LA GRANDEZZA DI FILIPPO TURATI

di Giuseppe Saragat

Discorso pronunciato nel 1957, in occasione del centenario della nascita, pubblicato nel libro “Filippo Turati – scritti e discorsi (1878 – 1932)” Editore Guanta – 1982

Pensare a Turati nel centenario della sua nascita, che coincide con eventi straordinari in un mondo lanciato verso un destino più misterioso di quello del satellite artificiale che oggi lo sorvola, è come immergersi in un’atmosfera limpida e serena che ci restituisce il senso dei valore imperituri della vita. Turati è stato per la mia generazione e per quella che l’ha preceduta, la personificazione vivente e respirante dell’onestà intellettuale, del coraggio morale, dell’intelligenza e dell’umanità. I principi che reggevano la sua vita e facevano di lui un maestro dell’azione erano quelli che tutti gli uomini onesti fanno propri, solo che in lui splendevano di una luce più viva, perché portati più in alto. La sua vita fu tutto un apostolato in difesa della classe lavoratrice, della giustizia e della libertà.

Un suo allievo ebbe a dire che la sua figura fisica, morale, intellettuale e politica aveva lineamenti così decisi, che pochi tratti bastavano per abbozzarne un profilo somigliante. Chi ha avuto la fortuna di conoscere Filippo Turati ha potuto comprendere qual è la natura dei valori umani, che distinguono gli uomini veramente grandi dagli altri. Tutti i suoi sentimenti ci erano familiari, nulla in lui ci era estraneo, eppure tutto si dilatava in lui in proporzioni che davano ai sentimenti più comuni qualcosa di solenne e di esemplare.

Era questa vastità del suo volume umano che ci colpiva con forza irresistibile e ce lo faceva amare come un capo indiscusso, come un maestro di vita. Niente c’era in lui di aulico. “La sua andatura semplice e frettolosa di brav’uomo che ha tante cose da fare e che non ha proprio il tempo, e tanto meno l’intenzione, di atteggiarsi a grand’uomo” – come la vide un suo discepolo – era l’espressione fedele della sua innata semplicità. Ma, di fronte a quegli occhi che Treves vide come quelli di un fauno buono, dove l’ironia sprizzava piena di pathos, piena del tragico umano, allora ci sentivamo commossi e travolti da un senso di devozione filiale. Da questa sua umanità profonda derivava la sua potenza oratoria, enorme potenza, come disse Treves, che trattava il dolore, l’eroismo, il sacrificio come materia solida, e ne faceva zampillare tutto lo spirituale. Da dove veniva quest’uomo? Qual è stato il significato della sua azione e perché oggi noi socialisti democratici italiani lo veneriamo più che mai come il Maestro dei Maestri? Turati, nato a Canzo nel 1857, aveva ereditato tutti gli impulsi morali, di cui fu fervido il Risorgimento nazionale.

Gli ideali del Risorgimento erano ormai realizzati, ma nei giovani generosi gli impulsi morali permanevano, tesi verso compiti e doveri nuovi. Quale dovere nuovo poteva con maggior forza assalire la coscienza di un giovane intelligente, colto, generoso, se non quello della lotta per l’emancipazione delle classi povere? Il Risorgimento lasciava dietro di sé immensi compiti da risolvere, tremendi problemi insoluti, e, primo tra tutti, quello della secolare miseria. Ancor oggi questo problema domina la scena sociale della nostra Patria. Turati intuì per primo che la classe lavoratrice non avrebbe potuto affrontare le sue lotte senza un partito politico, ispirato ai principi del socialismo e della libertà. Turati è stato il protagonista della lunga lotta, che portò, verso l’ultimo decennio dell’altro secolo, alla fondazione del partito della classe lavoratrice. A quest’opera insigne egli si accinse con entusiasmo romantico e con una lucida e razionale visione delle cose. Le sue origini culturali lo portavano infatti al di là degli impeti lirici di un’anima piena di pathos, verso una concezione positiva della vita sociale, e questa concezione era arricchita dalla viva corrente del pensiero marxista. È stato detto che Turati non era marxista, perché gli sarebbero sfuggite le premesse dialettiche di quella filosofia.

