LE ULTIME RESISTENZE

La tessera del Partito Socialista Italiano del 1921

Nonostante la crisi che travaglia il Partito socialista, e la scissione dei comunisti, nelle elezioni del maggio successivo si registra ancora un forte consenso popolare intorno al PSI: vengono eletti 122 deputati, mentre il P.C. d’I. ne ottiene 16.

Dopo la firma del “patto di pacificazione” tra i socialisti e Mussolini, rapidamente caduto nel nulla, la situazione politica precipita verso la crisi del regime democratico, mentre i fascisti si preparano alla conquista del potere.

In un momento simile, il PSI continua a dilaniarsi, pur dopo la scissione comunista, sul problema dell’adesione alla Terza Internazionale. Prima di qualsiasi strategia politica, la direzione massimalistica continua estenuanti e inutili trattative con Mosca per ottenere il riconoscimento di partito e membro dell’Internazionale, pur persistendo nel rifiutare l’espulsione dei riformisti.

Al XVIII congresso (Milano, 10-15 ottobre 1921), confermando la loro posizione, i massimalisti presentano una mozione firmata da Serrati e Baratono, che riporta 47.628 voti; quella di Turati e Baldesi, 19.916; una mozione centrista di Alessandri, 8080; la mozione di Lazzari e Maffi, nella quale venivano accolte le richieste della Terza Internazionale, raccoglie appena 3765 voti.

Di fronte alle decisioni del congresso di Milano, Mosca decide di riconoscere come membro dell’Internazionale per l’Italia solo il Partito comunista.

Nella situazione che si fa sempre più grave, nella quale viene minacciata la democrazia e con essa le libertà conquistate dai lavoratori in decenni di lotte, l’incapacità del PSI (ma anche dei cattolici e dei liberali) di avere una strategia democratica, in grado di contrastare l’ascesa dei fascisti, e di assumersi le responsabilità, anche di governo, che ne conseguivano, favorisce il gioco delle forze eversive che ormai puntano con decisione ad impadronirsi dello Stato.

In pieno 1922 serve a ben poco anche la costituzione dell’Alleanza del lavoro che unisce le varie centrali sindacali; e così a ben poco aiuta lo sciopero legalitario promosso dai riformisti. Questi avvertono sempre di più il pericolo della trappola in cui s’è posto il movimento dei lavoratori Italiani. La separazione, ormai matura e necessaria, avviene al XIX congresso, svoltosi a Roma, dall’1 al 4 ottobre del 1922.

I massimalisti, sotto la pressione dell’Internazionale, decidono di proporre l’espulsione dei riformisti. Essi prevalgono, sia pure di poco: la mozione massimalistica ottiene infatti 32.100 voti, contro 29.119 voti andati alla mozione unitaria presentata dai riformisti. Questi, usciti dal partito, danno vita a una nuova formazione politica, il Partito socialista unitario (PSU), dove accanto ai vecchi capi, come Turati, assumono una posizione di rilievo giovani dirigenti, combattivi e coraggiosi come Giacomo Matteotti. I riformisti, che hanno ripreso così la loro libertà d’azione, non riescono a sviluppare la loro iniziativa di azione di difesa democratica: ormai è troppo tardi, gli eventi precipitano. Poche settimane dopo, la “marcia su Roma” porta Mussolini al potere.

Nel congresso di Milano, portavoce della maggioranza e Baratono: nel suo discorso ha preminenza il problema della difesa “fisica” delle organizzazioni operaie e del partito contro l’ondata violenta del fascismo. Dal canto suo Treves, per i riformisti, afferma che “il partito non può negarsi a priori la partecipazione al potere soprattutto nel momento in cui abbandonava il sogno di una rivoluzione integrale”; ma non si pone, secondo Turati, il problema della partecipazione al governo, che egli continua a giudicare inattuale, “praticamente inesistente“, aggiunge Modigliani.

Il congresso, a giudizio di Nenni, “condannava il partito all’inazione, perché ripudiava contemporaneamente l’azione di piazza e l’azione parlamentare, la violenza e la legalità”. Se ne accorgeva, da vecchia volpe, Mussolini, che commentando le conclusioni dell’assise socialista, osservava: “I governi non potranno contare che sull’astensione socialista, mai sul loro voto favorevole. Ne consegue una valorizzazione numerica e morale della destra nazionale, dunque dei fascisti che ne sono la maggioranza“.

