RIFORMISMO E REVISIONISMO

Nella storia dei primi decenni di vita del PSI, la figura, il pensiero, l’opera di Filippo Turati furono, senza alcun dubbio, dominanti. Dalla fondazione della “Critica Sociale” all’accorta ed abile guida delle battaglie parlamentari, alla leadership indiscussa di capo dell’ala riformista, alla gestione dei difficili ma fecondi rapporti con Giolitti, Turati risulta sempre protagonista di ogni battaglia socialista, sia di quelle da cui esce vincitore, sia di quelle in cui risulta soccombente.

Il riformismo di Turati si sviluppò sulla base di una interpretazione gradualistica ed evoluzionistica del marxismo, o di quello che egli riteneva tale. Si distinse, anche nei momenti di più intenso scontro con le altre tendenze del partito, dal revisionismo teorico e da quello politico non solo di Bissolati e di Bonomi, ma anche da quello del Michels. Se sul piano politico la linea di Turati può essere definita di “sinistra riformista“, insieme con quella di Modigliani e Treves, differenziandosi da quella della “destra riformista” di Bissolati, Bonomi e Cabrini, sul piano teorico il suo riformismo “è ben dentro il solco marxista“, come ebbe a qualificarlo uno dei suoi discepoli, Giuseppe Faravelli, il quale ricorda appunto come la “Critica Sociale“, fondata e diretta da Turati, fu il centro dal quale s’irradiò il marxismo. Il socialismo scientifico di stampo marxista fu l'”arma ideologica” del nascente partito. Da allora, fino ai suoi ultimi anni, Turati ne sostenne, ne divulgò, ne difese i principi basilari – dalla lotta di classe all’obiettivo della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio – impegnando anche dure polemiche con le tesi revisionistiche elaborate da Bonomi, da Michels e anche da Graziadei.

La “Critica Sociale” curò inoltre la traduzione e la pubblicazione di numerosi scritti di Marx, di Engels e di altri teorici loro seguaci, e in particolare quella del “Manifesto dei comunisti”, per il quale lo stesso Engels – che, con Turati, intrattenne una lunga e copiosa corrispondenza – scrisse la prefazione.

Al di là di questi fatti, del resto non contestabili, v’e da dire che il “marxismo” di Mirati (e con lui della Kuliscioff, dal contributo della quale la sua elaborazione teorica e la sua azione politica sono inseparabili) ebbe connotazioni del tutto particolari, che condussero a ripetute contestazioni sul suo carattere realmente “marxista” da parte dei dottrinari ortodossi, o che si ritenevano tali, già nella sua epoca. Gli fu imputato di aver avuto una formazione filosofica positivistica ed anche una derivazione lombrosiana, che gli avrebbero impedito di comprendere in modo esatto e approfondito le premesse filosofiche del marxismo e, in particolare, il suo spirito dialettico.

In realtà Turati non era un filosofo (anche se aveva una indubbia cultura filosofica), né, quel che più importa, un dogmatico. Non fu, certamente, un ortodosso, anche se restò fedele, o presunse di restarlo, ai canoni fondamentali della dottrina di Marx. La sua interpretazione ideologica si discostava dal revisionismo di Bernstein, contro il quale egli si schierò al fianco di Kautsky. Si mosse, su questo terreno, nella stessa direzione in cui si muoveva il leader socialista francese Jaurèsnel senso che riconobbe la giustezza di certe esigenze poste dal revisionista tedesco, pur negando che il marxismo mancasse della capacità di soddisfarle, onde occorresse deviare dalla sua linea maestra“.

Soprattutto Turati, da acuto politico, si preoccupò di adattare e integrare la dottrina marxista alla luce dei cambiamenti avvenuti nella compagine sociale e delle nuove esperienze proletarie, tenendo presenti – ben più di quanto non si sia a volte ritenuto – le specifiche condizioni Italiane, m specie per quel che riguardava una vasta presenza delle masse rurali e l’arretratezza delle regioni meridionali.

