SOCIALISMO “LIBERALE” O DEMOCRATICO PER GOVERNARE IL FUTURO O SEMPLICEMENTE SOCIALISMO?

di Silvano Veronese – Ufficio di Presidenza Socialismo XXI |

Giusto il richiamo riportato nel Suo recente articolo da Renato Gatti a delle  condivisibili affermazioni di Norberto Bobbio contenute in una vecchia intervista. Personalmente,  non mi è  mai piaciuta l’aggettivazione di “socialismo liberale”, oggi spesso usata a volte per definire la pratica di un socialismo democratico, vale a dire il perseguimento di politiche ed azioni da parte di soggetti politici che tendono ad introdurre, attraverso una lotta politica riformista in una società pluralista retta da un sistema democratico, elementi di socialismo e cioè di emancipazione dei lavoratori e di eguaglianza sociale, di estensione di diritti progressivi di giustizia sociale, di avanzamento della condizione economica, sociale e civile delle classi meno abbienti e marginalizzate come “periferie” di una società articolata.

A volte viene usata da alcuni  per intendere quella che giustamente Norberto Bobbio chiama una formula dottrinaria e cioè il “liberalsocialismo”.

Esistono al mondo, anche dopo la “caduta del muro” e la disgregazione dell’Unione Sovietica, regimi autoritari dittatoriali illiberali  da parte di partiti-stato che dicono di ispirarsi al socialismo, ma non vedo il bisogno di ricorrere alle predette aggettivazioni, secondo me, per distinguere dette  esperienze dal socialismo che si è affermato nell’Europa occidentale da molti anni perché queste esperienze di socialismo europeo sono  maturate e sviluppate assumendo in sé gli inalienabili valori della libertà e della democrazia.

Quanto al liberalsocialismo, prendo atto, invece,  che tutte le sue esercitazioni ideologiche – a partire da G.L. e dal Partito d’azione, per andare al progetto pannunziano ed unificatorio della “terza Forza” e per giungere alla seduzione italiana della blairiana “terza via del new labour” unificandolo ai liberali, hanno fallito la loro concretizzazione pratica in un partito politico, malgrado le indubbie qualità morali ed intellettuali dei propugnatori come pure quelle di coloro che, pur avendovi aderito all’inizio, hanno finito poi – quelli di ispirazione socialista – per confluire nel PSI e – quelli di ispirazione liberaldemocratica – per confluire nel PRI, nel Partito Radicale o nella sinistra liberale.

Ci sono certamente valori comuni e/o contigui tra le due ideologie, ma ci sono pure non trascurabili elementi antagonisti e molto diversi riferimenti sociali con i loro interessi, con problematiche e bisogni di segno diverso  da soddisfare che rendono – al limite – praticabile una alleanza coalizionale fra soggetti politici che si ispirano alle due ideologie ma NON praticabile la loro contaminazione e/o fusione in soggetto politico unitario, in particolare per una diversa concezione del ruolo dello Stato, una diversa  visione della società e della distribuzione dei poteri e della ricchezza.

Tutto cio’ premesso, secondo il mio pensiero, vengo a chiarire le mie valutazioni sul carattere di socialismo che Renato Gatti ha sviluppato nel Suo articolo e che, per la comunità di “Socialismo XXI”, interessa molto di piu’ che una valutazione sulla validità di una formula  dottrinaria (per dirla con Bobbio).

Non credo sia privo di significato il fatto che la Costituzione repubblicana definisce uno Stato che, grazie al ruolo delle forze riformatrici, si astiene dal comprimere la libertà dei cittadini, ma che non rinuncia a regolamentare i diritti di libertà del singolo o di un gruppo di cittadini  affinchè essi non comprimano la libertà degli altri. E ciò si è affermato, ad un certo punto della vita repubblicana, anche sui posti di lavoro affinchè il soggetto subordinato nella organizzazione produttiva (cioè il lavoratore dipendente) non lo fosse anche come cittadino con le sue libertà di espressione politica, religiosa, e di appartenenza sindacale o partitica.

Non ritengo condivisibile, perciò, quando Gatti afferma  che per il Socialismo democratico (che Egli chiama riformista) i diritti sociali siano indefiniti. Faremmo un torto allo Statuto dei Lavoratori e ad altre normative pro-labour nonché ad una diffusa rete di contratti nazionale di lavoro che non sono piovuti dal cielo o senza il sostegno e l’impegno di questo modello di socialismo.

