaria o un’Università», rispose Terracini, «si definisce studente proprio perché il suo compito prioritario è quello di studiare: È questo che deve fare. Se, poi, vuole occuparsi anche di politica, fa bene a farlo. Si iscriva a un partito. In un paese democratico non mancano certo le occasioni per far politica». Ma le loro idee? «Proprio perché sono impegnati dallo studio ad una conoscenza panoramica ma superficiale dell’intero scibile, gli studenti sono predisposti per acerbità della loro mente, più ricettiva che elaboratrice e critica, a recepire in ibrida commistione, che spesso è semplicemente confusione, le più svariate concezioni filosofiche con le corrispettive appendici sociali e politiche». La democrazia diretta, le assemblee che decidono tutto? «Fandonie. La democrazia non può che essere rappresentativa». Risposte quanto mai controcorrente rispetto al vezzo allora imperante nella sinistra italiana di adulare la gioventù sessantottina e di fare proprie, anche se con molta cautela, le motivazioni della rivolta studentesca. Ma controcorrente Terracini aveva sempre navigato, pagando spesso di persona, tutte le volte che la coscienza gli aveva imposto di farlo. Poco più che ventenne è nella direzione del partito socialista. Nel gennaio del 1921, nel congresso di Livorno, la corrente massimalista, guidata da Bordiga, Tasca, Gramsci, Togliatti e Terracini, si scinde dall’ala riformista, guidata da Filippo Turati, e fonda il partito comunista. E nello stesso 1921, pochi mesi dopo, al terzo congresso dell’Internazionale comunista, che si svolse a Mosca dal 22 giugno al 12 luglio, Terracini da una prima convincente prova del suo anticonformismo. È un episodio che vale la pena di raccontare. Nei quindici mesi precedenti erano successe tante cose. La neonata Russia sovietica era stata investita da una forte carestia e da un’ondata di scioperi. In marzo era avvenuta la rivolta libertaria dei marinai della base navale di Kronstadt, non lontano da San Pietroburgo, che Lenin e Trockij avevano represso con le armi. Nel 1920 Lenin aveva scritto “L’estremismo malattia infantile del comunismo” e l’aveva distribuito ai partecipanti del secondo congresso dell’Internazionale, alcuni dei quali erano citati nel testo. Pochi mesi prima in Germania era stata stroncata un’azione rivoluzionaria dei comunisti, guidata da Bela Kun. Ce n’era d’avanzo perché i sovietici si presentassero al terzo congresso con una piattaforma moderata, di netto rigetto delle fughe a sinistra. Nella relazione introduttiva, Trockij condannò nettamente l’estremismo, senza escludere la possibilità di un dialogo temporaneo con forze riformiste. Sulla stessa linea, l’intervento di Zinoviev e il documento conclusivo stilato da Radek. A questo punto il congresso sembrava concluso. Chi avrebbe osato opporsi alle tesi della dirigenza sovietica? Ma, quando giunse il suo turno, Terracini salì alla tribuna e pronunciò un duro e appassionato intervento che faceva a pugni con la linea morbida dei sovietici. «La Terza Internazionale», disse, «deve ancora combattere una grande battaglia contro le tendenze di destra, contro le tendenze centriste, semicentriste e opportuniste… È una lotta che ci sta ancora dinanzi in tutta la sua grandezza». Mentre parla ha un vivace battibecco con Trockij. «Il compagno Trockij scuote la testa: sembrerebbe che non creda a quello che sto dicendo». «Non mi riferisco soltanto a quello che stai dicendo in questo momento». «L’ho ben intuito. Posso tuttavia dire con certezza che la mia affermazione corrisponde al vero stato d’animo del proletariato italiano». Dopo Terracini è Lenin a prendere la parola. Conclude il dibattito invitando i congressisti a votare la risoluzione presentata dai sovietici. Polemizza garbatamente con Terracini. Prima di salire sul palco aveva incrociato il delegato italiano che ne discendeva. Gli aveva poggiato sorridendo una mano sulla spalla e gli aveva mormorato: “Plus de souplesse, camerade Terracini, plus de souplesse”. Ma è ancora niente. Nella seconda metà degli anni Venti, Terracini è un dirigente comunista affermato, maturo. Affascina compagni ed avversari con il rigore della sua …

