I SIGNORI DEL GOVERNO, LE LEGGI FASCISTISSIME, IL RICORDO DI FELICE BESOSTRI

di Franco Astengo | 1) Dopo essersi messa la legge sotto i piedi i signori del governo strepitano di “giudici comunisti” e di magistratura all’opposizione; 2) Il metodo che viene seguito per ovviare a questi “inconvenienti” è quello delle leggi fascistissime: fare strame delle leggi vigenti, modificarle a proprio uso e consumo per affermare l’autorità (in questo caso anche in barba alle leggi internazionali). Così andrà presumibilmente il CdM di lunedì prossimo. Insomma dalla “democratura”, all’autocrazia nel segno del comando invece di quello del governo; 3) Nel ricordo di Felice Besostri si rammenta che questi signori del governo rappresentano in realtà il 26,72% dell’intero corpo elettorale (dato delle elezioni politiche 2022, in calo nelle elezioni europee 2024). Soltanto lo stolto marchingegno della formula elettorale ha fatto sì che nella nuova aula da 400 seggi, la soglia per la maggioranza assoluta sia fissata a quota 201. La coalizione tra Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi moderati la supera con ampio margine, sfiorando i 240 seggi totali, il 59% dei seggi (ricordando sempre il 26,72% dei voti calcolato sull’intero corpo elettorale). I gruppi di centro-destra, con 116 senatori su 206, hanno la maggioranza anche nell’altro ramo del parlamento. Per non dimenticare: a) Felice Besostri e le sue battaglie sulle leggi elettorali; b) l’enorme distorsione della rappresentanza in un sistema politico estremamente fragile; c) va aperta una fase di forte conflittualità sociale. La manifestazione di ieri dei metalmeccanici deve essere presa come apripista di una vera e propria “stagione” di rivalutazione del conflitto. d) che dietro l’angolo ci sta l’idea del premierato: che non passi la formula fin qui escogitata dalla destra è possibile ma l’idea della “solitudine” al comando rimane viva e molto pericolosa.

DICHIARANO LA SUA MORTE DA OLTRE UN SECOLO, MA E’ VIVO!

Questa raccolta stralci di articoli sono tratti dagli archivi del Senato della Repubblica. «La morte del socialismo». Appunti a Benedetto Croce. ITALIA ANNO 1911 Il “morto” vive e dà parecchio fastidio a coloro che lo vorrebbero morto ad ogni costo…LA STORIA CONTINUA L’atto di morte del socialismo Oramai che il socialismo italiano s’avvia a gradi passi ad essere un partito di governo, rimanendo anticattolico in filosofia e sfruttatore progressista in finanza, gli studiosi, che si occupano di question sociali, cominciano a scriverne l’elogio funebre, giudizi precisi, che vengono pronunciati e l’atto di morte che viene sottoscritto, essendo tutti d’avversari nostri, rivestono uno speciale carattere d’importanza. Li notiamo per questo. Giorni or sono il Giornale d’Italia pubblicava sotto forma di intervista, il giudizio chiaro e netti del sen. Benedetto Croce. Il notissimo filosofo cheebbe un tempo, non remoto, viva simpatia per il Partito Socialista, ha dichiarato apertamente che ilsocialismo italiano è morto. Dunque l’on. Benedetto Croce ha detto che il socialismo è morto, non solo il socialismo, ma anche il sindacalismo! A mare  Marx, a mare Antonio Labriola, a mare Sorel, tutti in fondo: galleggia solo l’on. Senatore, filosofo, esteta, e a tempo perso ancora socialista, perchè dalla intervista apparsa nel Giornale d’Italia mi pare di rilevare in quel suo elogio funebre al socialismo un senso quasi direi di nostalgia giacchè per chi non lo sapesse il Croce che fu uno dei migliori e più apprezzati discepoli di Antonio Labriola — il primo, che chiamò scientifico, almeno in Italia il socialismo marxista, e ciò perchè, (come mai il Croce l’ha dimenticato?) Marx per primo diede al socialismo la sua base scientifica nella teoria del materialismo storico dunque dicevo anche il Croce un tempo fu socialista. Nè, per onor suo diremo, che ciò fosse perchè allora forse non sognava il senatorio laticlavio; ben altre origini hanno in certe intelligenze le reversioni e le apparenti apostasie! Ma non si illuda il dotto professore napoletano: il socialismo non è morto quando si è dato vita, anima, personalità a plebi abbrutite e incoscienti, e si è chiamato queste plebi agli onori delle lotte storiche e civili non si può, nè si deve morire né muore un’ideale che ha per iscopo la redenzione degli oppressi e degli sfruttati fino a quando ci saranno al mondo oppressi e sfruttati. Il proletariato oramai ha trovato la sua via, e non la perderà, chi l’ha persa è il senatore Benedetto Croce. E quelli che si scaldano a quel fuoco se ne avvedranno. Non sentite che il popolo già tumultua, e impone che gli si dia miglior vita, e più alta civiltà, la sua? Ma vi è dell’altro, on. Professore: per essere socialisti occorre molto di più, o se vi pare anche, molto di meno che per essere filosofi, ed esteti; perchè il socialismo è veramente scienza, filosofia, arte, ma per essere socialisti sopratutto occorre aver provato, o almeno conosciute davvicino, molto davvicino le ingiustizie e le miserie sociali, e aver voluto e volere che questo abbiano fine per dar luogo a una civiltà superiore e veramente umana. Ma allora non si è più né filosofi, nè esteti:si è ribelli, e non si finisce, in Senato. _____________________ Anzi egli crede che non solo esso è morto, ma che conviene proclamarne la morte, non foss’altro per impedire a tanti ciarlatani di far finta di crederlo ancora vivo e vegeto, e per togliere molte brave persone dal penoso bivio, in cui si trovano, o di rendersi colpevoli d’ipocrisia simulando una fede che non è più ne’ loro animi, o se si sottraggono a questa ipocrisia, di essere accusati come feditraghi. Lo scrittore Kuno Waltemath poi facendo un largo e profondo studio, pubblicato nel gennaio scorso nella Rivista tedesca Prussische Jahrbucher, sul socialismo della Germania e di altri grandi stati, neppure si prende pensiero di dire una parola di quello italiano. Commentando lo studio del valoroso scrittore tedesco, un giornale liberale, l’Unione di Perugia, scrive queste sante parole: Il nostro socialismo è artificiale, è meccanico, pratico, o che cos’è? _____________________ QUEL BENEDETTO CROCE Un’altra strenna ai mangia socialisti, avendo il prof. Croce proclamata la morte del socialismo, tutti i nemici presenti e futuri del socialismo possono permettersi il lusso — giacchè il Giornale d’Italia e pubblica 1’intervista al posto d’onore in prima pagina, con il titolo sensazionale – di acquistare per un soldo il documento che attesta la morte del socialismo; potranno magari metterlo in cornice per dimostrare ai loro dipendenti operai socialisti che il loro ideale di rivendicazione sociale è un sogno, che la fonte delle loro speranze un’illusione, che tutto ciò che per mezzo secolo ha formato la convinzione di centinaia di migliaia di militanti, ciò che ha nutrito la loro coscienza, alimentata la loro fierezza, guidato il loro pensiero, la loro azione nel presente, la loro speranza nell’avvenire, tutto ciò è stato un sogno. Che giubilo per i capitalisti, i preti, i poliziotti, per tutti i nemici della libertà del popolo! DE PROFUNDI? Siamo in periodo di sventura! Mai come ora il fato s’è accanito contro la carcassa incomoda del Socialismo! In alcuni paesi italiani si ritiene che un falso annunzio di morte riesca ad allungare la vita. Così sia. Ma i cappellani necrofori hanno cantato il De profundis e le prefiche piangono, poverine, piangono come vitelli lattanti! Datevi pace, buone genti! Questo pruno negli occhi, che si chiama socialismo, è vivo, non ha nessuna voglia di morire e vi accorgerete fra poco se ha la forza per farvi ballare un nuovo e più vorticoso fandango. Lasciategli compiere la sua missione storica, e poi, vedrete, s’acconcerà da sè a tirare beatamente le cuoia. Prima no. Vi dispiace, lo sappiamo, ma il socialismo, credetelo e persuadetecene, non è nato per farvi fare buon sangue! Ecco il primo cappellano necroforo. Pelame parecchio maculato per via di certe non limpide faccende banco-scontistiche, ispido, occhi fuori dell’orbita per certo primato scientifico, toltogli dagli iconoclasti novelli; segno caratteristico: fobite acutissima contro le agitazioni sindacali e contro tutto ciò che non è democratico. _______________ Dobbiamo …