Si preoccupò soprattutto di conservare ed ampliare quelle condizioni di vita democratica che il Risorgimento aveva consegnato alle nuove generazioni, e che egli era convinto costituissero uno scenario favorevole allo sviluppo delle lotte sociali e politiche dei lavoratori. Il suo riformismo socialista consisteva nel concepire le riforme come progressiva attuazione del fine socialista, “non come elargizioni, ma conquiste, come funzione della coscienza proletaria e, ad un tempo, come arricchimento di essa in una sfera di sempre più ampia libertà“. Il fine del socialismo coincideva, per lui, figlio della sua epoca, nella attuazione di una società socialista, contrassegnata da un’economia socializzata. Coincideva, peraltro, con la realizzazione di un “universo democratico“, nella più ampia forma di democrazia possibile a concepirsi: la fede democratica di Turati, la sua incrollabile negazione della violenza come negatrice della storia, la religione della libertà coincidevano, non contraddicevano la finalità ultima del socialismo. Erano assenti, né poteva essere altrimenti, dalla sua cultura il sospetto delle minacce alla libertà con l’attuazione della società organizzata secondo i moduli dell’economia marxista.

Quando nel 1919 si avvertiranno le prime avvisaglie di queste esperienze, Turati metterà in guardia i socialisti Italiani contro i facili miti della violenza e del socialismo costruito dall’alto.

Uno dei più recenti studiosi della personalità di Turati, l’americano Spencer Di Scala, ha ricordato, nel suo volume Dilemmas of Italian Socialism: the Politics of Filippo Turati, come Turati, pur nella sua professione marxista, avesse fin dalla fine del secolo scorso abbandonato la teoria della dittatura del proletariato “in quanto generatrice di un concetto oligarchico all’interno del socialismo“.

La preoccupazione maggiore di Turati, quella che costituì il nucleo essenziale del suo discorso e della sua azione politica, fu quella derivante dai problemi della tattica. Dagli avvenimenti drammatici della fine del secolo XIX – i cui effetti repressivi si abbatteranno anche su di lui e su Anna Kuliscioff, oltre che su tanti compagni di partito – egli trasse l’assoluta convinzione che bisognasse abbandonare la tattica ribellistica e rivoluzionaria, e sostituirla con una tattica riformistica e gradualistica, ricercando quelle alleanze sociali, culturali e politiche che avrebbero permesso al movimento socialista di esprimere tutta la sua potenzialità rinnovatrice. Fedele all’indicazione che già nel 1891 aveva dato la Lega socialista milanese, secondo la quale “il socialismo non si fa né con decreti dall’alto né con rivolte dal basso“, egli agì con grande coerenza su questa linea.

Era convinto che, alla stessa stregua con cui il liberalismo aveva superato la società feudale, il socialismo, operando nel quadro della società liberale, non cancellandola, avrebbe finito per sopravanzare e sostituire il liberalismo. Aprì, pertanto, la “Critica Sociale” alla collaborazione di tutti gli intellettuali progressisti, fra i quali l’Einaudi; sostenne con vigore quelle misure liberalizzatrici ed antiprotezionisfiche dell’economia che favorivano l’industrializzazione del paese; appoggiò, con la tattica del “caso per caso“, tutti quei provvedimenti legislativi diretti a migliorare le condizioni di vita degli operai, dei contadini, delle donne e dei giovani, e a rafforzare le strutture del movimento proletario. Puntò ad ampliare gli spazi della vita politica, affinché con un più esteso suffragio, la rappresentanza delle classi più deboli potesse avere una maggiore voce nelle istituzioni.

Le battaglie più dure per affermare questa linea politica dovette, tuttavia, sostenerle all’interno del suo stesso partito, riuscendo a vincerne una serie notevole, uscendo sconfitto da molte altre.

Il riformismo turatiano non fu mai riducibile a quel “ministerialismo” di cui veniva accusato dagli intransigenti. Fu lucida determinazione politica, nascente da una capacita di analisi, che pochi altri riscontri avrebbe avuto nella storia del socialismo italiano. Per rendersene conto basterà rileggere quello scritto di Turati, apparso sulla “Critica Sociale” del 16 luglio 1901, con il titolo R. Partito socialista e l’attuale momento politico. Turati ribadiva, in questo scritto, che il riformismo non significava affatto rinuncia ai fini ultimi del socialismo, ma costruzione di una società nuova secondo una concezione evolutiva e gradualista. La trasformazione della società non poteva avvenire – secondo turati – per decreti dall’alto o rivolte dal basso. Essa doveva essere il risultato di un lavoro di lunga lena, senza ricorrere alla violenza né a “ricette preordinate“, regolandosi a seconda delle “mutabili contingenze di fatto“.

