Repubblicano, interventista, socialista, amico di Mussolini e poi antifascista. Nenni, durante la sua lunga vita, è riuscito a issare molte delle barricate costruite in fretta e furia durante un secolo in fiamme: il Novecento.

di Antonio Martino*

I raggi d’altoforno del sole di Maggio sventagliano sulla piazza affollata raffiche di calore e sudore. Sulle tante teste, racchiuse nello spazio esiguo del ciottolato alla maniera di una scatola di spilli, si contano più capelli che cappelli. Nel 1898 nessuno, nemmeno il miserabile, esce di casa senza coprirsi il capo. Dal vociare confuso, poi, non s’alza nemmeno una bestemmia, una volgarità. Il rumore di fondo, esasperato ed esasperante, assomiglia pericolosamente a quello di un rosario, sommesso e quieto pigolare delle beghine. C’è però un ma, e di dimensioni notevoli. Alle beghine si son sostituite decine e decine di azdore, ben lontane dalla calma del Tempio, decise a tutto per un motivo atavico e vitale: la fame. L’esercito di angeli del focolare, inzaccherate di farina e rabbia, si spartiscono i frutti della loro scorribanda. Filoni, sfilatini, pagnotte e biscotti sono i frutti del recente e femmineo assalto al forno locale, amara conseguenza dell’esasperazione che il 1898 ha disseminato in lungo e largo nel regno di Umberto I. Nella miseria l’eguaglianza dei sessi ha sempre trovato una spietata tutrice: alla massa nero-bianca delle infarinate ecco avvicinarsi un manipolo di operai, sporchi di fatica e grasso. Sciopero generale! gridano, e l’urlo sembra scuotere le pietre di Faenza. I benpensanti e i galantuomini son da tempo alla finestra, ad osservare tremanti la plebaglia che osa rivoltarsi. Occhiate fugaci corrono da persiana a stipite, mormorii borghesi invocano la salvifica autorità della Forza pubblica. Dov’è l’argine alla canaglia?

Naturalmente al proprio posto, pensa il delegato di Pubblica Sicurezza, mentre fissa avvicinarsi la mandria di miserabili. Comanda uno squadrone di cavalleria rafforzato da Carabinieri Reali: sa cosa fare. Tre squilli di tromba- a cui seguono pernacchie proletarie- e poi il caricat! s’addossa l’onere di ristabilire l’ordine. Al modesto riparo di una colonna, un bimbo osserva la plastica dimostrazione dei rapporti di forza tra le classi manifestarsi sulla pelle dura e rugosa degl’operai e delle massaie. Voleva, o meglio doveva andare a scuola, ma quella parolina impertinente, sciopero, lo aveva indirizzato verso la piazza, rabdomantico presagio di una vita. Quel giorno di maggio Pietro Nenni e il Novecento si presentano, inconsapevoli e precoci, l’uno all’altro per non perdersi più.

Pietro nasce a Faenza il 9 febbraio del 1891 da Giuseppe e Angela Castellani. I genitori sono dei contadini inurbati, scesi in città per servire la famiglia dei conti Ginnasi. Nell’Italia fin de siecle la campagna è ancora sinonimo di fatica, vita dura, condanna perenne alla terra: per i Nenni vale la pena servire dei patrizi pur di abbandonare la realtà dei campi. A Giuseppe però la scommessa non porta granché fortuna, e nello stesso anno della disfatta di Adua trapassa a miglior vita lasciando al lutto e sul lastrico moglie e figlio. Beneficiata dalla carità della contessa, sua padrona, la madre riesce a iscrivere il piccolo all’Orfanotrofio Maschile e Opera Pia Cattani. La nobildonna vorrebbe farne un uomo di Chiesa; per tutta risposta il mancato seminarista autograferà di Viva Bresci! i corridoi dell’istituto, con ovvio e pauroso orrore del sabaudo direttore. V’è vocazione in Pietro, ma è chiamata umana e non divina, ribellione che percuote e anima le gracili membra del già miope scolaretto lungo gli anni faticosi e gretti del collegio. Al posto delle Vite dei Santi Nenni legge di nascosto le lettere alla madre di Giuseppe Mazzini; a Salgari e Verne preferisce Hugo e Zola, benvolentieri scambiando il Corriere dei Piccoli dei suoi coetanei con sacrileghi e dinamitardi opuscoli repubblicani e socialisti. Le Belle Epoque si consuma di splendore decadente quando, nel 1908, il giovinetto esce dall’orfanotrofio e s’impiega- da buon faentino- in una fabbrica di ceramiche.

