AL TEMPO DELLA SPERANZA: LA CONFERENZA DI BANDUNG

di Franco Astengo |

Qualche sera fa Il canale “Rai Storia” un ricordo della conferenza di Bandung (1955) dalla quale (riferisco con un poco di semplificazione) nacque il movimento dei “non allineati”: questo piccolo episodio della rievocazione televisiva si è verificato in un momento particolarmente buio nella storia del mondo, dove la vicenda della pace e della guerra sta tenendo in sospeso la vita stessa degli abitanti del pianeta appesi al filo di una possibile catastrofe nucleare e legati ansiosamente all’esito di guerre che stanno avvolgendo tutti i continenti in una spirale che sembra ricostituire l’antica e mai superata strategia del terrore.

Ricordare la Conferenza di Bandung significa allora rievocare un tempo di apertura di speranza che possa servire come un monito valido per il presente.

In quel tempo, alla metà del XX secolo (il secolo delle grandi tragedie mondiali) in un mondo dominato ormai dalla logica dei due blocchi contrapposti: quello occidentale raccolto attorno agli USA, e quello orientale egemonizzato dall’URSS si svilupparono, nel decennio intercorso tra il 1950 (anno di inizio della guerra di Corea) e il 1960 (con il completamento, salvo alcune sanguinose eccezioni come l’Algeria, del processo di decolonizzazione in Africa) alcuni eventi assolutamente fondamentali per il prosieguo del processo storico a livello planetario.

Assieme alla fine irreversibile del vecchio colonialismo si possono ricordare l’entrata in crisi della “guerra fredda”, la ricostituzione della potenza economica dell’Europa Occidentale e del Giappone, l’emergere della Cina comunista.

La fine del colonialismo corrispose a una serie di imperativi storici: dopo la seconda guerra mondiale apparve chiaro che la nuova forma di dominio mondiale non passava più attraverso quelle sfere di dominio ormai arcaiche, bensì attraverso la costituzione di immense sfere di influenza che, includendo paesi sviluppati o meno, non avevano più nulla a che fare con le colonie.

In questo senso agirono le due grandi potenze: USA e URSS.

L’influenza statunitense nel mondo si esprimeva esportando capitali, tecnologia, fornendo aiuti di vario tipo e condizionando le linee politiche degli Stati subalterni, come in Europa Occidentale, oppure saccheggiando risorse e materie prime attraverso una combinazione di sfruttamento economico e di controllo politico sui governi.

Il sistema neo – imperialista era molto articolato e andava da una complessa politica di alleanza e di condizionamento verso grandi paesi (come nel caso della costruzione dell’embrione dell’Unione Europea) fino alla politica brutale in paesi sotto governi- fantoccio in Asia e in America Latina (emblematico lo sbarco dei marines in Libano, l’occupazione di Grenada e – soprattutto – l’organizzazione del “golpe” cileno dell’11 settembre 1973).

Alla sfera di influenza statunitense, basata sull’imperialismo di tipo nuovo, corrispondeva quella sovietica, nella quale l’URSS, pur nemica del vecchio colonialismo e dell’imperialismo di nuovo conio di marca statunitense, realizzava una sua forma di ferreo dominio sui paesi minori, che si manifestava nel controllo politico ed economico e nell’utilizzazione delle risorse dei piccoli e medi Stati dell’Est europeo (sottoposti anche diretta vigilanza e repressione militare come dimostrato dall’Ungheria ’56 e dalla Cecoslovacchia ’68),.

Il primato sovietico nel campo socialista poggiava, analogamente a quello statunitense, sul monopolio delle superarmi e dei più avanzati settori tecnico – scientifici (com’era dimostrato, in quel momento, dalla lotta tra le due superpotenze per la supremazia nelle imprese spaziali).

La decolonizzazione, con il sorgere conseguente di numerosi Stati nuovi, portò al delinearsi di un nuovo assetto planetario che fu battezzato con un’espressione poi corrente per un lungo periodo eppur vaga “Terzo Mondo”.

Un “Terzo Mondo” variegato per storia, economia, struttura politica eppure accomunato da alcune grandi tendenze di fondo: la necessità di svilupparsi in tempi rapidi e la diffusa tendenza al “neutralismo”.

In quest’ambito si svilupparono alcune iniziative clamorose che misero in luce proprio queste tendenze “neutraliste”.

Dopo la conferenza di Colombo (Ceylon) del 1954, nel corso della quale India, Pakistan, Birmania, Ceylon e Indonesia presero posizione per la fine della corsa all’armamento nucleare, contro il colonialismo, a favore della pace e della distensione ebbe grandissima importanza la Conferenza di Bandung (Indonesia), la quale fra il 18 e il 24 aprile 1955 riunì 29 stati che per la maggior parte erano neutrali.