COS’E’ LIVORNO “RITORNO AL FUTURO”

di Aldo Potenza A Livorno non intendiamo costruire il recinto identitario dei socialisti, ma chiamare a raccolta i socialisti, come è comprensibile ed ovvio, e quanti sentono che le risposte finora venute dalla sinistra sono state insufficienti sia numericamente sia culturalmente ad affrontare le difficoltà della sfida neoliberista. Siamo convinti che abbia ragione, anche se inascoltato da tempo, Salvatore Biasco quando afferma che: “…non viviamo affatto in un mondo post ideologico, nel quale esiste una forza chiamata centrosinistra, ma in un mondo pervaso da un’ondata ideologica potente, che rischia altrimenti di essere lasciata senza antidoti e che diffonde elementi culturali (edonismo, individualismo, smobilitazione politica, ecc..) lontana da quelli comunitari, solidaristici e di democrazia partecipata, che sono propri della sinistra” democratica e socialista. Noi ci chiediamo perchè mai i socialisti non debbano difendere questi principi e chiedere a chiunque li condivida di unirsi per sostenerli. Livorno sarà un primo appuntamento, un inizio, ma seguiterà se saremo sostenuti dalla volontà e dalla passione politica, un altro appuntamento dove tenteremo di dare alcune risposte ai problemi sollevati da una globalizzazione che ha dimenticato la difesa dei diritti umani e ha risposto solo agli interessi delle multinazionali economiche e finanziarie; alla cultura dominante in Europa; ai problemi dell’Italia. Siamo presuntuosi? Si e anche velleitari se pensassimo di fare tutto da soli, ma non è la nostra intenzione, noi vogliamo rivolgere un appello al mondo degli intellettuali che condividono il malessere che sentiamo noi e i cittadini italiani. Più che presuntuosi forse siamo ottimisti, ma senza ottimismo e senza la volontà di tentare non resta che assistere imbelli al disastro e questo non sarebbe ne giusto ne perdonabile a chi a fatto della propria vita lo strumento per combattere contro le ingiustizie. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

“INTRODUZIONE AL PENSIERO POLITICO DI TURATI”

Questo scritto apparve sotto forma di una prefazione alla terza edizione de “Le vie del socialismo” editore Lacaita – 1992). La prima edizione dei testi turatiani è del 1921, curata da Mondolfo. La seconda edizione apparve nel 1966 e fu voluta da Giuseppe Faravelli, direttore della “Critica Sociale” di Gaetano Arfè La prima edizione di questa raccolta ebbe un curatore d’eccezione, Rodolfo Mondolfo, storico di altissimo valore della filosofia antica e al tempo stesso interprete, il maggiore e il più originale in Italia, del marxismo nella sua versione democratica e gradualista. È un filone di pensiero che non ha goduto in Italia di molta fortuna. Tra gli studiosi italiani a dedicargli specifica cura è stato Norberto Bobbio, che ha raccolto gli scritti filosofici di Mondolfo e anche quelli del giovane Eugenio Colorni, ucciso dai fascisti in Roma, alla vigilia della Liberazione presentando, gli uni e gli altri, con saggi introduttivi che sono magistrali capitoli di una storia del pensiero socialista in Italia, ancora da scrivere. Umanismo di Marx fu il titolo che Bobbio dette alla sua raccolta di saggi marxisti di Mondolfo, ma il libro apparve nel 1968, un anno decisamente non favorevole alle revisioni “socialdemocratiche” del marxismo e l’autorevolezza del curatore non fu sufficiente a destar l’attenzione dei revisionisti di segno opposto che allora tenevano fragorosamente il campo. I testi turatiani pubblicati da Mondolfo videro anch’essi la loro prima luce