La Romagna, avanguardia d’Italia, bolle. Una nuova leva di ribelli, pronti a sovvertire l’esistente ed incendiare l’ordine costituito irrompe nelle piazze e nei caffè della quiete vita di provincia. Nenni è immerso in quest’atmosfera dinamitarda, cresce a pane e estremismo: per uno sciopero di solidarietà perde il posto e trova la strada, dura e formidabile compagna. Viene eletto nel Comitato Federale dei giovani repubblicani, componente giovanile di quel Partito Repubblicano tenacemente radicato in terra di Romagna, libertario e antimonarchico, popolare e ancor più eversivo del Socialismo d’allora. La gioventù randagia lo porta a Milano, dove approda a 18 anni su interessamento di Alessandrina Ravizza. Alla Biblioteca di Brera il giovane approfondisce il pensiero di Mazzini e Cattaneo, avvicinandosi altresì al Marx del Manifesto e degli studi storici. L’apprendistato tra i libri consente a Pietro una più esatta comprensione della realtà, un approccio più pratico e concreto al problema operaio e alla fattiva organizzazione delle forze rivoluzionarie. Durante una dimostrazione pratica degli studi effettuati all’ombra della Madonnina, nell’autunno del 1909 viene arrestato a Carrara e condannato a due giorni di reclusione per uno sciopero: non sarà l’ultima segnatura del suo ruolino penale. Sulla scia delle teorie di Georges Sorel, il sindacalismo rivoluzionario d’anteguerra a cui Pietro guarda con interesse lo porta d’agitazione in agitazione, da guardina a guardina sino alla data fatale del 1911.

Nel settembre Giolitti intraprende l’avventura di Libia: in Romagna la guerra contro l’Impero Ottomano riesce nella folle impresa d’unire gialli e rossi, repubblicani e socialisti, contro il comune nemico militar-liberale. Nel PSI il capo- non ancora duce, almeno in quel senso… – si chiama Benito Mussolini, maestro elementare e avido lettore di Nietzsche e Sorel. Insieme a Pietro Nenni, i due fomenteranno per 48 ore (25-26 settembre) gli scontri e le baruffe tra forze dell’ordine e rivoltosi, riuscendo financo a occupare la stazione ferroviaria di Forlì ed impedire l’avvio delle tradotte. Vittoria effimera, spazzata via dalla reazione furente del Governo e del Regio Esercito, ma pur sempre trionfo. Il lauro del successo incorona la coppia sottoforma di manette di piombo, nel gran sfarzo celebrativo di un’aula di Tribunale. Nenni e Mussolini sono infatti arrestati e condannati per direttissima ad un anno di reclusione, da passare insieme nelle galere forlivesi. In quell’apostolato dietro le sbarre, Nenni da l’esame di maturità di sovversivismo applicato: la vicinanza con il focoso figlio del fabbro di Predappio, maggiore di quasi dieci anni, sancisce un legame umano con cui la Storia si baloccherà con tignosa voluttà.

Zio Pietro – come lo chiamava una giovane Edda durante le rare visite di Rachele e Carmen ai due reclusi – trascorre la ritrovata libertà in lungo e in largo per le Marche: nel dicembre 1913 gli viene offerta la direzione de Il Lucifero, foglio repubblicano spigoloso e impertinente, le cui capaci colonne iniziano ad inchiostrarsi di editoriali al vetriolo e sibilanti fondi rivoluzionari. Il vortice degli avvenimenti sferza la molle Europa del 1914: il 7 giugno ad Ancona l’ennesimo eccidio proletario scatena la versione nazionale e casereccia della Rivoluzione. Scioperi, assalti, agguati e schioppettate tingono di rosso le bandiere e le contrade dell’Italia centrale. Da Milano Mussolini soffia sull’incendio incentivando sull’Avanti! la mobilitazione generale del proletariato italiano, mentre il suo ex compagno di cella si spende, insieme ad Errico Malatesta, nell’organizzazione pratica della rivolta: è la settimana rossa!

