LE CONTRADDIZIONI DEL GRUPPO DIRIGENTE SOCIALISTA

La tesi di Basso

Di fronte all’offensiva del PCI, il cui apparato si avvaleva degli strumenti offerti dal patto d’Unità d’Azione per una crescente pressione sulla base socialista, l’atteggiamento del gruppo dirigente del PSIUP apparve incerto e contraddittorio.

Esso non si sottrasse, certamente, al suo dovere di confermare la decisione del comitato centrale, tanto che la stessa relazione della direzione del partito per il XXIV congresso, del 24 febbraio 1946, affermava esplicitamente che “non esiste dinanzi al nostro congresso socialista un problema di fusione, ma soltanto un problema di alleanza politica nella lotta comune per la Costituente, la Repubblica e le riforme di struttura“.

La sua reazione alla offensiva comunista non fu però adeguata al pericolo che quella pressione organizzativa e politica andava profilando per l’autonomia socialista. Inoltre la raggiunta unità interna tra le correnti parve ben presto il frutto di un compromesso, non di una omogenea comune valutazione delle prospettive politiche del partito.

L’apparato di Basso

Raggiunto l’accordo fra le varie tendenze sulla impossibilità di dare attuazione alla fusione, si fece subito strada nella maggioranza direzionale una tesi altrettanto pericolosa per l’esistenza del partito, ed ancora più suggestiva di quella dell’unificazione a breve scadenza. Questa tesi, di cui il più coerente assertore fu Lelio Basso, considerava inattuale il problema della fusione per la scarsa forza organizzativa e di apparato del PSIUP nei confronti dei comunisti, e proponeva in conseguenza, allo scopo di rafforzare il partito e porlo in condizioni di affrontare l’unificazione, l’adozione di un modello organizzativo analogo a quello adottato dai comunisti, fondato sulla costituzione di un apparato altrettanto centralizzato di quello del PCI.

Lelio Basso era ispirato, nella formulazione di questa tesi, tanto dalla sua ammirazione per lo sforzo di organizzazione prodotto dal PCI, e la cui indubbia riuscita i socialisti per primi avevano modo di constatare a loro spese; quanto dalla sua convinzione ideologica che lo portava a considerare necessario per la lotta rivoluzionaria un tipo di partito organizzato con una ossatura di militanti professionisti della lotta politica, caratterizzato da una profonda unità ideologica e da una ferrea disciplina interna, che non escludendo il dibattito tra le tendenze, ne limitasse l’espressione al fine di non pregiudicare l’azione politica del partito, inteso come un esercito in lotta per la conquista del potere.

Motivi di origine luxembourghiana echeggiavano in questa concezione che Basso aveva del partito. E invero la sua polemica con il PCI, condotta fin dagli anni della clandestinità e della Resistenza sul periodico da lui diretto, “Bandiera Rossa”, e proseguita negli anni successivi alla Liberazione, era una critica di “sinistra”, basata sulla contestazione del carattere rivoluzionario della politica del gruppo dirigente comunista.

Basso, che si differenziava nettamente dalla tradizione ideologica del socialismo democratico, anche nella sua versione più moderna, che egli più apprezzava, quella della scuola dell’austro-marxismo, si presentava d’altro canto con le carte autonomistiche in regola nei confronti del PCI, per la sua coraggiosa ed efficace polemica rivolta alla denuncia della involuzione stalinista nel mondo sovietico e sul piano dell’azione internazionale di classe, alla, quale egli faceva risalire l’origine della involuzione della politica togliattiana in Italia.

La tesi di Basso ebbe immediatamente una larga eco tra i quadri socialisti, che sentivano l’insufficienza dei moduli organizzativi adottati nel partito sulla scorta della tradizione prefascista, in quanto essa si presentava come una sintesi dinamica tra l’esigenza dell’unità proletaria e l’esigenza dell’autonomia del partito, rivendicata dalla generalità dei militanti, di fronte ai tentativi egemonici del PCI.

Basso riuscì a convincere la maggioranza del gruppo dirigente socialista che l’unità con il PCI non era possibile fino a che essa non fosse fondata su concrete garanzie per i socialisti non solo di conservare nel nuovo partito unitario le proprie caratteristiche politiche ma di esercitare essi l’azione di guida del movimento operaio italiano, ponendo in minoranza la posizione “opportunistica” e filostalinista di Togliatti. Queste garanzie non potevano essere di carattere formale, sosteneva Basso; esse sarebbero state il risultato di un forte impegno organizzativo del partito, e della costituzione di un apparato socialista altrettanto ed ancora più forte e qualificato di quello costituito dal PCI. L’unificazione tra i due partiti diveniva, nella concezione di Basso, un obiettivo da perseguire nel senso della acquisizione di tutto il movimento operaio italiano ad una politica autenticamente leninista. Il PSIUP non era ancora pronto alla fusione le cui condizioni sarebbero maturate nella misura in cui esso si sarebbe potuto dare un’organizzazione in grado di competere e di soverchiare quella del PCI.

La tesi di Basso, nella crisi del fusionismo, sposta i termini del discorso dell’unità organica dal piano delle prospettive politiche al piano dei problemi organizzativi e di strutture del movimento socialista. Ma non essendosi chiariti i termini equivoci in cui era stata posta la politica “unitaria” del PSIUP, tutti gli errori, tutte le contraddizioni si riproducono sul terreno della discussione organizzativa, intorno ai temi della struttura del movimento socialista, e dell’assetto del partito.