in un anno, il 1921, nel quale il socialismo riformista non godeva della buona fortuna, stretto com’era tra un partito comunista appena nato, ma aggressivo, estremistico e settario, e un partito socialista a forte maggioranza massimalista, arroccato a difesa di una bigotta ortodossia rivoluzionaria riducibile a rumorosa e fiduciosa attesa che la borghesia agonizzante decedesse. La borghesia non defunse e dette decisamente avvio alla sua controrivoluzione, postuma contro la rivoluzione che non c’era stata, preventiva nei confronti di quella che si temeva o che si fingeva, secondo Turati, di temere. Ai veri e ai sedicenti rivoluzionari Mondolfo intendeva proporre, prima che fosse troppo tardi, il ritorno sulle vie maestre del socialismo riformista, documentando e esaltando la continuità di una linea politica che risaliva al congresso di Genova del 1892 e che si era sviluppava, al passo coi tempi, ma lungo un filo di mai smentita coerenza, nei tempestosi decenni che ne erano seguiti. I fatti avevano, di regola, dato ragione a Turati anche quando i suoi compagni nei congressi gli avevano dato torto. Ed era, comunque, un fatto incontestabile che l’azione del socialismo riformista, pragmatica, ma guidata da una dottrina, aveva portato il proletariato italiano, nello spazio di meno di un trentennio a livelli di civiltà comparabili con quelli dei maggiori paesi dell’Europa liberale. L’apporto personale di Mondolfo – la sua introduzione, la trama nella quale inserì i testi scelti – non è marginale. Esso dava all’opera una compiuta organicità, ricostruendo il pensiero politico di Turati, mai esposto in saggi di lunga lena, diffuso in scritti e discorsi sempre meditati e preparati con estrema cura, ma anche sempre legati all’attualità politica. Il filosofo che mai volle avere parte attiva nella vita di partito non fu soltanto militante appassionato per tutto il secolo che egli visse e con lui il fratello Ugo Guido e la cognata, la indimenticabile signora Lavinia, fu anche osservatore politico di grande lucidità e di rara acutezza: basti ricordare la “Biblioteca di studi sociali” che egli promosse e diresse per l’editore Cappelli, nella quale apparvero, accanto a Le vie maestre di Turati, testi di cultura politica rimasti classici, dalla inchiesta a più voci, sul fascismo, da lui stesso curata, agli scritti di Antonio Labriola, di Gaetano Salvemini, di Piero Gobetti. La seconda edizione, estesa agli anni successivi, fino alla morte di Turati, fu voluta, con gli stessi intendimenti da Giuseppe Faravelli, e apparve nel 1966, in vista del varo della “Costituente socialista“, nella quale Mondolfo, ormai novantenne e residente nella lontana Argentina, dove lo avevano portato le leggi razziali, riponeva grandi speranze. Non meno fervide, ma gravate di non infondati timori erano le speranze di Faravelli. In me, più addentro nella conoscenza di uomini e fatti, i timori prevalevano sulle speranze, anche se non incidevano sulla mia buona volontà di cooperare al buon esito dell’impresa. In realtà, la “costituente“, sotto il manto della grande, trascinante oratoria di Nenni, si ridusse, in sostanza, alla unificazione forzata tra il Partito socialista e il Partito socialdemocratico, destinata a durare meno di tre anni di travagliata e rissosa esistenza, segnata dalle percosse della ondata sessantottina e da una prova elettorale che contraddisse le rosee previsioni della vigilia. Il libro, come già in altra occasione ho avuto modo di ricordare, fu rifiutato dai maggiori editori, nonostante l’intervento personale di Giuseppe Saragat, allora Presidente della Repubblica. A stamparlo, grazie all’intervento di Pietro Piovani, fu Morano di Napoli, titolare di una casa editrice di antiche e gloriose tradizioni, ma di modeste dimensioni aziendali. Toccò a me, su perentorio ordine di Faravelli, di aggiornare la raccolta