La Costituzione, nelle sue indicazioni di principio e precetti generali, prefigura la possibilità di una economia mista: spetta alla legislazione, ai governi e al Parlamento definirne gli ambiti e i ruoli, in particolare quelli dell’intervento pubblico. Ad esempio, proprio raccogliendo le indicazioni costituzionali, io penso che scuola, sanità, assistenza sociale, mobilità, servizi pubblici essenziali, tutela ambientale dovrebbero vedere un maggiore ruolo gestionale diretto e primario dello Stato (anche se in termini non esclusivi, ma certamente fondamentali e di indirizzo e controllo per le eventuali co-presenze dei privati). Anche in settori strategici per l’economia e l’interesse generale del Paese lo Stato, oltre a formulare indirizzi dovrebbe, in caso di inerzia o latitanza dei privati, assumere un ruolo protagonistico di gestione.

Abbiamo avuto, anche in presenza di governi di centrosinistra, negative e gravi inversioni di tendenza con privatizzazioni affrettate e spesso ingiustificate. Cio’ non significa che sia avvenuto per responsabilità  di una pratica del “socialismo riformista”, semmai il contrario.

Come pure lo strapotere brutale del capitalismo, in particolare di quello finanziario, che ha prodotto gravi e profondi regressi sul piano della distribuzione della ricchezza e dei redditi, non è responsabilità di una pratica riformista del socialismo anche perché per governare l’intera società serve il consenso della maggioranza e, purtroppo, un soggetto politico di queste caratteristiche non l’ha mai avuta nella c.d. prima repubblica oppure non c’è mai stato nella c.d. seconda, malgrado la presenza in vari governi di responsabilità con ascendenze storiche nel mondo del lavoro e contiguo.

Tu dici, serve una “strategia che intacchi la struttura economica”. Non ne vedo le condizioni e le disponibilità di forze politiche e sociali di rilievo. E poi in che formula si concretizzerebbe? Nella statalizzazione di tutti i  mezzi di produzione? Non sono d’accordo perché riporterebbe ai dibattiti di 120 anni fa nella sinistra e comunque sarebbe un obiettivo negato dalla Legge Costituzionale che riconosce la proprietà privata e la libera iniziativa in economia.

Diverso è il discorso, come sopra ho evidenziato, di una presenza pubblica attiva (piu’ dello Stato che delle Regioni che hanno dato cattiva prova di sé  nella capacità gestionale del bene comune) in alcuni settori di primaria importanza sociale e per il bene della comunità nazionale o per la loro strategicità ai fini dello sviluppo ed in assenza o latitanza di un ruolo del capitale privato.

Sull’Economia. Sono d’accordo che la prospettiva positiva dei nostri apparati produttivi è strettamente legata alla qualità e alla quantità della ricerca e dell’innovazione nelle NTI che sapremo sviluppare. La rivoluzione prodotta dalla innovazione tecnologica, l’innovazione scientifica e la sua applicazione industriale, la diffusione dei saperi, delle informazioni, delle conoscenze, lo sviluppo della produttività ed un utilizzo industriale della nostra abilità creativa sono il terreno nel quale un moderno socialismo si misura per governare il cambiamento ed il passaggio alla 4^ rivoluzione industriale che dalla informatizzazione dei processi produttivi passerà alla automazione spinta (robotizzazione)anche per le profonde mutazioni che ciò produrrà non solo nel modo dei produrre, ma anche del lavoro, delle professionalità, dei rapporti sociali.

C’è bisogno di molta ricerca, di molta formazione, di ripensamento delle strategie industriali e dei modelli di vita e dei consumi. C’è bisogno di idee, di capacità di indirizzo, di grandi risorse. Noi abbiamo un capitalismo industriale indolente e poco propenso al rischio e ad investire i profitti in questa direzione. Esso va sferzato dalla politica, dalle competenti sedi istituzionali e lo Stato deve promuovere e programmare queste svolte. Servono risorse, ma non sono d’accordo che solo lo Stato debba mettere a disposizione le risorse necessarie. L’imprenditoria privata, in particolare quella delle medie e grandi aziende, deve fare la propria  parte. Sia a livello pubblico che privato siamo il Paese che investe di meno in rapporto al PIL per finanziare ricerca ed innovazione.

Lo Stato, tramite il Governo, deve favorire l’accesso al credito ed impegnarsi per una riduzione del suo costo a fronte di progetti mirati e finalizzati a questi obiettivi. Vanno favoriti anche accordi di stretta collaborazione fra Gruppi e distretti industriali e Università ed Enti pubblici di ricerca.

Ed in questo ambito, a fronte di una programmazione condivisa e concertata di progetti mirati, andrebbe prevista una fiscalità agevolata a fronte di un impegno concreto  della imprenditoria privata.

Ho delle riserve circa il tramutare il sostegno pubblico in azioni delle imprese interessate ed impegnate in  questi programmi perché, nel caso l’azienda dovesse fallire, trascinerebbe anche la sfera pubblica nella responsabilità del negativo evento.