FINANZIARIA E PIANO SETTENNALE

Ho sempre sostenuto che questo governo si sarebbe trovato in grosse difficoltà nel predisporre la finanziaria per il 2025 e, dopo la sospensione per il Covid, con il piano di rientro del debito da programmare per i prossimi sette anni. Noi ci troviamo con un debito che sfiora i tremila miliardi di euro, siamo sotto procedura europea per eccesso di deficit, siamo in grossa difficoltà produttiva, le previsioni di andamento del PIL sono, come dice Prodi, dello zero virgola. Dobbiamo quindi ridurre il debito, ma per ridurre il debito dobbiamo passare da un bilancio in deficit a uno con risparmio primario (cioè senza considerare gli interessi), oppure (o contestualmente) dobbiamo incrementare il PIL di modo che il rapporto debito/PIL migliori. Ma per aumentare il PIL dobbiamo fare investimenti, spendere cioè dei soldi che necessariamente vanno ad incrementare il deficit. Sono obiettivi che richiedono interventi che confliggono l’uno con l’altro e che comunque devono fare i conti con le pretese dei partiti al governo: chi vuole anticipare la possibilità di andare in pensione, chi non vuole che si tassino i super profitti, chi non vuole sentir pronunciare la parola “SACRIFICI”. Insomma non invidio Giorgetti. Vediamo allora di esaminare i vari possibili interventi: ● Il debito a fine 2023 era pari al 134.8 del PIL e siamo richiesti di ridurlo di un punto percentuale di PIL per ogni anno fino alla fine del piano settennale. La riduzione del tasso debito/PIL si ottiene o riducendo il debito o (magari contestualmente) aumentando il PIL. ● La riduzione del debito richiede che annualmente si generi un avanzo primario (al netto cioè degli interessi) e tale riduzione si ottiene o aumentando le entrate o (magari contestualmente) riducendo le uscite. ● L’aumento delle entrate si ottiene con tre azioni: combattere l’evasione fiscale, aumentare le imposte e le tasse oppure vendendo i gioielli di famiglia. ○ Sul fronte dell’evasione fiscale non vedo nelle azioni del governo un programma preciso. Eppure nel programma di governo di due anni fa c’era l’indicazione di utilizzare in modo proficuo l’Intelligenza Artificiale che, utilizzando tutte le banche dati a disposizione del governo, potesse, individuare scompensi significativi tra spese e redditi dichiarati (o non dichiarati) dal contribuente. Ricordo che l’evasione si aggira sui 90/100 miliardi annui e che quindi, oltre a combattere un furto evidente, la lotta all’evasione darebbe un buon contributo ai nostri conti. Ricordo ancora che con provvedimenti seri, come quello della fatturazione elettronica ideata da Vincenzo Visco ed attuata dal governo Renzi,  si è potuto abbattere in buona misura l’evasione dell’IVA e conseguentemente quella delle imposte sui redditi. Ci sono altre proposte, sempre di Visco, che potrebbero essere attuate se ci fosse la volontà politica. ○ Aumentare le imposte. Da anni, su questo fronte vige il motto “meno tasse per tutti”, smentendo l’opinione di un ministro delle finanze che riteneva che le imposte fossero un chiaro esempio di solidarietà nazionale. Tutti i partiti rifiutano di ricorrere a questo mezzo che è ritenuto un sicuro vulnus contro il consenso elettorale: mai aumentare le tasse se non si vogliono perdere voti. Chi veramente può ricorrere a questa scelta è il governante cui non interessa il consenso; generalmente quando servono azioni anche impopolari si ricorre al “governo tecnico” (vedi Dini, Monti, Draghi) che affronta il problema senza preoccupazioni elettorali e imposta azioni più o meno condivisibili ma efficaci per raggiungere lo scopo. Classico esempio è la riforma Fornero, contestata eternamente da quel buffone di Salvini ma che contribuisce a rimediare ai problemi della finanza pubblica. A questo proposito si parla di “aumentare le tasse” quando si prospetta la revisione del valore catastale degli immobili che hanno ristrutturato ricorrendo al bonus 110%. ○ Ebbene se chi ha ricorso al superbonus ha incrementato il valore del suo fabbricato e di conseguenza dovrebbe pagare più imposte (se dovute) basate sul valore catastale dell’immobile,  non può inquadrarsi nella fattispecie dell’aumento delle imposte. Mi spiego, se mi hanno promosso a dirigente e quindi mi hanno aumentato lo stipendio, pagherò certamente più tasse ma non perché hanno aumentato le imposte ma perché è aumentata la base imponibile su cui applicare le imposte. Se quindi con soldi che lo stato mi ha regalato ho ristrutturato casa e quindi la casa ha un maggior valore, non mi hanno aumentato le tasse, ma hanno applicato le imposte dovute su una maggior  base imponibile. Diverso è il caso in cui il governo Draghi (guarda caso un governo tecnico) ha modificato l’art. 67 del Tuir, rendendo tassabile la plusvalenza realizzata dalla vendita di un immobile che abbia goduto dei benefici del superbonus anche se la casa è posseduta da più di 5 anni dal momento dell’acquisto. In questo caso sì esiste una nuova imposta; non nel caso della rivalutazione catastale dell’immobile il cui valore è obiettivamente aumentato. Al proposito c’è da chiedersi perchè tutti i possessori di edifici il cui valore commerciale è decisamente e permanentemente aumentato (vicinanza di una stazione metro, essere locati nei pressi di Piazza Navona, godere di una situazione commercialmente richiesta) non abbiano richiesto la revisione della rendita catastale che comporta un aumento dell’IMU se dovuta e delle imposte di successione. ○ Ma un sistema per aumentare il gettito fiscale sarebbe quello di tornare al dettato costituzionale della progressività delle imposte, progressività che opera solo nei confronti di lavoratori dipendenti e pensionati ma che è stata eliminata (regalo elettorale) a tanti soggetti con l’introduzione della flat tax, che il programma di questo governo vorrebbe estendere a tutti, mandando il paese allo sfascio. ○ Vendere i gioielli di famiglia: si parla delle privatizzazioni, quelle che in abbondanza furono eseguite dal governo Prodi, più che per ragioni di riduzione del debito, per seguire una ideologia libero-mercatistica di dubbia efficacia economica. Ebbene, questo governo sta vendendo quote di Poste Italiane e di Eni al fine di recuperare fondi con cui ridurre il debito pubblico. Lo Stato mantiene comunque la “golden rule”, ovvero il potere di guidare le scelte di questi investimenti strategici, ma perde, negli anni futuri, dividendi derivanti dalle sua partecipazioni azionarie; …