e di approntare in tempi brevissimi i testi, d’intesa con Mondolfo, il quale, peraltro, convinto che il libro sarebbe andato a ruba, propose, col mio pieno consenso, che i diritti d’autore fossero devoluti alla Critica Sociale, afflitta da una miseria cronica, che era la croce o l’orgoglio del suo direttore Faravelli, una delle figure meno ricordate e più belle del socialismo italiano. Ed era lui, soprattutto a far fronte alle difficoltà, anche con questue condotte con lo spirito di un frate cercatore, che non conosceva le arti della lusinga e che non mancava di far balenare sui riluttanti e sugli avari la minaccia della scomunica nel nome di Filippo Turati, del quale egli si sentiva in terra l’indegno ma insostituibile rappresentante. Una sola volta salì le scale del Quirinale quando fu, per breve tempo, senatore e fu per dire a Saragat, a ringraziamento di una generosa offerta: “Da uno spilorcio come te mi sarei aspettato di meno“. Col candore del filosofo, rimasto inoffuscato attraverso i lunghi decenni della sua esistenza, Mondolfo, per l’occasione, fece anche pervenire a …

LELIO BASSO

Dalla lotta antifascista alla Costituente, Lelio Basso ha informato in maniera determinante la storia del Socialismo italiano nel Novecento. Attraverso una lucida conoscenza dei fenomeni caratteristici del Capitalismo, la sua analisi risulta ancor oggi insuperata e profondamente attuale. di Antonio Martino* La macchia nera procede lenta, staccando rare e velate ombre sulla scala di grigi del cielo d’Inverno. Tra dicembre e gennaio, a Milano, il buio delle nuvole concorre gagliardo con la Notte, e non sono rari quei giorni/notti in cui le ore di luce tendono paurosamente a zero. Da lontano, quel piccolo e monotono corteo potrebbe parire una teoria di governativi, infeltrati nel nero delle camice d’Ardito e dal livore dello squadrista: un’occhiata attenta, aiutata da un solitario e triste lampione a gas, distingue i particolari e chiarisce il dubbio. Non v’è baldanza né sicumera né pittoresca appariscenza del tipo fascista. Di converso, la folla cantilena sommessa, senza alcun ardore littorio: ai fianchi umili ombrelli chiusi sostituiscono i manganelli nodosi dei Fasci. Si avvicinano. Una bara rigata dalla brina apre il triste passo. E’ un funerale! I passanti infreddoliti notano alcune stranezze, che il borghese meneghino ben conosce e schifa: bandiere rosse listate a lutto, fiocchi Lavallière che incorniciano barbe ispide, cappellacci tirati su occhi profondi e di brace. Un funerale, sì, per giunta socialista! I marciapiedi si svuotano rapidi. Di questi tempi, simili manifestazioni- ancorché di lutto- non passano indisturbate. Le cose son cambiate, i treni arrivano in orario e ai sovversivi ormai non resta che nascondersi o scappare: il 1925 ha regalato all’Italia un dux nuovo di zecca, e i vecchi compagni dell’ex direttore dell’Avanti! sono persone non gradite nell’Italia risorta di Mussolini. Alcuni di loro, ingobbiti dagli anni nei paltò consunti, quasi quasi invidiano Anna Kuliscioff, la protagonista del funerale: tempismo perfetto per morire, all’alba della dittatura e alla fine della teoria di sconfitte proletarie che ha segnato il Dopoguerra. Pensieri da vecchi, rintontiti dalla fatica e dal positivismo fin de siecle che ha distrutto il Socialismo italiano, pensano i (pochi) altri presenti. Sono giovani, delusi e al tempo stesso ancora più convinti dell’Idea. Il sole dell’Avvenire, per loro, non è tramontato affatto. Parlottano fitti fitti nella nebbiolina del pomeriggio, avvinghiati dalla passione e dal freddo. Una coppia, in particolare, si distingue per la foga del loro fraseggio: agli scivolamenti marchianamente romagnoli s’accorda il duro accento della Liguria, all’impeto dei vent’anni risponde la composta volontà dei trenta. Si sono appena conosciuti, ma sanno già cosa dire e, soprattutto, cosa volere. Pietro Nenni e Lelio Basso camminano insieme, nel lugubre meriggio del 29 dicembre, fino al Cimitero Centrale. Quando la lastra fredda chiude la sepoltura, un’epoca epica e fallimentare della storia del Socialismo italiano termina per sempre, e nei presenti il ghiaccio del passaggio s’avverte nei brividi e nel pianto. I più baldi- guidati da Pietro e Lelio- gridano a mo’ di addio “Viva il Socialismo!”