ANCORA SUL SOCIALISMO

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |

Un ulteriore contributo

Accetto volentieri l’apertura di una corrispondenza, aperta a tutti i compagni, con Silvano Veronese, e vorrei precisare lo scopo della mia risposta al suo ultimo post. Lo scopo è di confrontarci per raggiungere una visione condivisa sul futuro del socialismo e quindi del nostro comportamento; parto dai punti che condividiamo, chiarisco punti che evidentemente non ho ben spiegato, cerco di spiegare il perché della non condivisione di altri punti. Il tutto al fine di una costruzione, magari dialettica, ma congiunta.

Silvano:

mi sembra che condividiamo il fatto che, come scrivi tu, “purtroppo il contesto politico, esterno alle fabbriche, ha subito negli ultimi anni un regresso continuo, facendo venir meno la condizione che potesse favorire una continuità evolutiva di questi positivi processi gradualisti fino a far regredire anche le stesse conquiste sociali degli anni ‘70”, meno condiviso è il seguito “Ma ciò non mette in discussione il valore di questo riformismo sociale”. Abbiamo avuto un periodo dal 45 agli anni ’70 di, da me riconosciute, importanti riforme sociali (per esempio la nazionalizzazione dell’Enel); abbiamo poi avuto un periodo di avanzante liberismo che ha portato ad affrettate ed inopportune privatizzazioni che hanno ridotto la funzione pubblica alla sola funzione di “stato regolatore” garante del libero mercato; siamo passati poi ai fallimenti del mercato (tre nel solo nuovo secolo) che hanno portato allo “stato elemosiniere” che viene in aiuto del capitale erogando bonus, sussidi e agevolazioni fiscali. Ciò non è colpa del riformismo, ma è sintomo del fatto che il riformismo, come scrivi tu, vede “regredire anche le stesse conquiste sociali degli anni ‘70”. Di qui la mia sollecitazione a ricercare una nuova “fase” del riformismo, un approccio adeguato ai tempi che innalzi il livello di intervento fino ad “intaccare la struttura economica” o per meglio chiarire, modificare la struttura del capitalismo superando la fase di modifica sovrastrutturale. E su questo mi pare che concordiamo quando scrivi che sei favorevole ad “una presenza pubblica attiva (…) in alcuni settori di primaria importanza sociale”.

Non ho mai parlato di “statalizzazione di tutti i mezzi di produzione” ma ho indicato, nel capitolo “economia”, dove ritengo intervenire con un nuovo approccio nel rapporto con i mezzi di produzione.

Sull’economia. Siamo completamente d’accordo sul ruolo strategico che la ricerca assume in questa fase storica, tu mi contesti di non essere “d’accordo che solo lo Stato debba mettere a disposizione le risorse necessarie”. Non mi sembra di aver scritto questo, e se l’avessi fatto rettificherei.

Quello che sottolineavo è che il capitalismo privato (quello nostrano, non le multinazionali) non è strutturalmente in grado di assumersi l’onere del rischio e del lungo pay-back insito nella ricerca. Mi rifaccio cioè alla funzione nuova (ecco la nuova fase del riformismo) che “Lo stato innovatore” di Mariana Mazzucato può assumere. Ed aggiungevo che “solo un programma impostato tra gli stati europei può offrire una base seria per una ricerca capace di tenerci in campo nella competizione mondiale”. Ma la Cina e gli stessi Stati Uniti (leggasi sempre sul libro della Mazzucato) sono al primo posto nella ricerca fatta dallo stato o enti (pentagono, cia etc) che hanno prodotto da internet a gps tutta la tecnologia oggi in uso. Ma pensiamo ai calcolatori quantistici, non potrebbe essere un ente europeo che lo sviluppa, e che dire della fusione nucleare (Iter insegna). Certo in questo disegno può partecipare anche l’imprenditoria privata ma è ovvio che sarebbe parte di quella programmazione pubblica costituente la nuova fase del riformismo che immagino.

Altro è regalare i soldi alle imprese con i miliardi di € già erogati e quelli erogandi con il PNRR con le agevolazioni 4.0 di Calenda. Con questo provvedimento, come scrivevo, ”i soldi delle tasse pagate dai contribuenti sono regalati ad un capitale ozioso ed inadempiente ai suoi compiti, per aumentare la produttività (ferma da trent’anni) che in un primo approccio crea licenziamenti ai danni proprio di quei contribuenti che hanno finanziato l’innovazione”. Per questo proponevo che quei fondi invece di essere erogati sotto forma di sussidio, fossero erogati in cambio di azioni societarie delle imprese beneficiate.

Tu invece hai “delle riserve circa il tramutare il sostegno pubblico in azioni delle imprese interessate ed impegnate in questi programmi perché, nel caso l’azienda dovesse fallire, trascinerebbe anche la sfera pubblica nella responsabilità del negativo evento”. Obietto che in primis non vedo perché se l’investitore è privato ha in cambio azioni ed invece se è pubblico non dovrebbe aver diritto ad un pari trattamento, In secundis non capisco perché per il rischio possibile di un fallimento di una azienda su mille su cui si è investito dovrei perdere tutto l’investimento (anche quello delle altre 999) erogandolo come regalo. Insomma per non perdere uno preferiresti perdere mille. Infine ricordo che in caso di fallimento, l’azionista perde il valore dell’azione senza nessun altro evento negativo in cui si possa essere trascinati.