“Furono sette giorni di febbre, durante i quali la rivoluzione sembrò prendere consistenza di realtà, più per la vigliaccheria dei poteri centrali e dei conservatori che per l’urto che saliva dal basso… Per la prima volta forse in Italia colla adesione dei ferrovieri allo sciopero, tutta la vita della nazione era paralizzata”.

Il 23 giugno viene arrestato. La Storia, però, ha ben altro a cui pensare, distratta com’è dai funesti colpi di pistola che a Sarajevo squarciano gli ultimi resti dell’Ottocento. Pur condannato, Pietro viene amnistiato l’ultimo giorno del fatale 1914. L’alba del nuovo anno lo trova, sulla scia del compagno Mussolini, in prima linea per l’intervento contro l’Austria.

Le radiose giornate di maggio vedono un fronte composito di sindacalisti rivoluzionari, socialisti massimalisti, repubblicani, nazionalisti e futuristi lottare per l’ingresso nell’orgia di sangue bellica. Vogliamo la guerra perché odiamo la guerra grida Nenni dalle pagine del Lucifero: i miti risorgimentali e mazziniani impongono la partecipazione. Dopo il 24 maggio Nenni parte volontario, sergente nel Primo Reggimento di Artiglieria Pesante. La guerra Pietro la fa sul serio, e dal vivo vede lo strazio delle trincee e la macelleria degli assalti sul Carso e sull’Isonzo. Nel 1916, ferito da un’esplosione di polvere da sparo, viene mandato in convalescenza: la passionaccia del giornalismo lo assale, e dirige da mobilitato il Giornale del Mattino di Bologna. Rientrato a reparto, il sergente Nenni partecipa all’epopea del Piave e all’apoteosi di Vittorio Veneto, subendo sulla propria pelle di combattente l’odissea del ritorno a casa dei fanti. In quel 1919 di caos e confuso dopoguerra Nenni non si sente più repubblicano, ma non sa cosa divenire. Vuole la Costituente, crede all’inizio al programma mussoliniano di San Sepolcro fondando a Bologna uno dei primissimi Fasci di Combattimento, rifiuta la direzione del quotidiano felsineo. La sua è crisi di coscienza, alimentata dalla consapevolezza di aver frainteso le ragioni dell’interventismo: trasferitosi a Milano con la famiglia, trova nella collaborazione giornalistica come “corrispondente viaggiante” per il Secolo la via di fuga ideale ai rimorsi e alle contraddizioni di un’intera generazione.

Il conto con la Storia, però, è appena iniziato: il 23 marzo 1921 una squadra fascista assalta e conquista la sede meneghina dell’Avanti!. Pietro si trova per caso in piazza, assiste allo scontro e senza ragione – se non l’impeto – si getta nella mischia dalla parte dei difensori. Pochi giorni dopo inizia a collaborare con il giornale socialista, come corrispondente da Parigi: alla fine dell’anno s’iscrive al PSI. Il 1922 si apre a gennaio per Nenni con la corrispondenza da Cannes per l’ennesima conferenza postbellica. Oltre lui, tra i tanti inviati, il direttore de Il Popolo d’Italia: non più compagni, non ancora nemici, i due vecchi compagni di cella s’intrattengono per una notte intera lungo la Croisette. Pietro e Benito si lasciano al mattino, al sole timido dell’inverno, andando incontro al Fato e al mutare capriccioso del Tempo. Nel volgere di pochi mesi da quell’incontro, infatti, Mussolini conquista il potere marciando su Roma mentre Nenni, invece, si trova a difendere il PSI dalle mire fusioniste dei comunisti e, al contempo, continuare la battaglia per la libertà. Da direttore dell’Avanti! assiste alla costruzione del regime fascista, subendo sulla propria pelle le conseguenze dell’incipiente dittatura. Condannato a 6 mesi di prigione dopo il caso Matteotti, per Pietro l’alternativa al carcere resta l’esilio: il 13 novembre del 1926 arriva in Svizzera, e da lì approdano a Parigi nei primi giorni di dicembre. Inizia così per Nenni un periodo dolceamaro, sospeso tra successi personali e disfatte politiche. Da un lato, infatti, in Francia assiste ad una progressiva affermazione della sua figura nello scenario del Socialismo internazionale; dall’altro l’attacco del Comintern e le beghe interne alla varie anime della Concentrazione antifascista gli rendono complicata e incerta l’azione politica.

