Rodolfo Morandi nacque a Milano il 30 luglio 1902 da Enrico e da Enrica Maraviglia, terzogenito dopo due figli maschi.
La famiglia proveniva da Agra, nei dintorni del Lago Maggiore. Il padre, un attivo imprenditore del settore alberghiero di simpatie mazziniane e radicali, fu impegnato in politica durante la crisi di fine secolo. Dopo la sua prematura scomparsa fu la madre a curare l’educazione dei figli, creando attorno a essi un ambiente ricco di sentimenti e forza morale. Compiuti gli studi al Liceo Parini di Milano, in anni di entusiasmo interventista e con il fratello partito volontario, Morandi si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia. Qui aderì al Partito Repubblicano e al gruppo degli studenti socialisti, conobbe Lelio Basso e Giuseppe Faravelli ma non partecipò attivamente alla lotta politica. Tra 1921 e 1925 si dedicò a un intenso studio filosofico e storico, iniziato con la lettura delle opere di Giuseppe Mazzini e proseguito con un tentativo di aggiornare la cultura democratica attraverso il sistema hegeliano e le correnti più moderne del pensiero progressista e socialista. Dopo il delitto di Giacomo Matteotti maturò l’idea di un impegno politico diretto. Fondò, prima, con Basso e altri studenti un movimento di opposizione, i Gruppi goliardici per la libertà, e poi la rivista Pietre, distaccandosi via via dall’ambiente repubblicano. Considerava l’Aventino – la scelta dei deputati antifascisti di abbandonare i lavori parlamentari dopo l’uccisione di Matteotti – un grave errore e del tutto inadeguata l’azione precedente delle forze politiche antifasciste.

La collaborazione al Quarto Stato di Carlo Rosselli e Pietro Nenni e poi un lungo viaggio di studio in Germania (in cui approfondì il pensiero socialista tedesco), lo spinsero verso un’impostazione ideologica di tipo marxista e classista. Inoltre, sempre attento agli studi e all’attività culturale (negli anni Trenta fu anche direttore di due collane dell’editore Corticelli) decise di dedicarsi a settori di ricerca innovativi. Ne scaturì la sua opera più importante, la Storia della grande industria in Italia (Bari 1931) che, nonostante la sua giovane età, ebbe un discreto successo e una notevole attenzione critica.
Nel volume ricostruiva la formazione della grande impresa privata, evidenziando il ruolo delle concentrazioni industriali nella prima modernizzazione capitalistica del paese tra Otto e Novecento e durante la Grande guerra. Per Morandi si era centrato un obiettivo mancato dopo l’Unità, ma restavano problemi profondi: la borghesia italiana si era dimostrata carente di cultura civile e visione globale, responsabile di uno sviluppo insufficiente e di gravi arretratezze (come testimoniava il persistere di una questione meridionale).
Le idee espresse nel volume si richiamavano al suo orientamento politico, maturato alla fine degli anni Venti, nel movimento di Giustizia e libertà (GL), di cui tentò di rendere efficace l’azione clandestina, qualificandolo altresì in senso socialista; ma proprio su questo terreno, nell’autunno 1931, giunse a una rottura con l’organizzazione, segnata da un polemico confronto politico-ideologico con Rosselli. Le posizioni liberalsocialiste del fondatore di GL si scontrarono con le tesi classiste e marxiste dell’intellettuale milanese che assegnava al proletariato la direzione della rivoluzione antifascista e sosteneva l’impossibilità di risolvere la crisi italiana con il semplice ritorno alla democrazia borghese.

Morandi abbandonò GL ma non aderì al Partito Comunista del quale condivideva molte analisi e la funzione storico-politica della Rivoluzione d’ottobre, ma del quale respingeva l’approccio autoritario, statalista e burocratico che intravedeva nell’azione e soprattutto nell’esperienza sovietica (nonostante un intenso confronto con Giorgio Amendola). Altrettanto severo il giudizio sulla socialdemocrazia: la vecchia organizzazione del movimento operaio era del tutto inadeguata e impreparata, rispetto sia alla sfida del fascismo, sia ai nuovi bisogni della società europea. Nel suo pensiero le politiche collettiviste e le nazionalizzazioni, proprie della tradizione marxista, convivevano dunque con l’attenzione alla partecipazione di base e all’autonomia delle organizzazioni di classe.
A metà degli anni Trenta Morandi, che nel frattempo aveva sposato Fausta Damiani, dalla quale nel 1934 ebbe la sua unica figlia, Adriana, riprese l’azione clandestina, schierato su posizioni di assoluta intransigenza verso il regime. Lo scenario politico internazionale stava cambiando. La vittoria di Hitler in Germania aveva costretto le sinistre europee ad avvicinarsi. Il Partito Socialista in esilio liquidò l’esperienza della concentrazione antifascista, strinse il Patto di unità d’azione con il PCI e decise di ricominciare l’attività politica nel paese.