L’azione riformatrice del partito doveva esplicarsi in un duplice modo: con l’attività delle organizzazioni economiche del proletariato, e con l’azione parlamentare e legislativa, che non dovevano essere tra loro disgiunte, così da determinare una “crescente pressione degli interessi proletari sulla politica generale dello Stato“.

Tre erano state le fasi, fino ad allora, della storia del socialismo italiano: nella prima, conclusasi con il congresso di Genova e quello di Reggio Emilia, l’impegno era stato rivolto all’affermazione dell’identità socialista, con la distinzione da altri movimenti e la costituzione del PSI; la seconda, era stata incentrata sulla necessità della difesa dell’esistenza del partito contro la repressione: in questa fase era emerso tutto il valore che le istituzioni liberali avevano per l’esistenza del partito e il suo sviluppo, che era condizionato dalla realizzazione di una piena democrazia; la terza fase, quella che s’apriva con il 1900, era quella “del consolidamento e del rispetto della legge“, prelusivo alla fase conclusiva, quella della “conquista“. Quindi, in questo terzo periodo, la questione essenziale era quella delle alleanze con quei settori della borghesia né reazionari né forcaioli, cioè con i partiti democratici e la sinistra costituzionale.

Si trattava tuttavia, come Turati precisò in ogni occasione in cui si rese necessario, di un’alleanza di fatto, non organica “caso per caso”. Un’alleanza rivolta a rafforzare la funzione e l’influenza politica del PSI, non a stemperarne l’identità, integrandolo in forma subalterna in un blocco sociale indistinto come si voleva far credere, da parte degli avversari interni ed esterni del riformismo, con una nuova operazione trasformistica. Di tutto si può accusare Turati, non certamente di questo.

Anzi, per coerenza a questa impostazione, giunse alla rottura con il settore del partito che era il suo più naturale alleato, l’ala riformista di Bonomi, Bissolati e Cabrini. Al congresso di Imola del 1902 la formula che venne adottata non lascia dubbi sul proposito turatiano: “Riformista perché rivoluzionario, rivoluzionario perché riformista“. Una formula che nella sua apparente ambiguità verbale recava il segno della consapevolezza che la politica delle riforme e delle alleanze era vantaggiosa al partito, non rischiava di assoggettarlo al disegno giolittiano con il quale emergevano positive coincidenze, ma nessuna possibilé tendenza alla subalternità da parte del riformismo turatiano. Interpretazioni diverse non hanno retto, su questo punto, ad una serena verifica critica e storica. Turati se peccò, peccò di intransigenza rispetto a sollecitazioni – queste sì -ministerialistiche; e, come s’è ricordato, non esitò a rompere la collaborazione politica con Bissolati e Bonomi, per non accettare posizioni teoricamente più collaborative con i governi giolittiani.

Il più settario ed ingiusto dei giudizi critici su Turati fu senza alcun dubbio quello vergato di suo pugno da Togliatti, in occasione della sua morte, in un articolo apparso su “Stato Operaio” nell’aprile 1932. Scriveva Togliatti, sulla rivista del Partito comunista in esilio: “Turati fu tra i più disonesti dei capi riformisti, perché fu tra i più corrotti dal parlamentarismo e dall’opportunismo. La sua attività fu veicolo continuo di corruzione parlamentare nelle fila del movimento operaio. Tutte le armi del parlamentarismo e dell’opportunismo vennero da lui adoperate per rimanere di fatto a capo del Partito socialista e del movimento operaio italiano anche quando la massa, non solo degli iscritti, ma anche dei lavoratori senza partito, era contro di lui e spingeva il partito in un’altra direzione“.