Apparso all’orizzonte il moloch hitleriano, superata la stagione vergognosa del socialfascismo, l’unità d’azione con i comunisti resta l’unica arma in mano al confuso e contraddittorio mondo dell’antifascismo esule. I successi del Fronte Popolare in Francia e in Spagna galvanizzano Pietro, fautore principale dell’unità d’azione con il PCdI nel 1934. Meno entusiasmante, e però egualmente decisiva, sarà la reazione che il generalissimo Franco e le forze reazionarie imbastiranno in terra iberica contro il trionfo dei “senza Dio”: alla guerra civile Nenni partecipa in prima persona, trascorrendo mesi intensi sul fronte di battaglia come commissario politico di divisione.

Rientrato dall’altra parte dei Pirenei dopo la caduta di Barcellona, subisce lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale abbandonando la ville lumiere per Palalda, all’estremo sud-ovest di Francia; qui trascorre i primi anni di conflitto in semiclandestinità, vivacchiando tra le maglie larghe del governo di Vichy. L’8 febbraio del 1943 viene arrestato dalla Gestapo e trasferito al carcere di Fresnes, ove passa un mese in attesa d’esser mandato in Germania. La prassi prevede il trasferimento in lager, con conseguenze non entusiasmanti: Pietro lo sa, e per questo sbianca di gioia e quasi si commuove quando il vagone piombato, squarciato dal sole d’Italia, s’apre al Brennero il 5 aprileQualcuno gli ha salvato la vita. Segretamente, e con l’onestà che lo contraddistingue, Nenni sa che quell’indeterminato benefattore corrisponde al nome e alla figura di Mussolini. Condotto a Ponza, Pietro vive i giorni rapsodici del 25 luglio insieme agli altri confinati: in un supremo diletto, la Storia fa sfilare i due vecchi compagni di cella sullo sfondo del blu profondo del Mediterraneo. Uno cede il posto all’altro:

“Ora vedo col cannocchiale Mussolini: è anch’egli alla finestra, in maniche di camicia e si passa nervosamente il fazzoletto sulla fronte. Scherzi del destino! Trenta anni fa eravamo in carcere assieme, legati da un’amicizia che paresse sfidare le tempeste della vita… Oggi eccoci entrambi confinati nella stessa isola: io per decisione sua, egli per decisione del re e delle camarille di corte, militari e finanziarie, che si sono servite di lui contro di noi e contro il popolo e che oggi di lui si disfano nella speranza di sopravvivere al crollo del fascismo”.

L’ordine di scarcerazione porta di nuovo Pietro nella Capitale, dove il 23 agosto riunisce il PSI con il Movimento d’Unità Proletaria di Lelio Basso dando vita al PSIUP, di cui subito diviene segretario nazionale. La lotta per la liberazione trova nei socialisti – e in Nenni in particolare – una componente agguerrita e infaticabile, capace di sottrarsi ai giuochi di prestigio di Togliatti e alla palude dei partiti moderati. Per il PSIUP, infatti, il 25 aprile è solo una tappa del cammino verso la Costituente e la Repubblica. Come afferma Nenni nel suo famoso articolo Il Vento del Nord

“In verità il vento del Nord annuncia altre mete ancora oltre l’insurrezione nazionale contro i nazifascisti (…) questi uomini (della Resistenza, ndr) reclamano, e all’occorrenza sono pronti ad imporre, non una rivoluzione di parole ma di cose. Per essi il culto della libertà non è una dilettantesca esasperazione dell’«io» demiurgico, ma sentimento di giustizia e di eguaglianza per sé e per tutti. Alla democrazia essi tendono non attraverso il diritto formale di vita, ma attraverso il diritto sostanziale dell’autogoverno e del controllo popolare”.