SAN LEUCIO, LA PATRIA DEL SOCIALISMO

di Marcello Grotta | Era il 20 Novembre 1789 quando a San Leucio si sperimentò il primo esempio di repubblica socialista della storia moderna, e di realistica attuazione di quella tipica Utopia idealistico – razionalista dell’Illuminismo dell’epoca, specchio di tutte le più famose teorie utopistiche da Platone alla “Città del Sole” del calabrese Tommaso Campanella, a Tommaso Moro, con la istituzione di una Colonia, ad opera del re delle Due Sicilie, Ferdinando IV di Borbone, in quello stesso Regno dove, a dispetto delle mistificazioni diffuse dalla vulgata, insieme alla rinascita dell’industria della seta era fiorito l’Illuminismo del ‘700 napoletano grande fucina del pensiero politico meridionale e dell’Illuminismo italiano, con i contributi di grandi personaggi come Gian Battista Vico, teorico della storia e della vita delle nazioni, Pietro Giannone fondatore dello stato laico, Antonio Genovesi grande teorico dei canoni fondamentali dell’economia pubblica fino ai grandi giuristi e pensatori come Gaetano Filangieri, Bernardo Tanucci, Galiani, e Pagano. E’ curioso che l’esempio luminoso di questa utopia si debba a un despota illuminato, quando un altro despota illuminato, il re del Portogallo Giuseppe I, nello stesso periodo, aveva invece stroncato nelle colonie brasiliane le prime repubbliche socialiste della storia, le Encomiendas progettate, fondate e dirette dai Gesuiti. San Leucio era in origine una residenza di caccia di Ferdinando IV di Borbone, che dopo la morte prematura del figlio principe ereditario Carlo Tito, avvenuta alla fine del 1778, il re decise di destinare a quest’altro più utile utilizzo. La Colonia verrà chiamata Ferdinandopoli e sarà posizionata nei pressi della famosa Reggia di Caserta, in quello stesso territorio oggi tristemente noto per la presenza dei clan camorristici di Casal di Principe. Il suo Statuto, basato sul principio dell’eguaglianza dei cittadini, fu stilato personalmente dal re ed anche se si basava sui fondamenti tipici di una società cattolico-patriarcale, esso anticipava, sia pure nell’ottica del dispotismo illuminato, gli stessi concetti della Comune di Parigi del 1870, che invece fu notoriamente stroncata nel sangue. Era il 1789, a Parigi ribolliva la rivoluzione ed i cognati di Ferdinando IV finivano sotto la lama della ghigliottina, infatti il re di Napoli aveva sposato Maria Carolina d’Austria, sorella di Maria Antonietta di Francia, mentre a Napoli, invece, si celebrava il trentesimo anno di regno di Ferdinando IV. Il re, aveva scelto come suo luogo di ritiro una collina vicino alla Reggia, dalla vista stupenda, dove c’era, appunto, l’antica chiesetta di San Leucio, vescovo di Brindisi. Sul Belvedere aveva fatto costruire un casino di caccia, e vi aveva fatto insediare alcune famiglie affinché vi provvedessero. Quando i coloni crebbero di numero e diventarono una piccola comunità, erano ben centotrentuno, decise di fondare una colonia modello, dotata di autonomia economica, creandovi una seteria e una fabbrica di tessuti, con una propria Legge – il Codice Leuciano, codice politico e sociale, misto di socialismo reale e utopico, ispirato alla fede dell’arte e della tecnica manifatturiera – ed una struttura urbanistica organica e simmetrica. La fabbrica, s’ingrandì e produsse una gamma ricchissima di tessuti, anche se non ebbe mai uno sviluppo di tipo capitalistico, in quanto il lucro non era il suo fine. Era un’industria di Stato, ma al sevizio della collettività, e quindi molto diversa da quelle dei nostri tempi. I pilastri operativi della Costituzione di San Leucio-Ferdinandopoli, ispirati ai principi di uguaglianza, solidarietà, assistenza, previdenza sociale, diritti umani, erano tre: l’educazione veniva considerata l’origine della pubblica tranquillità; la buona fede come prima delle virtù sociali; e il merito la sola distinzione tra gli individui. Era vietato il lusso, gli abitanti dovevano ispirarsi all’assoluta eguaglianza, senza distinzioni di condizioni e di grado, l’abbigliamento era spartano, pratico e uguale per tutti. La Colonia era dotata di una fabbrica tessile che possedeva ben 82 ettari di terreno per i bisogni alimentari degli operai, che abitavano in case a schiera progettate dall’architetto Collecini. La vita, condotta secondo stilemi collettivi, era dura ma libera da vincoli padronali, dopo una sveglia alle prime luci del mattino, e dopo la messa, gli operai si recavano tutti insieme sul posto di lavoro, la fattoria e la fabbrica, con un’interruzione a mezzogiorno per il pranzo, riprendendo a lavorare alle 13,30 e terminando al tramonto. Il matrimonio era disciplinato al fine di preservare la comunità da pericolose influenze esterne. Se una ragazza voleva sposare un forestiero, riceveva una dote di cinquanta ducati e se ne doveva andare. Se accadeva il contrario, la sposa forestiera doveva seguire un corso di tessitura e poi entrava a pieno titolo nella comunità. I testamenti erano aboliti e l’eredità del defunto era divisa fra i figli e il coniuge superstite. Ove questi non vi fossero, l’eredità era incamerata dal Monte degli Orfani. Erano proibite le liti fra cittadini e i contrasti di poco conto venivano risolti dagli anziani e dal parroco. Esisteva anche un carcere con un sovrintendente. L’istruzione nella colonia era obbligatoria e l’educazione orientata a formare la coscienza civile, a partire dai sei anni di età, tutti indistintamente i fanciulli d’ambo i sessi, dovevano apprendere a leggere, scrivere, imparare l’aritmetica e il catechismo, poi in età adolescenziale i ragazzi erano messi ad apprendere un mestiere secondo le loro attitudini e i loro desideri. Obbligatoria anche la vaccinazione contro il vaiolo. I giovani potevano sposarsi per libera scelta, senza dover chiedere il permesso ai genitori, l’età minima. Le mogli non erano tenute a portare la dote, a questo provvedeva lo Stato, che s’impegnava a fornire la casa arredata e quello che poteva servire agli sposi. Venivano aboliti i testamenti: i figli ereditavano dai genitori, i genitori dai figli, quindi i collaterali di primo grado e basta. Alle vedove andava l’usufrutto. Se non c’erano eredi, andava tutto al Monte degli Orfani. Nella successione maschi e femmine avevano pari diritti. I capifamiglia eleggevano gli anziani, i magistrati (i cd. Seniori che restavano in carica un anno), e i giudici civili. Esisteva una Cassa di Carità, istituita per gli invalidi, i vecchi e i malati, che prestava denaro senza interesse a chi ne avesse bisogno e che provvedeva a erogare …