Se il marxismo è – come io credo – nella sua essenza sintesi di pensiero liberatore con azione liberatrice, e se la dialettica si risolve nella raffigurazione logica di questo processo, che è tutt’uno con lo svolgersi degli eventi umani, ossia con la storia, nessuno fu più marxista di Turati. Certo, il suo istintivo buon senso e la sua profonda umanità lo portavano a respingere, ancor meglio, a escludere dal suo pensiero quella grottesca caricatura della dialettica, la quale ha imperversato e ancora imperversa tra gli interpreti totalitari del marxismo. Tale assurda dialettica riduce tutti i problemi della storia ad una meccanica sequenza di tesi, antitesi e sintesi, che pare fatta apposta per fornire ai violenti ed ai tiranni lo strumento logico per giustificare i loro diritti. Il suo marxismo, che ha trovato un’alta sistemazione teorica nell’opera del suo illustre allievo, Rodolfo Mondolfo, presiedette alla creazione del primo partito della classe lavoratrice italiana. Nel 1892, vincendo le resistenze corporativistiche e gli infantilismi bakuniniani, il nuovo partito sorgeva, ancorato ai principi fondamentali della coscienza di classe e della libertà umana. Fin da allora però il partito fu insidiato dalla tendenza centrifuga di questi due ideali, che solo una profonda coscienza socialista può mantenere in un’armonica unità. V’erano coloro che intendevano il socialismo un puro atto di ribellione contro la società esistente, e da questa convinzione deducevano conseguenze volontaristiche, rivoluzionane, giacobine. Per costoro la violenza, più che la grande “levatrice” era la grande generatrice della storia.

Per Turati il socialismo appariva come il processo di liberazione della società umana da tutte le limitazioni che la immiseriscono, come il processo di creazione di una società in cui tutti i valori dell’uomo potranno spiegarsi nella loro pienezza. Turati, in altri termini, anticipava nella sua coscienza la visione del mondo nuovo, che le lotte di classe dovevano creare. La lotta di classe, nell’atto stesso in cui s’urtava contro il mondo esistente, si nobilitava di quegli ideali che dovevano essere realizzati. Turati e i suoi discepoli portavano nella lotta non soltanto la tensione dell’urto momentaneo, ma soprattutto la visione dei fini per cui la lotta era necessaria; la violenza appariva quindi a costoro inadeguata al grande compito che il socialismo si poneva, e, lungi dall’esaltarla, veniva considerata come un detrito del passato, come una tragica ipoteca da cui l’umanità doveva liberarsi. Ma, quando la violenza sorgeva per eccesso della sofferenza e della miseria, o come reazione alla violenza altrui, allora Turati aderiva con tutta la sua anima alla vicenda del debole in lotta contro il forte, vicenda dell’oppresso contro l’oppressore. Così avvenne per i moti siciliani, scatenati dalla miseria e dalla fame, così avvenne per i moti del ’98, che culminarono nei fatti di Milano.

Al principio del secolo nuovo, Turati, liberato dal carcere dove la reazione lo aveva segregato, ritornò trionfalmente al Parlamento nazionale, dalla cui tribuna egli faceva risuonare le parole della libertà e della giustizia con eloquenza mai più raggiunta. Parlare dell’opera di Turati, dal principio del secolo fino alla sua morte, che avvenne nel 1932, in esilio, a Parigi, è parlare della storia d’Italia e di quella del suo popolo, è delineare sulle vicende e le opere di un uomo il periodo di relativa prosperità, che va dal principio del secolo alla catastrofe della prima guerra mondiale, quello terribile della guerra e della dittatura fascista, e quello della difesa disperata della libertà, che vede Turati in Italia e in esilio campione di quei valori umani, che, rinnegati da troppi, non potranno impedire una nuova e più terribile caduta dell’Italia e dell’umanità nell’abisso della dittatura e della terribile seconda guerra mondiale, da cui siamo usciti per entrare in un mondo senza pace. Nel periodo che va dal principio del secolo alla fine della guerra libica, Turati da la misura della sua capacità di estrarre dalla situazione tutti i vantaggi possibili per la classe lavoratrice. E’ ciò che i suoi avversari nel partito chiamavano, dando un significato spregiativo, “riformismo“.

Il riformista Turati, il socialdemocratico Turati, era oggetto dell’ingiuria e dello scherno dei rivoluzionari, che non avevano ancora trovato un. modello assoluto a cui ispirarsi, e si orientavano ora verso un sindacalismo fondato sulla violenza, ora verso un classismo acefalo, fondato sul rifiuto dei valori democratici, respinti come valori “borghesi“. Converrà intendersi sul riformismo di Turati. Fra il determinismo non dialettico di coloro che concepivano il socialismo come il prodotto meccanico degli eventi, e il volontarismo che, in opposizione al determinismo, concepiva il socialismo come una conquista della volontà astratta, Turati si metteva dal punto di vista di quella rivoluzione permanente, che è in ogni conquista della classe lavoratrice.”