Quelle altre mete saranno l’obiettivo della stagione forse più significativa dell’esperienza politica di Nenni: al grido di “O la Repubblica o il caos!” il segretario socialista diviene il vero e unico fedele sostenitore della causa antimonarchica, approfittando delle titubanze della coppia Togliatti-De Gasperi. Il 1946, in questo senso, appare come uno degli anni felici della traiettoria politica nenniana: il voto popolare del 2 giugno, infatti, oltre a premiare la battaglia di tutta una vita porterà in dote all’ancora PSIUP il 20 per cento delle schede, superando di due punti i “compagni” comunisti. La poltrona di Ministro degli Esteri risulta il coronamento di una stagione formidabile, che ripaga le fatiche e le amarezze dell’esilio e della Resistenza. È in questo istante, però, che Nenni compie quel peccato originale che segnerà il Socialismo italiano nei decenni a venire: il 27 ottobre del 1946 sigla un nuovo e più stringente patto d’azione con il PCI varando la formula del frontismo contro la Democrazia Cristiana. Prima conseguenza della svolta a la reverse sarà la scissione di Palazzo Barberini, all’inizio del 1947, in cui la destra di Saragat – sostenuta dai generosi fondi di Washington – rompe la faticosa unità del Socialismo italiano fondando il PSLI. Per Nenni è un colpo durissimo, aggravato dalle forzate dimissioni dalla Farnesina nel febbraio, atto dovuto in vista della svolta “atlantica” del governo De Gasperi.

Le tare dell’alleanza con Botteghe Oscure si rivelano fatali nelle elezioni decisive del 18 aprile 1948. Sconfitto dalla DC, tradito dai fratelli-coltelli del PCI, il rinominato PSI esce massacrato e decimato dal responso elettorale. Perduta la metà dei deputati, distrutta l’unità interna, per Nenni inizia il periodo più duro e controverso, contrassegnato dalla mortale volontà di fungere da blocco ausiliare dei comunisti in spregio alla tradizione di libertà e autonomia. Tra i pochi sprazzi di lucidità in piena era “frontista”, svetta la posizione – ahinoi ignorata – della neutralità italiana rispetto alla nascente Alleanza Atlantica. In veste di partigiano della pace Nenni viene premiato dall’Unione Sovietica con il Premio Stalin 1951, prova evidente di un ancor forte legame tra il mito del “paradiso dei lavoratori” e il mondo del Socialismo italiano. Saranno i carri armati sovietici tra le strade di Budapest a eliminare del tutto le illusioni moscovite, già in parte superate nel fondamentale XXXI Congresso del 1955 a Torino. Scriverà Nenni su Mondoperaio in seguito alla svolta autonomista:

“Senza democrazia e senza libertà tutto si avvilisce, tutto si corrompe, anche le istituzioni sorte dalle rivoluzioni proletarie, anche la trasformazione, da privata a sociale, della proprietà dei mezzi di produzione e di scambio che dell’economia socialista è pur sempre la condizione principale, ma nell’etica socialista è pur sempre il mezzo e non il fine, il fine essendo la liberazione dell’uomo da ogni forma di oppressione e di sfruttamento”.

Lo scoop sensazionale del giornalista dell’Avanti Luigi Fossati – trovatosi per puro caso tra gli insorti di Budapest – costringono il PSI a una netta e decisa scelta di campo, dettata dalla logica e dalla coerenza.