Sullo sfruttamento. Già l’uso del termine e la prefigurazione di una situazione di neo-schiavismo mi sembra una esagerazione massimalista della condizione di lavoro mediamente esistente. Intanto, oltre il 50% del mondo del lavoro dipendente è impegnato nelle attività del terziario, dei servizi e della P.A. (prevalentemente impiegatizio) e perciò non assoggettato a ritmi piu’ o meno insopportabili di lavoro vincolato o disagiato.

E’ una quota di lavoro destinata a crescere e quindi si ridurrà l’area delle lavorazioni gravose tipiche di  attività presenti  nell’industria manifatturiera, in siderurgia ed nell’edilizia, nelle quali, però, vi è oggi  un’ area crescente delle funzioni di coordinamento, di responsabilità, di autonomia rappresentata da operai specializzati, da impiegati (in particolare di concetto), da tecnici e da quadri.

La crescente automazione incrementerà sempre più queste figure che assumeranno via via sempre piu’ un ruolo fondamentale nelle gestioni aziendali. Farebbe bene il Sindacato a sviluppare una sua maggiore presenza in queste aree lavorative se vorrà partecipare con capacità di conoscenza dei processi e con competenza al confronto attivo sui programmi produttivi previsto dalla 1^ parte dei contratti di lavoro.

Pensare che l’azienda sia il luogo dello sfruttamento operaio esasperato (come emerge dal capitoletto) è,  anche in questo caso, ritornare ad un passato lontano quasi che lustri di grandi lotte sindacali non abbiano modificato in niente la condizione di lavoro, economica e sociale dei lavoratori, tenendo poi conto della profonda trasformazione subita dalla articolazione di mansioni e figure professionali.

E’ vecchio del 1977 il bellissimo libro dell’indimenticabile compagno, prestigioso leader sindacale,  Bruno TrentinDa sfruttati a produttori” nel quale, oltre a porre il problema della partecipazione dei lavoratori alla definizione dei programmi produttivi, Bruno mise la libertà della persona (in questo caso l’operaio e l’impiegato) al primo posto nelle rivendicazioni sociali per l’emancipazione dei lavoratori ed il miglioramento della organizzazione del lavoro in fabbrica.

In questo libro, Bruno Trentin  prefigurava “un nuovo modo di fare l’automobile” e cioè il superamento del fordismo e del toyotismo alienante con il passaggio dalla catena di montaggio ad un piu’ autogestito “lavoro ad isole” e alla ricomposizione delle mansioni che recuperava i valori della responsabilità e della creatività nella prestazione lavorativa del singolo.   

Lineamenti che non rimasero ideologia o teoria, ma che trovarono  applicazione nel nuovo stabilimento di MELFI della Fiat, e non solo lì, un modello di “nuova fabbrica” all’avanguardia nel mondo nel settore della produzione di auto. Anni dopo, in un libro intervista-confronto “Il lavoro possibile” con Carlo Callieri, uno dei maggiori dirigenti del gruppo FIAT, Bruno Trentin  spiegava  – come attraverso le battaglie  operaie ed il confronto sindacale tra le parti sullo sviluppo produttivo possibile  – si realizzasse uno sviluppo anche sociale oltre che economico.

Un “riformismo socialista” perciò non solo declamato, ma praticato  attraverso lo studio, la elaborazione continua sull’onda di grandi battaglie sindacali e culturali. Purtroppo il contesto politico, esterno alle fabbriche, ha subito negli ultimi anni un regresso continuo, facendo venire meno la condizione che potesse favorire  una continuità evolutiva di questi positivi processi gradualisti fino a far regredire anche le stesse conquiste sociali degli anni ’70. Ma ciò non mette in discussione il valore di questo riformismo sociale.

Ci sono poi anche  fattori di disagio sociale sofferti dai lavoratori, fuori dal posto di lavoro, ai quali un arretramento del sistema di welfare state non sa dare tutt’ora risposta adeguata e sulla quale servirebbe una seria riflessione e discussione per prefigurare un quadro di proposte per rispondere ai bisogni dei lavoratori e dei loro familiari che un progetto socialista riformista dovrebbe essere in grado di formulare e di farne oggetto di battaglia politica. Ma qui il discorso diventa ampio e potrà essere occasione di ulteriori ragionamenti.

La robotizzazione. E’ un processo inarrestabile che non può essere considerato negativo anche ai fini di un migliore condizione di lavoro, di una diversa qualità delle attività produttive e della loro efficienza e non sempre è una scelta determinata da una perversa volontà del capitalismo industriale per realizzare nuove e più ampie possibilità di profitto a danno del mondo del lavoro dipendente (che Gatti  ipotizza come una forma di “neo schiavismo”).                    