Contro ogni catastrofismo e messianismo – ha scritto recentemente Rodolfo Mondolfo – c’è qui l’idea di una rivoluzione, che è trasformazione creativa, che va sostituendo alle strutture esistenti nuove strutture coordinate in un piano progressivo, che traducono via via in atto l’ideale, in modo che ogni conquista raggiunta sia preparazione e passaggio a conquiste ulteriori: conquiste reali e positive, che si operano nelle cose e nelle coscienze insieme e perciò salde e durevoli. Sono le riforme concepite come la graduale attuazione di un rinnovamento totale: è una continuità di azione trasformatrice, che introduce uno spirito nuovo via via in tutti i rapporti sociali, una prassi veramente e concretamente rivoluzionaria, che modifica l’ambiente e gli uomini in modo eguale e congiunto. È il concetto marxista dell’azione umana, che, mossa dalle esigenze concrete della vita, cambia le condizioni oggettive e con ciò cambia la stessa soggettività degli uomini.

Le riforme non costituiscono perciò il contrapposto della rivoluzione, perché risulta già inteso che l’essenza di una rivoluzione non consiste affatto nello scoppio di un’azione violenta, ma nella trasformazione della struttura sociale, la quale, per essere effettiva, non può operarsi di colpo, ma solo in modo graduale e progressivo. Le riforme, che cambiano via via la struttura sociale, sono una evoluzione in cammino, l’unica che si compia saldamente e in maniera reale”. Leo Valiani, studioso serio della storia del socialismo, ammaestrato dalla sua propria esperienza comunista, scrive: “II merito storico di Turati, quel che gli assicurerà immortalità negli annali della democrazia italiana, sarà in effetti l’inserzione dei sogni concreti e delle espressioni spontanee della classe operaia nel processo di sviluppo dello Stato democratico – liberale, che, appunto per ciò, prendeva la strada della legislazione sociale a tutela del lavoro, e la parallela educazione politica, organizzativa, sindacale e amministrativa del proletariato, la cui forza elettorale e la cui capacità di fare conquiste economiche e sociali aumentava oltre ogni speranza dei pionieri nella misura in cui si batteva la via turatiana”. Purtroppo voi sapete che la via turatiana fu abbandonata per colpa del totalitarismo e del massimalismo. Il tentativo disonesto di rovesciare su Turati responsabilità, che investono in pieno i suoi avversari di partito, continua ancora oggi. Tale tentativo si vale della deliberata falsificazione dei fatti. Ancora oggi c’è chi attribuisce al pacifismo turatiano la colpa della sconfitta operaia del periodo fascista.

Non c’è menzogna più infingarda. È il contrario che è vero. Il comunismo, autore della scissione del 1921, e il massimalismo, che Gobetti definì come la impotenza della rivoluzione, sono i responsabili di parte proletaria della tragedia che ha provato il Paese. La loro mancanza totale di spirito democratico li rendeva totalmente insensibili alla difesa delle istituzioni libere, che essi bestialmente identificavano con gli interessi della borghesia. L’assurdità delle tesi delle forze che dominavano nel Partito Socialista in quel tempo, ci fa misurare la debolezza dello spirito umano, non appena esso abbandona i grandi principi della democrazia. La verità è che, da quando il socialismo è sfuggito alla serena e responsabile guida di Filippo Turati, ed è finito nelle mani di un gruppo di irresponsabili, ha segnato la propria rovina. Il fascismo non sarebbe sorto, o sarebbe stato affrontato con ben altro animo, se il pacifista, se il riformista Turati, nel 1919, nel 1920, nel 1921, nel 1922, non fosse stato privato della direzione del partito. Il valore umano della democrazia sfuggiva agli avversari di Turati per la grettezza della loro visione della storia e del socialismo. Essi ignoravano che la libertà è il prodotto più alto di millenni di lotte e di sofferenze umane, e confondevano con la libertà le sue limitazioni e deformazioni borghesi.