Questo scritto velenoso di Togliatti – da cui traspare tutta l’irritazione per il prestigio e la forza morale e politica di Turati – inaugurò “la moda di accettare acriticamente l’affermazione di Gramsci sull’esistenza di un patto tra Turati e Giolitti, che aveva permesso a quest’ultimo di restare al potere e mettere fuori gioco la classe operaia. Dopo la pubblicazione del libro di Williani A. Salomone su Giolitti, che diede il via alla riabilitazione dello statista piemontese, Togliatti non esitò tuttavia ad unirsi opportunisticamente al coro. Ecco quindi che dal suo Discorso su Giolitti si apprende che la politica dell’uomo di Stato aveva consentito effettivamente alla classe operaia di crescere per quanto era possibile, considerati i tempi. Quanto all'”intesa” che aveva permesso al Giolitti rivisitato quella politica non una parola“.

Ci sembra che cogliesse l’essenza del pensiero e della politica turatiana, il filosofo Rodolfo Mondolfo, che di Turati fu collaboratore e che al Turati successe nella direzione della “Critica Sociale”, in una pagina della sua introduzione alla raccolta di scritti del fondatore del PSI, laddove egli scriveva: “Il riformismo turatiano è in realtà programma di un effettivo e concreto processo rivoluzionario di trasformazione storica radicale. C’è qui appunto l’idea essenziale di una trasformazione sociale che dev’essere opera diuturna e progressiva creazione di istituti nuovi e creazione di coscienze, cioè trasformazione oggettiva (di cose), e soggettiva (di spiriti ad un tempo), che si compie nell’azione e per l’azione economica e politica. Contro ogni catastrofismo e messianismo c’è qui l’idea di una rivoluzione che è trasformazione creativa che va sostituendo alle strutture esistenti nuove strutture, coordinate in un piano progressivo, che traducono via via in atto l’ideale, in modo che ogni conquista raggiunta sia preparazione e passaggio ad ogni conquista ulteriore: conquiste reali e positive, che si operano nelle cose e nelle coscienze insieme e perciò sono salde e durevoli. Sono le riforme concepite come graduale attuazione di un rinnovamento totale“.

Questo riformismo rivoluzionario di Turati dava forza alla sua azione politica, scuoteva la polemica degli intransigenti e degli estremisti. Esso rappresentava una sintesi felice delle esigenze complessive del movimento socialista, e conferiva dinamismo e concretezza ad un’azione sociale e politica quotidiana, finalizzandola a un’idea forza capace di attirare le masse e di mobilitarle. Non isolava il partito, mantenendone intatta l’identità, soddisfacendone l’istinto di crescita e di aggressività. Era la sintesi teorico-politica più adeguata alla sua epoca. Quando lo scenario politico mutò, quando il giolittismo entrò in crisi e Giolitti stesso si trovò ad andare alla ricerca di nuovi equilibri sociali e politici, con la guerra di Libia e l’ingresso dei cattolici nella vita politica effettiva, la sintesi turatiana si logorò, e non fu più l’espressione dinamica della politica di movimento che aveva ispirato e guidato negli anni precedenti.

Si logorò sul piano teorico, perché la sua coerenza ai canoni basilari del marxismo la rese inadeguata alle esigenze sociali nuove che affioravano irresistibilmente e che trovavano una rappresentazione nelle elaborazioni revisionistiche di Bonomi, di Bissolati, di Michels, di Francesco Saverio Merlino. Né la lezione riformista aveva maggior forza nei confronti di quei settori culturali e politici del movimento socialista che sentivano sempre di più l’attrazione delle culture elitistiche, volontaristiche, irrazionalistiche che si diffondevano nella società italiana e penetravano anche nell’area culturale del Partito socialista.

Si logorò e finì per esaurirsi sul piano politico e parlamentare, quando venne meno l’interlocutore giolittiano e una possibile politica di alleanza avrebbe dovuto passare attraverso rinunce a posizioni ormai tradizionali e consolidate, ed una dura accettazione di condizioni che, se accolte, potevano condurre a quella separazione dalla realtà delle masse popolari cui andò incontro l’ala riformista espulsa dal partito.