Sullo sfruttamento. Non è un “esagerazione massimalista”usare il termine “sfruttamento” o prefigurare una situazione di neo-schiavismo. L’attuale fase economica vede, insieme a tradizionali forme di sfruttamento, nuove forme prodotte dalle innovazioni nel modo di produzione. Non condivido la tua osservazione secondo la quale “oltre il 50% del mondo del lavoro dipendente è impegnato nelle attività del terziario, dei servizi e della P.A. (prevalentemente impiegatizio) e perciò non assoggettato a ritmi più o meno insopportabili di lavoro vincolato o disagiato.” Già Marx, nei Grundrisse, osservava che lo svilupparsi dello sfruttamento sul lavoro intellettuale avrebbe reso miserevole lo sfruttamento sul lavoro fisico; l’appropriazione da parte del capitale del lavoro intellettuale del mondo del lavoro (in questo caso impiegatizio) è oggi la realtà dei rapporti sociali. Ma non possiamo ignorare, quando parliamo di servizi del terziario, l’introduzione degli algoritmi, di quelle elaborazioni presentate come asettiche e obiettive, che vengono imposte senza alcuna fase contrattuale e di confronto minando così alla base ogni parvenza di rapporto tra uguali.

 “La vecchia contraddizione tra capitale e lavoro si amplifica, per manifestarsi, a mio avviso, sempre più come contraddizione tra l’energia complessiva del lavoro materiale ed intellettuale incorporato nella scienza e nella tecnologia e l’appropriazione privatista e incontrollata dei frutti dell’intelligenza sociale complessiva.” (A.Occhetto Perché non basta dirsi democratici).   

E non dimentichiamo, quando parliamo di sfruttamento, l’appropriazione da parte del sistema produttivo della vita privata dei subalterni (ma non solo) ai fini di elaborare previsioni di orizzonti di mercato futuri da utilizzare e/o da manipolare ai fini di egemonizzare la domanda. Mi riferisco alle tesi del Capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff; sono forme inedite di sfruttamento che richiedono un atteggiamento diverso da parte del mondo del lavoro, sia nella concezione del termine “sfruttamento” sia nel considerare la socializzazione delle tecnologie informatiche, che non significa necessariamente nazionalizzazione quanto invece interrogarsi sui confini della democrazia.

Quando poi parlo di neo-schiavismo, ne parlo lanciando un esperimento intellettuale, come usava spesso fare Einstein, che ho formulato come segue: ”come si redistribuirà il prodotto quando i robot produrranno tutto e non sarà più richiesto il lavoro umano”. Non è un esperimento nuovo, già l’aveva anticipato Marx, l’ha affrontato James Meade (in Agathotopia) e tra gli economisti italiani Sylos Labini nel suo Nuove tecnologie e disoccupazione articola una risposta per cui “ si deve ammettere che uno Stato centrale, munito, come tutti gli stati, di poteri coercitivi, provveda ad una redistribuzione del reddito seguendo, come criterio guida non l’umanità, la solidarietà o la carità, ma più semplicemente, l’esigenza di assegnare una destinazione razionale ai beni prodotti. Un criterio razionale potrebbe essere: a ciascuno secondo i suoi bisogni: è il criterio che caratterizza una società senza operai salariati e senza classi intese in senso economico. (…) L’alternativa alla distribuzione centralizzata del reddito potrebbe essere data dalla distribuzione generalizzata di azioni delle imprese robotizzate; ma le differenze tra le due ipotesi sarebbero formali, non sostanziali.”

All’interno di questo esperimento intellettuale riflettevo sul fatto che se oggi il mondo del lavoro ha un suo potere contrattuale nella redistribuzione essendo ancora il lavoro una necessità del capitale ed avendo quindi il mondo del lavoro una, anche se mutabile, forza contrattuale; in un domani dove non esista uno Stato distributore come nell’ipotesi di Sylos Labini, ma i robot fossero tutti di proprietà del capitale, la forza contrattuale dell’ex mondo del lavoro sarebbe pari a zero, riproponendo quindi un rapporto neo-schiavistico.

Al di là della precisazione sul contesto in cui ho usato il termine neo-schiavistico, rimane l’impellenza dei temi che la robotizzazione comporta, vedasi il libro di Benvenuto e Maglie I sommersi. Lavoratori disarmati nella sfida con i robot, e sull’urgenza di affrontarli da socialisti come Silvano ed io riteniamo concordemente di fare.

Il tutto con la convinzione che il tema economico non può essere risolto dall’anarchia di soggetti che risolvono le equazioni del sistema nazionale ricercando unicamente l’ottimizzazione della variabile “profitto” ma al contrario trova una soluzione nella razionalità della soluzione nella ricerca dell’ottimizzazione del sistema globale attraverso la programmazione dei rapporti che legano i fini, democraticamente individuati, ed i mezzi a disposizione, e ciò con l’utilizzo della moderna tecnologia dei computer quantistici.