C’ERA UNA VOLTA L’ARTIGIANATO

Ogni anno nel nostro paese l’artigianato, fiore all’occhiello di un “made in Italy” di cui ci siamo ridotti a ricordare solo i fasti passati, perde migliaia di imprese, soprattutto al Nord dove in termini assoluti sono maggiormente presenti. La situazione per il “piccolo artigiano”, per l’impresa individuale o con un paio di dipendenti, si fa sempre più pesante: aumento del costo dell’energia elettrica, del gasolio, ritardi negli incassi dalla Pubblica Amministrazione che ha allungato i tempi di pagamento verso i propri fornitori, affidamenti bancari diventati quasi impossibili, aumento dell’imposizione fiscale e degli adempimenti burocratici. Con una pressione fiscale che supera abbondantemente il 50% ed una burocrazia che costa al mondo delle imprese oltre 30 miliardi di euro l’anno diventa difficile mantenere un’attività e in particolar modo intraprenderne una di nuova. Così si perdono posti di lavoro ma soprattutto non se ne creano. Con il perdurare della crisi le imprese, soprattutto le piccole che non godono certo di aiuti statali, faticano a stare sul mercato e chi vorrebbe entrarci non ce la fa. Lo Stato in questa situazione fa la sua parte ma anziché innescare percorsi virtuosi, attraverso una burocrazia kafkiana grava come un macigno sulle possibilità di ripresa. Facciamo alcuni esempi banali. Un carrozziere, per aprire un’attività, deve far fronte a decine di pratiche in decine di uffici diversi; stessa cosa per un’impresa edile, un fotografo 53 in 18 enti diversi (dati CNA), e lo stesso per chi vorrebbe iniziare la propria attività di estetista, idraulico, meccanico and so on. E questo è solo l’inizio. Chi ben comincia deve poi far fronte a decine di adempimenti e aggiornamenti previsti e obbligatori nel corso dell’anno. Molto spesso i miei clienti installatori idraulici mi chiedono “Ma io con tutta questa burocrazia, quando lavoro? Di notte? Dovrei assumere una segretaria, ma chi ce li ha i soldi per pagarla? Arrivo a malapena a finemese”. La burocrazia è una macchina che ruba tempo all’artigiano, ne limita lo sviluppo dell’attività e la competitività anche perché di fatto, molto spesso, risulta lentissima, macchinosa e di poca utilità pratica soprattutto per il cliente finale le cui tutele e i cui vantaggi rimangono sempre inalterati. Se a questo quadretto non proprio edificante aggiungiamo il sistema degli anticipi fiscali e dei conguagli il gioco sembra essere piuttosto chiaro. Qualche tempo fa mi trovavo all’ottavo piano di un condominio in costruzione fronte mare assieme al mio cliente idraulico. Era inverno, faceva un freddo cane, pioveva che diolamandava e noi lì a bestemmiare le nostre sfighe, le tasse e la concorrenza sleale, sventolati di bora tra le malte grezze in una babele di squadre di operai albanesi, rumeni, cingalesi che si arrampicavano sulle impalcature dalle sette di mattina alle sette di sera. Dovendo interpretare talebanamente Marx eravamo due capitalisti in quanto detentori dei propri mezzi di produzione e rispettivamente, furgone, martello demolitore, saldatrice e curvatubi lui, cellulare, pc portatile, automobile van il sottoscritto. Di fatto invece, nulla ci distingueva dalla miriade di anonime presenze che gravitavano attorno al cantiere. Respiravamo la stessa polvere, ingoiavamo lo stesso veleno. Eravamo anche noi, proletari, tanto quanto quegli operai albanesi e rumeni, vittime e complici di un sistema che soffoca il lavoro stritolandone i diritti mentre qualcun altro, sconosciuto e in quel momento assente, sarebbe arrivato solo a completamento lavori, magari atterrando con l’elicottero sull’ampio terrazzo, per prendere possesso chiavi in mano del suo attico all’ottavo piano da un milione di euro fronte mare, pagato sulla carta. Sfigati di tutto il mondo abbracciatevi che il nemico non è l’immigrato ma l’apparato elefantiaco dello Stato e il grande capitale! E tu sinistra smetti di cianciare di diritti se non conosci il valore del sacrificio. E soprattutto non girarti dall’altra parte.