“Quanto di meglio noi possiamo fare per i lavoratori ungheresi è aiutarli a risolvere i problemi da essi posti a base del rinnovamento della vita pubblica nel loro e negli altri paesi dell’Europa orientale, aiutarli a spezzare gli schemi della dittatura in forme autentiche di democrazia e di libertà. Daremo tutta l’opera nostra in aiuto del popolo ungherese perché possa attuare il socialismo nella democrazia, nella libertà, nell’indipendenza”.

Mentre Togliatti e soci annaspano, accecati dalla cieca osservanza dei diktat di Mosca, il già maturo leader romagnolo riesce finalmente a reinserire il Partito nell’arena del dibattito democratico della Repubblica, gettando le basi per quella lunga e complessa “operazione Nenni” che porterà il PSI verso l’alleanza di scopo con la nuova DC di Moro e Fanfani. Nel dicembre 1963 giura il primo governo di centro-sinistra “organico”, con la diretta partecipazione dei socialisti. Grandi speranze s’aprono all’orizzonte, mentre l’Italia vive l’ultima fase del miracolo economico: programmazione e riforme di struttura sono le linee-guida che animano le intenzioni del nuovo esecutivo: si suppone di poter gestire l’impetuoso sviluppo economico per allargare le conquiste del benessere e realizzare davvero la democrazia sociale scolpita in Costituzione. Seppur entrato nella famigerata stanza dei bottoni, Nenni non riuscirà a realizzare che una minima parte del “libro dei sogni” del centrosinistra. Riforma della scuola e del sistema previdenziale, nazionalizzazione dell’energia elettrica, statuto dei lavoratori, massicci interventi nel Mezzogiorno restano gli unici monumenti compiuti in quell’effervescente e pur illusoria stagione. Dall’apice raggiunto nel 1963, la Storia riserverà al già anziano patriarca un’altra e ancor più amara epoca di delusioni: la scissione dell’ala estremista nel 1964 e, soprattutto, il fallimento della riunificazione socialista con Saragat nel 1968 porranno la parola fine all’attività politica diretta di Nenni, sancita definitivamente con la dolorosa sconfitta nelle elezioni presidenziali del 1971.

Gli anni Settanta, apertisi con una cocente delusione, si offriranno a Nenni come cruda sciarada di scandali, attentati, immobilismi e meschinerie che porteranno l’ormai vegliardo romagnolo ad uno stato di silente amarezza, eternata nei diari con rabbia e malcelato sdegno. Le uniche giornate di sole sono quelle della battaglia contro l’abrogazione del divorzio, nel 1974, in cui Nenni si dimostra ancora una volta leone di piazza, maestro dei comizi: la dimostrazione delle urne sancirà l’avvenuto cambio di passo della società, non più ostaggio della reazione clericale. All’ultimo successo politico, oscurato dall’affaire Moro e dalla stasi comatosa della partitocrazia, si affianca la difesa di Bettino Craxi, nuovo segretario del Garofano e deciso sostenitore della corrente autonomista: a lui Nenni riconoscerà doti di leadership e una personalità in chiaroscuro, utile comunque a salvare il PSI dalla morte elettorale. A quasi novant’anni, Pietro si spegne alle 3 e 20 del mattino del primo gennaio 1980 tra le mura della sua casa di Roma. Aveva fatto in tempo, la sera precedente, a scrivere il suo ultimo articolo, dall’emblematico titolo Rinnovarsi o Perire.

Altrettanto emblematica era stata la lettera che, all’alba del Centrosinistra, Pier Paolo Pasolini aveva inviato a Nenni, chiusa con un componimento che suona come il migliore e più vero ritratto di un uomo che ha attraversato la Grande Storia senza mai dimenticare le ragioni sacre e profonde della giustizia sociale e della libertà.

Con che amore io vedo Lei, acerbo,

gli occhiali e il basco d’intellettuale,

e quella faccia casalinga e romagnola,

in fotografie, che, a volerle allineare,

farebbero la più vera storia d’Italia, la sola.

 

*Antonio Martino Vice direttore de L’intellettuale dissidente