La libertà può essere rinnegata dalle classi che decadono, ma è il titolo di primogenitura rivoluzionaria di quelle che sono chiamate a creare una società più giusta e più buona. Turati col suo profondo senso dei valori umani, in una magnifica polemica giornalistica sulle colonne della “Critica sociale”, difese, nel decennio che precedette l’avvento del fascismo, le ragioni vere di sviluppo del socialismo, che sono tutt’uno con quelle della democrazia. Agli spiriti superficiali, gli ideali turatiani parevano l’espressione di una società pacifica, come quella del principio del nostro secolo, e tali da non adeguarsi alle vicende di un mondo travolto dalle guerre e dalle rivoluzioni. Di una dottrina, che esaltava la libertà e odiava la violenza, si pensava che fosse connaturale con un mondo senza lotte e inadeguata ad un tempo di lutti e di sangue. Quale errore! Il pensiero di Turati era la profetica condanna delle tragedie che stavano per travolgere il mondo e, quando il mondo fu travolto e la vita apparve perdere ogni senso e valore, furono gli ideali di Turati quelli cui gli uomini si rivolsero per ritrovare la ragione del loro destino. La guerra libica, la prima guerra mondiale, l’avvento del fascismo distruggono l’opera organizzativa dei socialisti democratici, e paiono suonare tragica smentita alla fede di Filippo Turati.

Turati parla di un mondo libero e pacifico, di un mondo giusto e sereno, ed il mondo invece si avvia verso l’ingiustizia e la violenza. Chi è il vincitore, chi è il vinto? Colui che seguendo il moto degli eventi fa proprie le ragioni della violenza e della guerra, oppure chi, come Turati, guardando con occhio d’aquila al di là degli avvenimenti tumultuosi ma contingenti, vede le ragioni imperiture della vita e le difende sino alla morte? Il vincitore è Turati. Che cosa è avvenuto in quel periodo tumultuoso, che ha visto il crollo di molti valori del passato e il sorgere di un mondo nuovo, di cui la violenza e la dittatura erano parti integranti? Quali sono le forze che hanno imposto al corso della storia una direzione nuova? Che le civiltà possono morire, l’esperienza del passato ce lo insegna, ma l’esperienza del passato non ci poteva insegnare perché le civiltà divengono mortali. Oggi noi sappiamo che le civiltà crollano e muoiono quando gli uomini non si sentono più legati dal comune patto umano. La civiltà del principio del secolo non era una civiltà comune a tutti i popoli e a tutte le classi sociali: essa era patrimonio di pochi popoli e di classi privilegiate. La massa delle nazioni e la massa dei popoli a un certo momento si sono sentite estranee ad un mondo che non era il loro. È da quel momento che la lacerazione si sviluppa sino alle sue ultime conseguenze, di cui la guerra civile e la guerra mondiale non sono che un aspetto.

Le vicende dell’Italia durante la guerra mondiale, il crollo della libertà e l’avvento della dittatura sono anch’essi un aspetto paradossale della gigantesca rivoluzione che da quasi un secolo modella la faccia della terra, e al cui sviluppo noi anche oggi assistiamo. Il crollo del colonialismo, la liberazione politica di interi continenti, lo sviluppo di nuove forme imperialistiche, il consolidamento di smisurate dittature, la minaccia della guerra sempre incombente: tali sono le contraddittorie manifestazioni che danno al nostro tempo un carattere straordinario. Turati si è trovato investito dai primi moti di questa immensa rivoluzione e ne ha dominato le ragioni profonde. Primo urto: la prima guerra mondiale. Turati sente che il dovere degli uomini civili è di dominare il processo rivoluzionario, assecondandone gli aspetti positivi, ma combattendo senza tregua contro quelli distruttivi; quello più distruttivo di tutti è la guerra Si tratta per Turati di portare più in alto, per l’avvenire, i valori umani che il passato ha creato; si tratta di liquidare ciò che del passato è caduco; si tratta di difendere sino alla morte ciò che del passato è ragione di sviluppo del futuro.

Di qui la lotta di Turati contro la guerra. Contrario alla guerra per istinto e per convinzione, Turati sapeva però che è un limite oltre il quale la frattura fra gente della stessa terra diventa ben più terribile della frattura fra le nazioni. Quando la Patria è invasa, nessuno ha il diritto, in nome del suo sacro odio per la guerra, di sottrarsi al dovere di difenderla. Ma nello stesso discorso del Grappa, in cui Turati con parole che hanno commosso tutto un popolo, consacra il dovere di difendere la Patria invasa, affermerà con forza che i socialisti odiano la violenza e la guerra. Nel contrasto fra i doveri che la contraddittorietà degli eventi impone, Turati sa suggerire al popolo italiano la via giusta, animato dalla sua coscienza morale e illuminato dall’alta dottrina del socialismo democratico. È in quel periodo che avviene il più grave fatto forse del secolo: la frattura della classe lavoratrice. Era fatale che la violenza scatenata nella guerra assecondasse i fautori della violenza come forza decisiva della storia, ed era fatale che di fronte alla realtà brutale di quel tempo, che pareva dare una smentita alle speranze del socialismo democratico, i totalitari si ponessero contro i democratici come implacabili nemici. Se la storia va verso la violenza e la dittatura, perché attardarsi su ideali di pace, di giustizia e di libertà condannati al fallimento? È su questi tragici sofismi che si è sviluppata la frattura della classe lavoratrice, da cui ha origine la mortale frattura che divide oggi il mondo. La storia è fatta dalle circostanze, ma le circostanze sono fatte dagli uomini.