SESSANT’ANNI DALLA MORTE DI RANIERO PANZIERI

di Franco Astengo | Nell’Ottobre del 1964 moriva, a soli 44 anni, Raniero Panzieri: figura ispiratrice di molte delle idee degli anni sessanta che influenzarono alquanto anche gli anni settanta. Fu dirigente del PSI in Sicilia e a Roma. Diresse la rivista Mondo operaio del PSI. In questo periodo tradusse il Capitale. Trasferitosi a Torino collaborò con la casa editrice Einaudi . Fondò la rivista Quaderni Rossi con altri, tra cui Mario Tronti e Toni Negri. Nella rivolta di piazza Statuto a Torino del 1962, intuì l’emergere della centralità della fabbrica e dell’operaio massa. Posizioni e ricerche che lo avevano fatto allontanare dal PSI e dalla sua corrente di sinistra nella quale aveva a lungo militato: un distacco che gli impedì anche di aderire, nel Gennaio 1964 pochi mesi prima della morte, allo PSIUP. Attraverso l’elaborazione sviluppata su Quaderni Rossi, Panzieri riscoprì alcuni testi di Marx fino a quel punto largamente ignorati come la IV sezione del I libro del Capitale, il “frammento sulle macchine” dei Grundrisse, il Capitolo VI del Capitale (inedito), facendo emergere nel dibattito i concetti di sussunzione formale e di sottomissione reale del lavoro al capitale per indagare i processi di trasformazione economico – sociale e per analizzare l’organizzazione taylorista e fordista del lavoro. Su quelle basi teoriche Panzieri elaborò i concetti di “operaio massa” e di “composizione di classe”. Panzieri indicava la strada dell’alternativa in lotte di fabbrica che presentassero la richiesta di un controllo operaio sulla produzione (come produrre, per chi produrre) (con Lucio Libertini Panzieri fu autore di “sette tesi per il controllo operaio”). L’avanzamento di questa domanda “tutta politica”, di presa di potere “nella e sulla fabbrica”, fu disconosciuta dalle organizzazioni ufficiali del movimento operaio, tutte intente – in quella fase – a muoversi sulla linea delle politiche keynesiane indirizzate alla sfera dei bisogni e dei consumi (era il momento del cosiddetto “miracolo italiano”). Le lotte di fabbrica di quel periodo spiazzarono, però, l’analisi marxista ufficiale incentrata sulla arretratezza del capitalismo italiano, sulla necessità della ricostruzione nazionale e sull’esaltazione della capacità produttiva del lavoro. L’analisi di Panzieri incontrò il limite del non incrociarsi con la possibilità di realizzare, in quella fase, una adeguata rappresentanza politica. L’elemento dell’impostazione della lotta di classe dentro la modernizzazione capitalistica nel senso della costruzione dell’alternativa avrebbe dovuto costituire l’essenza dell’opposizione socialista al centro – sinistra che invece assunse la forma politicista dello PSIUP. Forse lo PSIUP avrebbe potuto rappresentare un punto di coagulo intellettualmente all’altezza se all’interno di quel partito fosse stato possibile misurarsi con i temi della classe e del rapporto tra essa e la modernizzazione industriale in Occidente e le tendenze che essa avrebbe suscitato nel movimento operaio. Lo PSIUP (Panzieri morì il 9 ottobre 1964 quando il partito era sorto da pochi mesi), si rivelò insufficiente per eccesso di politicismo e di legame con lo schema bipolare (tema che non si è affrontato in questa sede e che rimane comunque fattore decisivamente insuperabile in quell’epoca se pensiamo a ciò che si verificò, pochi anni dopo, con l’invasione della Cecoslovacchia e la successiva radiazione del gruppo del “Manifesto” dal PCI). Si sarebbe dovuta rinvenire la capacità di uscire dall’egemonia dello schema togliattiano di lettura di Gramsci del “Risorgimento incompiuto” e dell’identità nazionale della classe operaia. I due punti che Togliatti mutuò da Gramsci attraverso la pubblicazione “ragionata” dei Quaderni e che rimangono comunque le stimmate di identità peculiare del comunismo italiano anche rispetto al materialismo dialettico sovietico. Un’identità consolidata ed egemone quella assunta dal PCI che poteva essere affrontata attraverso la rilettura, assieme ai nuovi classici della sociologia americana dell’epoca e dei teorici della Scuola di Francoforte anche dalla lettura di un altro Gramsci: quello di “Americanismo e fordismo”. Rimane il “forse” che per quella strada si sarebbe potuti uscire dallo schema del “bipartitismo imperfetto”. Dei “se” e dei “ma” però sono piene le fosse e in questo caso ne ho compiuto un utilizzo colpevolmente abusivo, ma Panzieri va ricordato anche in questo momento in cui la sinistra appare in ritardo nel comprendere la nuova complessità delle contraddizioni tra antico schema “materialista” e novità “post-materialiste”, tra struttura e sovrastruttura.