Penso, ad esempio,  che furono proprie lotte sindacali importanti negli anni ’70 per la salvaguardia della salute dei lavoratori  a favorire nel settore dell’auto e nella cantieristica, per passare poi nel settore del “bianco” (produzione di frigo e lavatrici), l’introduzione di robot in sostituzione del lavoro umano nelle lavorazioni di verniciatura e di saldatura, fortemente nocive perché causavano agli addetti molti casi di silicosi. 

Nessuno pensò di pretendere – in dette occasioni – una socializzazione della proprietà di questi sofisticati mezzi di produzione, ma di discutere invece  le conseguenze della loro introduzione in rapporto alla programmazione quanti-qualitativa degli organici di quei reparti dove il lavoro manuale veniva sostituito dalle macchine.

Un problema che si amplierà sempre più, in particolare nelle attività manifatturiere, ma che via via si estenderà ad attività dei servizi e al lavoro impiegatizio che già da qualche anno  – in particolare nel settore bancario dove il lavoro è strutturalmente impiegatizio – è stato ed è oggetto di questi processi creando quantità significative di esuberi e nel contempo la  modifica delle professionalità con la sparizione di alcune qualifiche e l’introduzione di nuove.

Anche in questo capitoletto dell’articolo di Gatti mi sembrano esagerate alcune affermazioni come una  vicina sparizione del lavoro umano fino a prefigurare che “tutto ciò che verrà prodotto” non  sarà più opera del lavoro umano, né manuale, né intellettuale. Semmai è il contrario, gradualmente in molti settori il lavoro manuale, anche specializzato,  verrà meno per lasciar posto ad un incremento del lavoro intellettuale dedito al controllo di macchine sempre piu’ sofisticate ed intelligenti, ma che saranno “governate” dall’uomo, in quanto oggetto di permanenti  controlli e manutenzioni, oppure perché strumento di progettazioni e di elaborazioni di programmi e scelte produttive e di mercato che appartengono pur sempre  alla volontà e alle scelte degli uomini.

Certo esiste il problema di chi e come governerà questi processi, non solo per quanto riguarda la riorganizzazione strutturale, quantitativa e qualitativa, del mercato del lavoro, ma anche per decidere come verrà redistribuito il profitto aziendale tenuto conto che esso sarà il prodotto di prestazioni lavorative inferiori per numero rispetto ad oggi.

Un problema che riguarda il primo luogo il sindacato anche per una gestione attiva degli esuberi, ma anche perché l’utilizzo sempre più massiccio di robot, macchine sofisticate, ma costose, vedrà l’impresa interessata a richiedere un pieno utilizzo ”h. 24” di questi impianti e macchinari e quindi una organizzazione produttiva a ciclo continuo con un  lavoro a turni  (anche notturni), una condizione già ora presente in varie aziende manifatturiere che hanno visto una intensa automazione con impianti sofisticati ed elettronici ma costosi e perciò da sfruttare al massimo possibile.  

Un processo  che investe anche la politica perché ciò cambierà la vita delle famiglie e l’organizzazione della vita sociale, tenendo presente poi che l’attenuazione del fenomeno degli esuberi potrà avvenire con la riduzione a parità di retribuzione dell’orario giornaliero e settimanale di lavoro e si tratta quindi valutare quali servizi culturali e  sociali potranno essere offerti ad una gran massa di lavoratori che avranno piu’ tempo libero dal lavoro.

Tutto ciò è un processo che dovrà vedere un nuovo protagonismo degli attori sociali e politico-istituzionali, ma non riesco a capire la motivazione della proposta di “socializzazione” della proprietà di queste macchine intelligenti chiamate a sostituire parzialmente il lavoro umano. Una scelta estranea al sistema politico delle democrazie occidentali e alle culture (compresa quella socialista democratica) in esse presenti.

Sull’energia. Ho già espresso piu’ sopra  la mia personale posizione circa l’opportunità che determinate attività ed in particolare quelle di produzione ed erogazione di servizi pubblici essenziali debbano essere “in mano pubblica” sul piano proprietario e gestionale, per rispondere – pur nell’economicità dell’esercizio – ad un primario interesse collettivo e della società.

In questo quadro, ovviamente, ci metto le aziende di detto settore, alcune già con una presenza dello Stato nel capitale in termini di maggioranza relativa (oppure le municipalizzate) ma, essendo state trasformate in S.p.a. e quotate in borsa, oggi agiscono come aziende private dovendo rispondere all’insieme dell’azionariato e alle regole che sovraintendono alle attività proprie di una società per azioni quotata.

Situazione che – a mio giudizio – va corretta riportando le aziende di questo settore  alla natura di Enti pubblici.