Morandi fu protagonista della costituzione del Centro Interno Socialista in patria (in collaborazione con tutte le correnti del PSI ora riunificato tra cui spiccavano i riformisti di Giuseppe Saragat, Angelo Tasca e Faravelli o uomini come Lucio Luzzatto e Eugenio Colorni). Dopo una prima fase stentata sul piano operativo e attenta soprattutto al lavoro ideologico, il Centro iniziò a penetrare nel mondo intellettuale e in alcune fabbriche, specie all’inizio della guerra di Spagna. Morandi concepì la sua azione di animatore del Centro anche come occasione di rinnovamento del profilo ideologico del partito: nel dibattito aperto tra i socialisti e nella sinistra sulle alleanze con i ceti medi e sul ruolo della democrazia borghese enunciò il fondamento della politica di transizione.
Il movimento proletario poteva – a suo dire – allearsi provvisoriamente con settori borghesi in funzione antifascista, ma senza scalfire le sue caratteristiche rivoluzionarie e classiste, decisive per la successiva costruzione dello stato pianificatore e collettivista. Non mancarono, come nel caso del manifesto che il PCI indirizzò ai militanti delle organizzazioni fasciste proponendo loro una ipotetica alleanza per «la salvezza dell’Italia», prese di distanza dai comunisti, ma ciò non mise in discussione la sua linea unitaria e classista (Agosti, 1971, p. 271).
L’intensificarsi del lavoro clandestino, in parallelo alla guerra di Spagna, non era però passato inosservato; la polizia fascista nell’aprile 1937 arrestò gran parte dei dirigenti del Centro insieme a militanti comunisti e repubblicani. Morandi, sfuggito alla prima retata, invece di cercare la fuga si lasciò arrestare considerandosi il principale responsabile dell’organizzazione. Processato insieme agli altri dal Tribunale speciale, fu condannato a 10 anni di reclusione: scontati prima nel penitenziario di Castelfranco Emilia e poi, dal novembre 1940, a Saluzzo, dove per le sue precarie condizioni nel febbraio 1943 gli fu accordata la libertà condizionale.
In carcere, pur tra ovvie difficoltà, approfondì la riflessione teorica concentrandosi sulla questione meridionale, sul problema agrario e sull’intervento pubblico. Secondo Morandi lo Stato aveva assunto un ruolo decisivo in ogni tipo di economia senza per questo eliminare modelli di produzione capitalistica o, in altri casi, di conservatorismo burocratico. Per superare tali limiti, senza rischiare di passare dal capitalismo allo statalismo, occorreva una terza via e un legame tra alta produttività dell’economia pianificata e partecipazione diretta dei lavoratori (Analisi dell’economia regolata, in La democrazia del socialismo, Torino 1975).

Alla caduta del fascismo, sebbene convalescente e nonostante le iniziali perplessità di amici come Basso, Morandi riprese lentamente l’impegno politico nel PSI. Pur assente alla riunione di rifondazione del partito, fu subito nominato membro della Direzione e responsabile della redazione milanese del quotidiano socialista Avanti!. Fu una breve esperienza perché, dopo l’8 settembre, iniziò l’occupazione tedesca. Fallito un tentativo di collegarsi a militari sbandati nel Varesotto, Morandi espatriò in Svizzera come tanti militanti e dirigenti dei partiti antifascisti milanesi. A Lugano, anche se preso nelle polemiche tra forze di sinistra e moderati sull’atteggiamento da tenere verso il governo Badoglio e la monarchia, fu nominato segretario del Comitato di liberazione. Rientrò in Italia nel giugno del 1944 quando Sandro Pertini, diventato segretario del Partito Socialista per l’Alta Italia, lo richiamò a Milano.
Durante la Resistenza si dedicò agli aspetti teorici e ideologici, pensando – con il coinvolgimento di tecnici e intellettuali – di modernizzare il profilo culturale del partito, fondando prima il periodico Edificazione socialista (con Angelo Saraceno) e poi la rivista ufficiale del Partito Socialista Politica di classe (con Basso e Guido Mazzali).
La sua fermezza ideologica rimase indiscussa. Polemizzò con democratici come Altiero Spinelli sul Manifesto di Ventotene (contestando il capitolo che equiparava il collettivismo allo statalismo e alla burocratizzazione) e con i comunisti sul problema della classe (sostenendo che i socialisti, diversamente dal PCI, riconoscevano un’autonomia alla partecipazione del proletariato).