MAI LETTO NULLA SULLA STAMPA ITALIANA

(salvo alcune eccezioni) Navigando su internet ho scoperto, ma mi chiedo quanti di voi lo sapessero, che esiste una NATO PLUS ovvero la NATO che stringe rapporti istituzionali con cinque paesi: Israele, Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Corea del Sud. Allora capisco tante cose; capisco perché l’invasione della Russia in Ucraina è contro il diritto internazionale, mentre gli stermini di Israele a Gaza e l’invasione sempre da parte di Israele del sud del Libano rispetta il diritto di Israele di difendersi. Soprattutto questo fatto risponde alle mie domande sul perché gli USA spingano sempre più insistentemente per una orientalizzazione della NATO, e il governo italiano abbia inviato la Cavour nel mar Cinese. Riporto da Pagine Esteri parte di un pezzo di Marco Santopadre – «La NATO rimarrà in Nord America e in Europa e non diventerà un’alleanza globale che include membri dall’Asia. Le nostre garanzie di sicurezza includeranno solo il territorio della NATO» ha affermato il segretario generale dell’Alleanza Jens Stoltenberg in un’intervista concessa al Washington Post. Ma i fatti lo smentiscono: negli ultimi anni il Patto Atlantico, e Washington in particolare, non hanno certo nascosto la propria volontà di allargare il proprio raggio d’azione ad est e nel Pacifico, ben oltre la regione “nord atlantica” richiamata nel trattato costitutivo della più estesa coalizione militare esistente sul pianeta. L’Alleanza persegue esplicitamente, ad esempio, un ulteriore allargamento della cosiddetta “Nato Plus”, un secondo livello di integrazione che comprende già Israele ma anche la Sud Corea, l’Australia, la Nuova Zelanda e il Giappone. Nel tentativo di contrastare la crescita della potenza cinese, Washington intende infatti coinvolgere anche l’India, una potenza emergente che ha buoni rapporti con la Russia ma che intrattiene però relazioni altalenanti con Pechino, storica rivale nello scacchiere asiatico. La “Commissione Cina” del Congresso Usa, allo scopo, ha proposto all’amministrazione Biden di sostenere l’ingresso di New Delhi – che fa già parte dell’accordo di sicurezza “Quad” formata con Usa, Australia e Giappone – proprio nella Nato Plus, anche se inizialmente in veste di osservatore.(…) Nella strategia di Washington e Bruxelles, Tokyo dovrebbe rappresentare un nuovo pilastro dello schieramento militare atlantista all’interno di una vera e propria manovra a tenaglia che mira a contrastare la Russia – considerata apertamente una “minaccia” – ma anche la Cina – definita una “sfida sistemica” globale durante l’ultimo vertice della Nato tenutosi a Madrid nel giugno del 2022.” Da quel che ho sentito sul successore di Stontelberg, RUTTE che vuol portare il budget delle armi al 3% del PIL, non mi pare che le cose stiano migliorando.

LETTERA A SOCIALISMO XXI

Compagne, compagni, La decisione di assumere la forma partito non è stata facile . Da otto anni abbiamo tentato con tutte le forze che si riconoscono nel socialismo o nei valori del socialismo di costruire un soggetto politico della sinistra in Italia di orientamento o di ispirazione socialista. Nel corso di questi anni abbiamo superato molte prove dalla diaspora fino al “Tavolo Nazionale di Concertazione” per una Epinay tutta italiana. Nelle diverse fasi politiche, sovente abbiamo registrato nella nostra azione politica diffidenza, insofferenza, o meglio, una superficialità derivante anche dalla nostra attuale personalità giuridica. Superficialità manifestata da coloro che si definiscono socialisti. Da quando si è stabilito di partecipare alle campagne elettorali, non è stato semplice trovare un nostro spazio politico perchè i nostri alleati spesso ci rimproveravamo di essere una associazione ed in quanto tale priva di quei titoli necessari per partecipare agli incontri politici di carattere decisionale. Alcuni soggetti politici, specie il PSI, in Umbria in occasione delle comunali 2024, hanno minacciato di adire le vie legali ritenendo il nostro simbolo simile ad altri contrassegni politici e quindi in grado di generare confusione nell’elettorato. Sovente in campagna elettorale il nostro simbolo e la nostra denominazione sparivano dall’agone politico con grave danno per la nostra organizzazione, per la sua immagine. Le campagne elettorali servono a farci conoscere. A far conoscere le nostre proposte di cambiamento. Il nostro programma. Le aggregazioni non producono visibilità. Non sono costruttive. Il Tavolo Nazionale di Concertazione promosso da Noi, con la finalità che tutti conosciamo e auspichiamo di raggiungere, in maniera velata poneva in evidenza il nostro status di associazione, non di partito, come se la differenza in qualche modo intaccasse la nostra credibilità. Noi che in ogni occasione abbiamo sempre dimostrato capacià di idee, programmazione e senso di responsabilità dapprima verso noi stessi e poi verso il nostro Paese. Ciò premesso, a luglio 2024 veniva depositato il nostro simbolo presso uno studio notarile romano, per proteggerlo, preservarlo da fantomatiche pretese o rivendicazioni, in attesa della sua validazione presso l’ufficio elettorale del ministero dell’ interno. I nostri sforzi spesso cozzavano contro un muro, costruito da chi avrebbe dovuto discutere con noi del futuro del socialismo in Italia attraverso iniziative che parlavano del singolo e non del progetto politico. Ho girato l’Italia ed ho partecipato a molte iniziative. Gli unici a discutere del futuro in Italia di una forza improntata al socialismo per lo più siamo stati noi di Socialismo XXI. Spesse volte subendo anche scorrettezze sul piano politico. Tutto questo ha fatto riflettere il gruppo dirigente nazionale unitamente ai Coordinatori regionali in una assemblea telematica del 1° Ottobre u.s.. Non possiamo più attendere! Il passaggio da associazione a partito oramai è inevitabile. Di fronte avevamo una scelta da compiere: o rimanere una associazione culturale o diventare partito avviando il processo di trasformazione, consapevoli della portata di una tale decisione necessaria anche per la nostra stessa sopravvivenza. Abbiamo scelto responsabilmente la seconda opzione. Primum vivere. L’ Asociazione oramai aveva esaurito la sua spinta propulsiva e occorreva andare oltre. Si badi, noi non vogliamo costruire l’ennesimo partitino, ma rafforzare semplicemente la nostra posizione politica. Il nostro sarà un nuovo partito fondato sui valori del socialismo, sui nostri principi inalienabili. Il nostro obiettivo permane ovvero costruire con chi ci sta una moderna ed unitaria forza del socialismo del terzo millennio in Italia. Un partito che sappia dialogare con la gente, con i lavoratori, il ceto medio in profonda crisi, i pensionati, con le nuove generazioni. Che sappia rivolgersi al numeroso popolo degli astensionisti deluso dalla politica e dagli attuali partiti sempre più simili a comitati elettorali al servizio del segretario di turno. Un nuovo partito con una organizzazione snella e con una moderna capacità comunicativa. Un nuovo partito stabilmente collocato a sinistra dello schieramento politico. Un nuovo partito che non dimentica l’Epinay e i tentativi che saranno sempre perseguiti verso una forza unitaria di impronta socialista in Italia. Anzi, l’essere partito non può che rafforzare il percorso politico intrapreso. Il cammino non sarà semplice. Ne siamo tutti consapevoli. Ma il dado è tratto! Un diverso status giuridico ci permetterebbe di avere una azione politica più efficace, di partecipare a pieno titolo ai tavoli politici, specie in occasione di scelte segnate dal momento elettorale. Di avere un peso ed uno spazio politico diversi, di sostanza, con più slancio e maggior vigore. Senza dimenticare chi siamo, da dove veniamo e quale obiettivo intendiamo traguardare. La nostra è stata una scelta sofferta, ma inevitabile. Ponderata, ma necessaria. Compagne, compagni, Di qui si passa per parafrasare Bissolati. Ce la faremo. Insieme, possiamo farcela. Il processo è appena iniziato e con il contributo di tutti arriverà a compimento. C’è un mondo fuori in profonda trasformazione che pretende una classe dirigente responsabile e competente. Noi ci siamo. Possiamo fare la differenza, come abbiamo dimostrato in tante occasioni. Ci attendono sfide importanti che abbiamo il dovere di vincere. Il nuovo partito deve racchiudere in una unica prospettiva Lavoro, Giustizia sociale, Ambiente. E collaborare con chi vorrà come noi affrontare seriamente le grandi questioni del terzo millennio. Ovviamente rimanendo ben saldi a sinistra, il nostro alveo naturale, per storia e cultura. E ben ancorati ai nostri valori. Questa è la grande scommessa. La grande sfida che non possiamo perdere. Per il bene del nostro Paese . Sempre avanti!

