LE RAGIONI DELLA SCONFITTA DELL’OPPOSIZIONE E DELLA VITTORIA DI MUSSOLINI

di Carlo Rosselli

Fino al giugno del 1924 i partiti di opposizione erano vissuti su una situazione falsa, iperbolica, come certi falliti che continuano a godere di credito e a condurre vita lussuosa fino a quando l’iniziativa di uno qualunque dei creditori determina il crollo totale. L’opposizione era stata battuta nelle strade, ma a causa del compromesso iniziale cui Mussolini aveva dovuto piegarsi per salire al potere, aveva conservato a “Palazzo” una situazione di privilegio.

La Camera, eletta nel 1921, era in maggioranza antifascista; la stampa, idem; in tutti i corpi dello Stato il fascismo era appena tollerato. Questa situazione maggioritaria doveva riuscire fatale all’opposizione, mentre avvantaggiava singolarmente Mussolini che proprio da questa debolezza formale ricavava il massimo di dinamismo. Mussolini non avendo i valori legali, apparenti, badava ai sostanziali e soprattutto alla forza, alla giovinezza, all’iniziativa, all’attacco; le opposizioni, avendo conservato per concessione del dittatore (“avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia…“) le posizioni legali, si battevano sul terreno formale e morale, contestando la validità giuridica dei decreti mussoliniani, e rivendicando la rappresentanza di un’Italia che viveva ormai solo nelle memorie.

Scambiando i reali rapporti di forza sociale con i vecchi risultati elettorali, vedevano nel fascismo un semplice colpo di mano contro il suffragio universale, un’avventura di stile sudamericano destinata a concludersi fatalmente nel giro di qualche mese: e non si preoccupavano di rovesciare il rapporto di forze che aveva permesso al fascismo di spazzare il movimento operaio e non si preparavano in nessun modo a resistere e a contrattaccare nelle piazze. E come avrebbero potuto farlo?

Per condurre la lotta con stile offensivo nel paese, avrebbero dovuto essere in posizione di minoranza e di illegalità: ora l’opposizione era la legalità, la vecchia legalità, mentre il governo era l’illegalità. Il governo, non l’opposizione, era rivoluzionario. Il governo era un gruppo deciso, senza scrupoli, che messosi con un colpo di mano al centro della vecchia legalità, la scomponeva a pezzo a pezzo. Quella legalità non era che un residuo sospeso ad un filo, al filo della continuità costituzionale che il sovrano aveva voluto che si rispettasse (violare, ma con le forme). L’opposizione si attaccò disperatamente a quel filo. Il giorno che il filo sarà tagliato, l’opposizione – quella opposizione – sarà liquidata. Essa sconterà così per anni il passivismo mostrato durante la marcia su Roma.

Abbiamo preso molto in giro Mussolini perché, mentre i fascisti marciavano allegramente su Roma, se ne stava a Milano. Ma che cosa stavano a fare i deputati della sinistra a Roma? Tra il girare nei corridoi attendendo il decreto di stato d’assedio e l’andare nel paese a organizzare la resistenza, era meglio andare nel paese. E a Roma, oltre Montecitorio, c’era San Lorenzo, dove il popolo si batteva; ma nessuno o quasi se ne ricordò in quei giorni. Come nessuno sentì che l’opporre in parlamento superbi squarci oratori alle parole sprezzanti del “duce“, era fare il suo giuoco. Le elezioni dell’aprile 1924 avevano in parte corretto questo stato di cose.

L’opposizione diventava per la prima volta opposizione, minoranza; come minoranza, avrebbe potuto darsi una psicologia virile, d’attacco. Ma aveva troppi ex nelle sue file, era troppo appesantita da uomini che avevano gustato le gioie del potere e della popolarità, che si erano fatti in tutt’altra atmosfera. Gli oratori più celebri, usi al successo in un parlamento in cui si trovavano come in famiglia, non resistevano all’ambiente nuovo e ostile creato dai fascisti. Erano depressi, stanchi, preoccupati; non avevano la psicologia dell’attacco ma della ritirata.

Tornando ai collegi dopo dure battaglie parlamentari, si sorprendevano di trovare i giovani (ahimè, i rari giovani) in stato di eccitazione. Matteotti era un isolato. Quando terminò la sua improvvisata requisitoria alla Camera, un suo compagno (Baldesi) – morto poche settimane or sono in dignitoso silenzio – lo interpellò bruscamente: “Sicché tu ci vuoi tutti morti?“. Quando la crisi scoppiò, la depressione era al colmo. La decisione di ritirarsi dai lavori della Camera non fu un atto volontario diretto a portare battaglia nel paese, ma un atto necessario di chi, non potendone più, si ritira. Ma poiché la retorica vuole la sua parte, così l’Aventino fu presentato alle masse come la decisione energica di gente che passa all’attacco. Di questo equivoco morrà l’Aventino.

L’appello al re fu un altro riflesso di questo stato depressivo. Solo lui può far traboccare le forze materiali dalla nostra parte, pensavano i deputati aventiniani. Quanto alle masse popolari, che si mostravano nei primi giorni in stato di effervescenza, guai a chi avesse tentato metterle in movimento! Solo i comunisti e le minoranze giovani chiesero lo sciopero generale. Ma le opposizioni non vollero, per non spaventare la borghesia e il sovrano. Fu questo il miracolismo dell’Aventino. Credere di poter vincere con le armi legali l’avversario che ha già vinto sul terreno della forza. Pregustare le gioie del trionfo mentre si riceve la botta più dura. Evitare tutti i problemi (Gobetti diceva: “l’Aventino ha un mito, il mito della cautela“) sperando che la borghesia dimentichi il ’19. Attendere che il re e i generali tolgano le castagne dal fuoco col solo intento di consegnarle, a sei mesi dalla data, a lor signori dell’opposizione non appena scottino meno. Supporre che i valori morali possano da soli rovesciare i “rapporti obiettivi di classe“.

Venerdì, 8 giugno 1934

(Brani tratto da un lungo articolo pubblicato su Giustizia e Libertà da Carlo Rosselli tre anni esatti prima del suo assassinio, avvenuto a Bagnoles-de-l’Orne per mano fascista il 9 giugno 1937)