Per Morandi il programma del partito, all’indomani della definitiva sconfitta dell’Asse, doveva incentrarsi sulle nazionalizzazioni dei grandi monopoli e delle banche, sulla riforma fiscale e agraria, vale a dire su una serie di tappe preparatorie della transizione allo stato socialista. Con analoga intransigenza affrontò il dibattito aperto dal Partito d’Azione sulla funzione dei Comitati di Liberazione Nazionale (CNL) e sul rapporto con il governo di Roma, schierandosi a favore del potenziamento del ruolo politico dei Comitati rispetto all’esecutivo formato nell’Italia liberata.
Per la sua autorevolezza, gli furono affidati compiti di primo piano: la costituzione della commissione economica nel Comitato Nazionale di Liberazione Alta Italia (CNLAI) – dove preparò il piano per le importazioni industriali da concordare con gli Alleati – e, nel partito, la preparazione e la formazione dei quadri, l’organizzazione militare in Lombardia. Nella primavera del 1945 fu protagonista dell’insurrezione di Torino e indicato come presidente del CNLAI, in sostituzione di Alfredo Pizzoni. L’esperienza fu breve, perché il tentativo di trasformare i comitati in strumenti di governo fallì rapidamente. Morandi, nell’estate successiva, fu per pochi mesi segretario del PSI, attenendosi alla linea classista e all’obiettivo strategico dell’alleanza con i comunisti (qualificandosi così come uno dei più autorevoli leader della sinistra del partito) e scontrandosi con la prospettiva socialdemocratica animata da Saragat. Non per ciò smentì il suo percorso culturale e intellettuale: fondò l’Istituto di studi socialisti insieme al riformista Roberto Tremelloni e a un folto gruppo di intellettuali milanesi e iniziò, in stretta collaborazione con l’economista e meridionalista Pasquale Saraceno, un’intensa attività di ricerca sulla pianificazione e sui temi economici.

Nella sua visione lo Stato, motore e decisore delle politiche economiche, doveva collegare la nazionalizzazione di alcuni settori strategici (come l’impresa elettrica) con la programmazione degli investimenti e l’industrializzazione del Mezzogiorno, mentre attraverso i Consigli di gestione, organi di autogoverno operaio, i lavoratori avrebbero partecipato alla direzione della ricostruzione industriale. Il piano fu bocciato da alleati e avversari ma, nella composizione del II governo De Gasperi, Morandi divenne ministro dell’Industria (con Tremelloni sottosegretario). Nei dieci mesi di direzione del dicastero cercò di attuare alcune idee, lavorando per un vasto disegno di programmazione economica, portando a termine la creazione dell’Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno (SVIMEZ) e, assieme al riformista Luciano D’Aragona, realizzando la legge che avrebbe dovuto istituire i Consigli di gestione.
Convinto di una linea classista e unitaria verso i comunisti, non adottò mai tesi politiche di tipo riformista. Da quel momento, dividendosi tra Roma e Milano, diventò, con Nenni e Basso, Luigi Cacciatore e Oreste Lizzadri, il pilastro del PSI dopo la scissione socialdemocratica e la fine dei governi di unità nazionale.

La crisi della primavera 1947, causata formalmente dalle proposte anti-inflazioniste di Morandi respinte dagli alleati di centro, sancì l’inizio della nuova fase politica. Il sistema politico italiano si riorganizzò sul modello dei due blocchi in cui si divideva l’Europa. Il PSI scelse di collocarsi tra le forze marxiste a fianco dell’Unione Sovietica, contrastando frontalmente l’azione riformatrice del centrismo degasperiano e la collocazione dell’Italia nel campo occidentale e sostenendo la tesi dell’imminente crollo del sistema capitalistico e della irriformabilità della democrazia liberale. Morandi, con Nenni, fu il teorico di una linea che poneva il PSI al centro della politica frontista sacrificandone l’autonomia (ed elaborando con Raniero Panzieri e altri intellettuali il nuovo «piano di transizione socialista»).
Giunse all’aperta dichiarazione di adesione al leninismo e alla formulazione della teoria del partito come forza organizzata della classe, impegnata nella lotta all’imperialismo capitalista e nell’affermazione della questione nazionale. Come responsabile dell’organizzazione del PSI tenne fede all’obiettivo di preservarne le caratteristiche ideologiche all’interno dell’alleanza frontista e di attrezzare una struttura e una simbologia adeguate a questa scelta strategica; curò tenacemente la formazione e il profilo dei gruppi dirigenti, impegnati a contrastare le principali riforme del centrismo, dalla Cassa per il Mezzogiorno alla Riforma agraria, fino alla liberalizzazione degli scambi. Non smise mai però di interrogarsi sulle caratteristiche economiche e sociali del paese – confrontandosi con intellettuali come Saraceno e Alessandro Molinari e con uomini dell’impresa e del sindacato – e sulla complessa evoluzione delle Partecipazioni statali, l’industria di Stato. Seguitò a partecipare all’attività della SVIMEZ e, da quella tribuna, seguì l’ampio dibattito che avrebbe portato alla redazione e alla presentazione dello Schema di sviluppo economico di Ezio Vanoni.

Fra il 1953 e il 1955, mentre si riproponeva la questione di una nuova posizione politica nel PSI per porre fine all’isolamento del partito, anche Morandi avviò contatti con il mondo cattolico. Fu il regista del congresso di Torino, che inaugurò una stagione nuova per il socialismo italiano, ma al quale non riuscì però a partecipare.
Una rapida malattia lo condusse alla morte, a Milano, il 26 luglio 1955.

a cura di Carmine Pinto

 

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