DA SRAFFA A DRAGHI

Pochi conoscono il lavoro di Piero Sraffa, lavoro elaborato negli anni ’30, ma uscito come libro nel 1960 con il titolo PRODUZIONE DI MERCI A MEZZO DI MERCI. Questo lavoro contesta l’egemonica teoria economica neo-classica basata sul marginalismo Marshalliano e di Walras. In tale  teoria l’equazione che partendo dalla produzione arriva al prodotto finale sul mercato del consumo, in regime di libero scambio, senza cioè presenza di monopoli né di interventi da parte dello stato, ritrova sempre un suo equilibrio rappresentato dall’incontro tra domanda e offerta nella corrispondenza del valore marginale dei soggetti economici interessati. Tale equazione si può sintetizzare come: (1) contributo della terra + contributo del capitale + contributo del lavoro = prodotto finale Per ogni accadimento esogeno, e lo sviluppo tecnologico è considerato tale, i vari operatori economici rideterminano il loro valore marginale che, prima o poi, ritrova il suo equilibrio grazie ai meccanismi del libero mercato. In tale visione non può esistere contrasto tra gli operatori, non esiste sfruttamento di un operatore sull’altro, entrambi operando sulla base di concorde incontro tra i valori marginali. Non sono concepibili situazioni di prevaricazioni del capitale sul lavoro, non esiste sfruttamento, non esistono classi sociali, non servono interventi dei sindacati che altro non farebbero che intralciare il meccanismo di mercato, così come lo intralcia ogni intervento dello stato. Un lavoratore, ad esempio, confronta il decrescente valor marginale del salario offerto sul mercato con la fatica crescente del lavoro prestato; finché il valor marginale della paga è superiore alla fatica marginale dell’ora lavorata, il lavoratore presta lavoro; quando la fatica eccede il valore del salario il lavoratore cessa di prestare lavoro; nel punto di incontro si determina sia il salario che il tempo di lavoro, il tutto nella libera volontà del lavoratore. Il fondamento di questa teoria si basa su elementi psicologici, quali il valore marginale che ignorando le reali condizioni dei rapporti tra i soggetti sociali, viaggiano in una atmosfera ideologica poco compatibile con la dura realtà dell’economia. Sraffa nel suo lavoro, oppone alla teoria neo-classica un “ritorno ai classici”, Smith, Marx ma soprattutto Ricardo. Questo ritorno ai classici evidenzia punti fondamentali che contestano il marginalismo: ● L’equazione della produzione (1) è lineare, ma nella realtà occorre studiare l’economia come un processo circolare, nel senso che l’output di una industria diventa input di una industria successiva. Studiare il processo economico utilizzando una equazione lineare è quindi contestabile a livello di principio, parrebbe molto più adatto utilizzare le tabelle di input-output di Wassili Leontief; ● Il non considerare la circolarità del processo porta ad una pesante contraddizione. Infatti, quando nella formula dell’equazione lineare (1)  leggiamo “contributo del capitale” dobbiamo renderci conto che il capitale apporta macchinari, merci, prodotti di altre industrie. Apporta cioè prodotti di cui dovremmo aver determinato con una appropriata equazione lineare i relativi valori. Quindi la formula inserisce come dato un valore che deve essere determinato dalla formula stessa; è una evidente pecca logica che inficia tutto il sistema teorico neo-classico. ● L’equazione (1) ignora lo sviluppo tecnologico che viene considerato come elemento esogeno, estraneo al processo produttivo. Un altro economista, l’austriaco Joseph Schumpeter, contesta la pace perfetta del mondo marginalista opponendogli una lotta tra operatori sul mercato basata sull’innovazione tecnologica sia nella produzione che nella ricerca dei mercati, innovazioni che sconvolgono il mercato dando un temporaneo vantaggio all’operatore innovatore che i concorrenti tentano di azzerare introducendo nuove innovazioni, sapendo di rischiare l’emarginazione, il fallimento in caso di inerzia. Nel modello di Sraffa si parte da un modello di produzione circolare in cui i quantitativi prodotti sono esattamente uguali a quelli utilizzati nel processo produttivo; se consideriamo ad esempio un modello con tre componenti: grano, ferro, carbone, avremo: (2) 240 q grano + 12 t ferro + 18 porci = 450 q grano        90 q grano +   6 t ferro +  12 porci =   21 t ferro        120 q grano +   3 t ferro +  30 porci =  60 porci Riscontriamo che l’output di ogni prodotto è uguale alla somma degli inputs delle imprese che utilizzano quel prodotto; ad esempio i 450 quintali di grano prodotto entrano nella produzione di grano, ferro e porci esattamente per 450 quintali. Lo stesso per ferro e porci. In tale modello abbiamo tre equazioni e tre incognite (i prezzi dei vari beni) rendendo insolubile il sistema. Ma se adottiamo un prodotto come prodotto misura dei valori e poniamo il suo prezzo uguale ad 1 riduciamo le incognite a 2 rendendo possibile la soluzione matematica della determinazione delle ragioni di scambio e dei prezzi (relativi al prodotto misura). Ma quando grazie alle innovazioni tecnologiche, alla formazione dei lavoratori, a nuovi metodi di produzione si crea produttività, allora i quantitativi prodotti eccedono quelli necessari al processo produttivo generando un surplus. Adottando il precedente esempio vediamo come mutano le equazioni: (3) 240 q grano + 12 t ferro + 18 porci = 570 q grano meno  450 = sovrappiù  120         90 q grano +   6 t ferro +  12 porci =   31 t ferro    meno   21 =  sovrappiù    10          120 q grano +   3 t ferro +  30 porci =  60 porci         meno  60 = sovrappiù       0 Ci si pone ora la domanda di come si posa ripartire tra i fattori della produzione (ovvero tra capitale e lavoro) quel sovrappiù generato. Secondo la teoria neo-classica il sovrappiù viene redistribuito secondo gli equilibri marginali, tema questo ideologico stante i difetti intrinseci dell’equazione lineare (1); secondo Sraffa la ripartizione del sovrappiù non conosce una legge se non quella dei rapporti di forza tra capitale e lavoro. Le equazioni di una produzione con sovrappiù sono tutte risolvibili matematicamente qualunque sia la ripartizione del sovrappiù tra capitale e lavoro. Di certo sappiamo che saggio di salario più saggio di profitto danno come risultato 1. Possiamo quindi ipotizzare un saggio (o di lavoro o di profitto)  ricavando l’altro saggio per differenza. Infatti nulla vieta di considerale tutte le possibili combinazioni adottando, per esempio in un primo caso un saggio di salario che assorbe il 100% …