Si apriva così, praticamente, la strada alla conquista del potere per il fascismo, in quelle forme legali che esso aveva dimostrato di disprezzare con l’esercizio della violenza, ma capace di servirsene al momento opportuno, per realizzare il suo disegno. Da quel momento la tattica dei fascisti mutò. Mussolini puntò ad inserirsi nel gioco parlamentare fiutando la possibilità di ascendere alla guida del governo. I fascisti votarono a favore del governo Facta. Cosicché, mentre i socialisti rifiutavano di percorrere fino in fondo la via legalitaria e di farsi trascinare sul terreno della violenza rivoluzionaria, i fascisti, all’opposto, facevano l’uno e l’altro. Agivano con la violenza sulla piazza, e agivano in Parlamento come partito di maggioranza. Ciò non impedì loro di votare contro il governo Facta, insieme con le opposizioni, determinandone la caduta.

Nella crisi che seguì, i vari tentativi degli Orlando, De Nicola, Bonomi, Meda ecc… non sortirono effetto alcuno. (Nitti non ebbe l’incarico, perché contro di lui c’era il veto fascista; Giolitti l’attese vanamente.)

C’è da dire che, in questo momento, i riformisti sciolgono il dilemma che da lungo tempo li assillava, e decidono di seguire la via legalitaria, reclamando lo scioglimento della Camera e la convocazione degli elettori sulla base di un sistema elettorale modificato: cioè il ritorno al sistema uninominale che veniva richiesto per ragioni che rimangono, ancor oggi, imperscrutabili. Ma essi fanno ulteriori passi innanzi.

Il 21 luglio 1922 il gruppo parlamentare, a maggioranza, votava un ordine del giorno di Modigliani che dichiarava la disponibilità socialista a partecipare a un governo che fosse in grado di “assicurare il rispetto della volontà dell’Assemblea nazionale per la libertà e il diritto di organizzazione“.

Turati salì le scale del Quirinale, nel corso delle consultazioni. In realtà l’ala progressista della borghesia non offrì ai socialisti la possibilità di concretizzare questa loro scelta. Nessuno degli uomini politici interpellati, da De Nicola a Orlando, se la sentì di assumere un’iniziativa di questa natura: tutto quello che si offrì alla dichiarata disponibilità dei parlamentari socialisti fu un secondo gabinetto di quel Facta contro il quale essi avevano già assunto un atteggiamento di opposizione; e al quale, quindi, era difficile, se non del tutto impossibile, concedere fiducia.

A rendere inestricabile la situazione intervenne anche lo sciopero generale dell’agosto proclamato dall’Alleanza del lavoro. Era, come lo definì Turati, “uno sciopero legalitario“, destinato ad esercitare una pressione a favore di un’apertura a sinistra in Parlamento. Ma esso finì per ridare fuoco agli scontri tra scioperanti da un lato e forze dell’ordine dall’altro, a cui si aggiungevano i fascisti, che rinfocolavano tutta la loro aggressiva violenza.

Cosicché l’iniziativa parlamentare di Turati e dei suoi non trovò nessuna delle condizioni necessarie ad essere concretizzata. Anche se tardiva, era giusta. Ma sfumò nel nulla. E le conseguenze di tutto ciò non mancarono di manifestarsi ben presto con l’ascesa di Mussolini al governo e la “marcia su Roma“.

È l’ultimo tentativo possibile per la salvezza del partito, del movimento dei lavoratori, delle libertà democratiche. Gli episodi che si susseguono da allora in poi appartengono, più che al movimento socialista e alla vita del partito, alla storia generale dell’Italia. Quelli che più strettamente riguardano il PSI, non sono altro che residuale di un contenzioso interno al partito, che si era aperto da molto tempo, e che per lungo tempo ancora non troverà alcuna effettiva soluzione: è il contenzioso tra riformisti e massimalisti, tra gradualisti e rivoluzionari, tra due anime del socialismo che hanno un solo vero punto di contatto nell’appartenenza storica allo stesso movimento, e nella comune, indiscutibile dedizione agli interessi del mondo del lavoro.

Avveratasi la separazione dei socialisti riformisti, il PSI massimalista ottiene l’accettazione nell’Internazionale comunista, sia pure contro il parere del Partito comunista d’Italia.