. Non aspettavano altro. Dalle gradinate del camposanto calano altri e più scattanti uomini in nero: voilà i fascisti, ecco la guerra civile. Gli astanti vengono letteralmente investiti dal pazzo vigore degli squadristi: teste rotte, occhiali insanguinati, urla e alalà turbano il sacro sonno dei defunti. Nenni e Basso sono colpiti più volte, reagiscono, bestemmiano, le danno e le prendono, resistono. Placatasi la marea, i due si salutano contandosi le ferite: sanno entrambi, perfettamente, che nel sangue è nato un legame, da compagno a compagno, destinato a segnare nel profondo la storia d’Italia. Nato il giorno di Natale del 1903 a Varazze, in provincia di Savona, Lelio trascorre i primi anni nella tranquilla quiete borghese dell’Italietta giolittiana: il padre Ugo, insegnante, gli trasmette sin dall’infanzia la passione per la politica e l’impegno attivo nella vita del Paese. Nel turbinoso collasso della belle èpoque rivendicazioni sociali e guerre d’oltremare si inseguono a ritmo vertiginoso, e per un bimbo dalla fervida immaginazione i baffoni di Pancho Villa e il bel suol d’amore tripolino divengono un tutto avventuroso che segue, quasi anticipando, gli esotici scenari Salgariani. La folgore della guerra, però, raggiunge presto il Vecchio Continente; nel 1916 la famiglia Basso lascia la Liguria alla volta di una Milano incupita dalla disciplina bellica e dal ciclo continuo degli stabilimenti industriali. Il tredicenne Lelio si iscrive al Regio Liceo-Ginnasio “Berchet” nel momento in cui il conflitto entra nella fase più dura e disperata: all’ombra della Madonnina si disvelano gli ingranaggi di miseria e di inganno su cui si reggeva lo Stato liberale: “Fu così che, a poco a poco, cominciai a vedere il vero volto della guerra, le cui distruzioni e carneficine cancellavano brutalmente tutto quello che mi era stato insegnato sui valori della civiltà e del progresso. Certo io non aveva allora nessuna idea dei meccanismi dell’imperialismo, ma cominciavo a vedere da vicino dolori patimenti e ingiustizie, e cominciavo a intuire vagamente che dietro la vernice liberale della società in cui vivevo potevano nascondersi le espressioni più smaccate del privilegio e le supreme follie del nazionalismo, che imparavo in quel tempo ad odiare anche nelle manifestazioni più ingenue dei miei compagni di scuola.” Gli anni del liceo coincidono con la Vittoria e l’inizio del drammatico dopoguerra. Entrando in classe il primo ottobre del 1918 Lelio capita inconsapevolmente in una fucina di intellettualità, destinate dal Fato a vaste e varie peripezie: nel registro polveroso la bella grafia ricorda ancora i nomi di Mario Damiani e Vittorio Albasini, poi processati dal Tribunale speciale; Antonello Gerbi, nipote del leader socialista Claudio Treves; Luigi Gedda, futuro promotore dei Comitati Civici e politico di punta della prima Democrazia Cristiana. A guidare il drappello di giovani dalle belle speranze è il professore di Storia Ugo Guido Mondolfo, distante dalla caricatura classica del socialista che fino ad allora il liceale avea incontrato in piazza. Serio, distinto, profondo e misurato, Mondolfo instaura con i “suoi” ragazzi un legame intellettuale profondo, onesto perché non fazioso: pur non parlando mai di Socialismo, attraverso il racconto marxiano del divenire storico il maestro trova nell’imberbe allievo un compagno “Sicché finalmente, proprio grazie all’insegnamento di Mondolfo, io …