PREMIERATO E VOLONTA’ POPOLARE

Il comportamento di Macron che violenta la volontà popolare espressa in un voto voluto da Macron dopo le elezioni europee, offre motivi di riflessione sulla legge costituzionale in approvazione alle Camere. La riflessione vede uno scontro tra due posizioni: a) la volontà popolare domina le scelte di una democrazia, b) la volontà popolare va ridisegnata per favorire stabilità e tempestività dell’esecutivo. La scelta non può essere ideologica e l’alternativa proposta non è banale ma va ponderata seriamente. Infatti, superato l’indubbio riconoscimento al valore essenziale in democrazia della volontà popolare, ne segue che viviamo in un tempo che sta dimostrando in moltissime evenienze la crisi sistemica della democrazia. Basta guardare il mondo che ci circonda, dal tentato golpe di Trump che potrebbe ripetersi negli USA, alle prepotenze di Macron, al voto di AfD in Germania, al fatto che la maggioranza dei paesi del mondo non hanno fatto una scelta democratica, agli indubbi successi che un regime non democratico come quello cinese stanno avendo, per riconoscere che l’alternativa posta è tutt’altro che banale. Nel tentativo di coniugare stabilità del governo con il regime democratico il governo Meloni ha presentato alle camere un disegno di legge costituzionale che è in corso di approvazione. Vorrei approfondire questa proposta di riforma. Due sono i punti che mi paiono critici: 1 – l’elezione del premier cambia il risultato delle elezioni La formulazione originaria per cui al partito o all’alleanza che avesse proposto il nome del/della premier risultante eletta, spettava il 55% dei seggi in entrambe le camere, rispolverando la legge Acerbo, è stata modificata eliminando l’indicazione del 55% e modificandola in una garanzia che assicuri al partito o all’alleanza “una maggioranza” non specificata e lasciata alla legge elettorale. La scelta del premio è lasciata ad una legge ordinaria che, nel rispetto della costituzione che fosse in tal senso modificata, non è soggetta a referendum confermativo anche se approvata con meno dei due terzi dei voti. Ma la vera anomalia sta nel fatto che il premio di maggioranza non viene generato sulla base dei dati elettorali espressi dal popolo (come succedeva anche con la legge Acerbo), ma viene generato dall’elezione relativa all’esecutivo. Per essere più chiari è il voto al candidato premier che va a modificare il voto del potere legislativo. Quindi il voto per l’esecutivo modifica il voto per il legislativo, subordinandolo e snaturando la dignità del parlamento che diventa così il ratificatore delle scelte legislative dell’esecutivo. Faccio un esempio: si presentano alle elezioni sinistra, destra e Calenda. La sinistra propone Schlein come premier, la destra propone la Meloni, Calenda propone Draghi. Il risultato delle elezioni è 50% destra, 40% sinistra, 10% Calenda. Per il premier Draghi prende il 60% delle preferenze Meloni e Schlein prendono il 20% ciascuna. Ebbene Draghi sarà premier e nel Parlamento Calenda avrà la maggioranza (relativa, assoluta, qualificata non si sa) e destra e sinistra si spartiranno i seggi dell’opposizione.  Lo stravolgimento della volontà popolare è evidente. 2 – Il sistema non raggiunge l’obiettivo Ricordo che l’obiettivo è avere un governo che duri per tutta la legislatura. La vita media dei governi fino ad oggi è di due anni. Anche il governo Meloni prima ancora di compiere i due anni sta vivendo una fase di criticità, se non altro per l’evidente conflitto tra Lega e Forza Italia. Ebbene, poiché la media dei due anni non nasce dal nulla né dal caso ma dalle difficoltà di mantenersi stabili che le alleanze sembrano comportare, vediamo come la nuova legge affronterebbe il caso di crisi all’interno dell’alleanza che ha indicato il premier. Tolto al Presidente della Repubblica ogni potere decisionale in caso di rottura dell’alleanza al governo e sfiducia o dimissioni del premier, resta la possibilità su scelta del premier sfiduciato di sciogliere le Camere e andare a nuove elezioni o, in taluni casi, scegliere un nuovo premier ma nell’ambito della coalizione che ha vinto le elezioni. Immaginate se mai la Meloni sfiduciata a causa della rottura con la Lega, accetterà mai di indicare Salvini come nuovo premier. Nei fatti non rimane che lo scioglimento delle Camere e l’indizione di nuove elezioni. Conclusione: è vero che i governi dureranno tutta la legislatura, ma saranno le legislature a durare mediamente due anni. 3 – Un’ultima considerazione La legge in approvazione nega al Presidente della Repubblica la possibilità di cercare in caso di crisi maggioranze possibili come quelle che portano a governi tecnici. Ora nel nostro sistema, con il personale politico che c’è, notiamo una contraddizione evidente: tutti i partiti sono incapaci di leggi serie e necessarie che generino opposizione e quindi perdita di voti tra gli elettori. Oggi con la nuova legge di stabilità non puoi certo non generare opposizione popolare, nessun partito è così suicida. Solo un governo tecnico, di governanti che non sono condizionati dal timore di perdere consenso elettorale, può affrontare situazioni estremamente difficili come la legge di bilancio. Da tempo prevedo che questa legge di bilancio scatenerà la crisi dell’attuale governo, ma ciò che mi preme sottolineare che perdere la possibilità di formare governi tecnici è una scelta pericolosa contenuta in questa proposta di legge costituzionale.