L’Internazionale, tuttavia, delibera la fusione tra i due partiti. Pur essendo i massimalisti favorevoli all’adesione all’Internazionale leninista, non tutti risultano d’accordo sulla fusione con il P.C. d’I. Pietro Nenni, che dopo la sua milizia repubblicana ed interventista ha scelto di entrare nel PSI, scrive sull'”Avanti!”, di cui e redattore capo, un articolo in cui protesta contro quella che egli definisce una “liquidazione sottocosto” voluta dalla direzione che ha ratificato l’accettazione dei 14 punti di Mosca. Egli assume la guida di un “Comitato di difesa socialista” che, rafforzato dalla reazione del partito al settarismo dei comunisti che chiedono al PSI una resa senza condizioni, riporta la maggioranza al XX congresso di Milano (15-17 aprile 1923) con 5361 voti contro i 3968 voti dei massimalisti che prendono il nome di “terzini” (per significare la loro fedeltà ai deliberati della Terza Internazionale) e che si organizzano in frazione, pubblicando il giornale “Pagine Rosse“.

Mussolini intanto fa uscire dal governo i cattolici, iniziando la persecuzione di don Sturzo, presto abbandonato anche dalle autorità ecclesiastiche, che sono attratte dalla prospettiva dell’accordo concordatario che si realizzerà alcuni anni dopo. Egli riesce a far passare (con l’astensione dei deputati del Partito popolare) la nuova legge elettorale; la “legge Acerbo”, che attribuisce i due terzi dei deputati alla lista che ottiene più voti.

Alle elezioni del 6 aprite 1924, il “listone” costituito dai fascisti con i nazionalisti, i liberali e gli indipendenti, ottiene il 64%. Fallito un tentativo nenniano di realizzare una lista unica con i comunisti e i riformisti, il PSI elegge 22 deputati, il PSU 24, il P.C. d’I. (nelle cui liste si presentano i “terzini”, che vengono espulsi dal Partito socialista) 19. Sono 39 i seggi che vanno ai cattolici.

Di fronte alla tragedia della crisi dello Stato democratico liberale uscito dal Risorgimento, della fondazione dello Stato fascista, del compromesso tra fascismo e monarchia appaiono certamente irrilevanti quegli episodi di vita del PSI, di nuove polemiche e di nuove scissioni che si susseguono fino al momento in cui la dittatura di Mussolini mette tutti d’accordo nel seguire la via dell’esilio o della rinuncia, quando non si aprono le porte del carcere.

Alla riapertura della Camera, il 4 giugno 1924, Giacomo Matteotti, segretario del PSU, documenta brogli e violenze avvenuti nel corso della consultazione elettorale: il 10 giugno viene rapito ed ucciso. Le opposizioni per protesta abbandonano il Parlamento: nasce l’Aventino, nella speranza di un intervento della monarchia per ristabilire la legalità costituzionale sancita dallo Statuto, speranza ben presto delusa. Mussolini, superata la crisi che lo aveva isolato, opera la svolta totalitaria, con la censura sulla stampa, e dopo il discorso del 3 gennaio del 1925 fa sciogliere oltre 100 associazioni profittando delle divisioni e delle incertezze delle opposizioni.

Il fallito attentato dell’ex deputato socialista Zaniboni, gli offre il destro per far sciogliere il PSU.

Nenni si fa promotore di una fusione tra il PSI e i socialisti del disciolto PSU, e dell’adesione all’Internazionale socialista, ricostituitasi nel 1923. Non riesce nel suo intento, ma inizia così la sua azione politica per ricostruire l’unità tra i socialisti.

L’anno successivo, il 1926, le leggi eccezionali sciolgono i sindacati non fascisti e aboliscono i partiti, ad eccezione del PNF. I 120 deputati dell’Aventino vengono dichiarati decaduti, ed in buona parte arrestati.

Sciolto il Partito socialista, molti suoi dirigenti e molti riformisti sono costretti a prendere la via dell’esilio. In Francia, nel paese che ha dato ospitalità a Turati, a Treves, a Modigliani, a Buozzi, segretario del sindacato dei metalmeccanici, a Nenni, ai fratelli Rosselli, il PSI e i riformisti ricompongono le loro fila e, nel 1927, danno vita alla Concentrazione antifascista, insieme alle altre formazioni democratiche. Ad essa aderirà il movimento di Giustizia e Libertà, fondato dai Rosselli ispirandosi al revisionismo del liberalsocialismo da essi propugnato. Si ricostituisce anche la Confederazione generale del lavoro, alla cui guida c’è Bruno Buozzi.

 

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