La conferenza era il frutto delle discussioni sviluppatesi tra alcuni paesi asiatici durante la fase finale della crisi indocinese, e dopo la firma, nel settembre del 1954, del trattato istitutivo della SEATO (l’omologo sul fronte del Pacifico, della NATO).

Originariamente la conferenza di Bandung non era ispirata da un comune progetto tra i paesi partecipanti di non allineamento rispetto agli schieramenti della guerra fredda, dato che fra i paesi invitati erano presenti tanto il Pakistan, ben legato all’Occidente dal trattato della SEATO e dalla sua politica generale, quanto la Cina, in quel momento schierata con l’URSS, o le Filippine e il Giappone, capisaldi degli USA nel Pacifico.

Complessivamente a Bandung furono presenti 29 delegazioni, eterogenee quanto alla provenienza e anche rispetto alla loro linea di politica internazionale ma tutte sensibili al tema degli schieramenti in relazione allo scontro sovietico – americano e ai costi impropri che la logica dello scontro proiettava su tutto il globo.

In realtà il proposito iniziale fu modificato durante i lavori dal ruolo dominante assunto da alcuni dei partecipanti, come Nehru, Sukarno, Nasser, U Nu e Chou En Lai, che riuscirono a sovrapporre alle tematiche di schieramento nelle quali i 29 partecipanti erano impegnati l’analisi di alcuni principi generali che avrebbero dovuto costituire come una sorta di guida del “non allineamento”.

Il diritto di autodeterminazione nazionale e la condanna del colonialismo ebbero un posto importante nel dibattito: un altro punto importante fu rappresentato dall’impegno, sancito in linea di principio, di “astenersi dal partecipare ad accordi di difesa collettiva volti a servire gli interessi particolari delle grandi potenze”.

Era questa la formula del “non allineamento”, la cui formula consentì però una vasta gamma di interpretazioni.

In generale la conferenza ebbe un forte valore simbolico, offrendo anche forti spunti di dibattito e intervento ai movimenti della sinistra critica in Occidente, in quanto vi furono affermati principi del futuro ordinamento internazionale come il forte impegno a favore dell’indipendenza dei popoli coloniali, che avrebbe avuto larga eco nel mondo, così come ebbe grande risonanza l’annuncio di una nascente coalizione neutralistica (alla quale avrebbero poi aderito anche la Jugoslavia e Cuba, al momento della rivoluzione castrista).

Emerse poi un primo sintomo (in anticipo rispetto all’’apertura del conflitto politico – ideologico con l’URSS coincidente, due anni dopo, con l’avvio del processo di destalinizzazione) della volontà cinese di sviluppare nel mondo afro-asiatico una propria politica estera e di intervento economico del tutto autonoma da quella sovietica.

Lo “spirito di Bandung” sopravvisse poi alla grande crisi del 1956, l’anno segnato (oltre che dal “rapporto segreto” svolto da Kruscev nel corso del XX congresso del PCUS, sui crimini staliniani) dalla repressione della rivolta ungherese da parte dell’URSS e dalla scontro sulla nazionalizzazione del Canale di Suez con l’intervento militare di Francia, Gran Bretagna e Israele respinto dall’Egitto.

Quale seguito ideale della Conferenza di Bandung si svolse così nel 1961 la Conferenza di Belgrado, che mise in piena luce il ruolo della Jugoslavia guidata da Tito nell’azione di disimpegno dei blocchi e in favore dell’azione dei paesi non allineati.

La Jugoslavia che, in seguito alla rottura con l’URSS avvenuta nel 1948, non si era più allineata all’interno del blocco sovietico, aveva svolto un’intensa attività a favore del disimpegno presso i maggiori paesi dell’Asia e dell’Africa.

Si avviava concretamente, anche se non tutti ne avvertirono l’importanza, un processo politico teso a determinare la fuoriuscita dallo schema di Yalta.

Seguì allora una fase di tentativo rivoluzionario esteso all’America Latina, all’Africa e all’Asia in particolare dopo gli esiti della rivoluzione cubana, della vittoria vietnamita prima sui francesi e poi sugli USA, della rivoluzione culturale cinese.

Iniziò anche una intensa attività di studio e di diplomazia della quale possiamo determinare il culmine con la relazione “Nord/Sud” redatta dalla Commissione Brandt nel 1980; gli esiti non furono felici come possiamo ben constatare nell’attualità.

Noi giovani avevamo vissuto un’epoca attraversata da grandi tensioni utopiche e di profondo mutamento nel pensiero : una stagione nel corso della quale eravamo riusciti a pensare che potesse essere davvero possibile non soggiacere alle logiche dominanti nel potere globale.

I paesi “non allineati” erano stati visti come un faro rivolto al futuro: questa modesta ricostruzione non procede oltre, l’intento era soltanto quello di accennare ad una fase che non può e non deve essere dimenticata proprio adesso, in un punto così difficile della storia.