Uno spirito veramente consapevole, un’alta coscienza morale non arresterà il suo sguardo alla superficie delle cose: lo spettacolo di violenza che offre il mondo, lungi dall’essere un fatto ineluttabile, lungi dall’essere l’espressione di una legge ferrea della storia, non è altro che il risultato degli errori compiuti dagli uomini, anche se questi errori risalgono alle generazioni che ci hanno preceduti, anche se saranno i figli a pagare per i peccati dei padri. Non v’è in questo nulla di fatale e di ineluttabile, nulla che non sia umano. La storia, lungi dallo schiacciarci come un’implacabile forza nemica, non è altro che la Nemesi dei nostri propri errori. Essa è una lezione da raccogliere, un monito da afferrare, e in ogni atto inumano che si compie, l’uomo giusto vedrà, non già la conferma della nostra inumanità, ma lo stimolo irresistibile per superare una situazione intollerabile e per creare una società giusta. Oggi queste cose sono a noi chiare, di una evidenza irresistibile. Quarant’anni di tragici eventi ci hanno più che mai convinti del carattere imperituro dei valori umani e della caducità di tutto ciò che è inumano. Oggi è facile scegliere la strada giusta, e soltanto l’ottusità e il fanatismo possono impedire una sana scelta. Infinitamente difficile era afferrare il senso degli avvenimenti e scegliere la strada giusta all’inizio di questo periodo rivoluzionario. Il merito immortale di Turati fu di aver saputo con una lucidità esemplare e con una coscienza infallibile vedere al di là della superficie, e afferrando il senso profondo della storia, fissare quella norma di condotta, cui ancora oggi noi guardiamo come ad un indirizzo di validità perenne.

Quando tutto precipita verso la violenza e la guerra, quando la forza pare costituire l’unica legge della vita, è difficile non abbandonarsi al corso degli avvenimenti e discernere, oltre il contingente, l’eterno. Turati in quegli anni terribili, che mettevano in discussione tutti i valori, è stato il nostro maestro esemplare. Seguendo con spirito fraterno il grande moto degli uomini verso una civiltà nuova, Turati difendeva con la forza della sua intelligenza e della sua coscienza l’unità della vita e della storia. Si rifiutò sempre di rinnegare quei valori di libertà, che, al di sopra della separazione dei popoli, legano tutti gli uomini in un patto che non si può spezzare. Il significato essenziale dell’opera di Turati può essere indicato in questa sua difesa dell’unità dei valori umani, nel momento in cui si scatenavano le forze che questa unità disintegravano e distruggevano.
Turati si leva gigantesco contro il fascismo – egli dice – non perché il fascismo – è una sua invettiva – è l’antiItalia, ed egli si sente italiano, ma perché il fascismo è l’anti umanità, ed egli si sente uomo ed umano. È stato detto giustamente che l’antifascismo di Turati affonda le sue radici in tutto il suo passato di combattente politico e diventa l’oggetto di ogni sua attività fino all’ultimo giorno della sua vita. Il suo antifascismo era la smentita vivente delle concezioni banalmente pacifistiche, non dico pacifiche, che si attribuivano assurdamente a Turati. Egli denuncia il fascismo con la lucida consapevolezza della tragedia universale, che il fascismo contiene in germe, e lo combatte con la veemenza con cui gli eroi combattono i mostri. Il fascismo rappresenta per lui la negazione totale di quei valori risorgimentali, da cui il suo spirito veniva, e di quei valori di giustizia sociale, cui il suo spirito era approdato. Turati, il più uomo degli uomini, odiava il fascismo direi quasi con violenza, tanto era in lui il corruccio per la offesa che l’Italia e i lavoratori dovevano subire.

Fascismo e comunismo erano l’espressione estrema, che spezza il patto umano, che mutila l’umanità e la spinge verso l’abisso della guerra. Fascismo e comunismo erano oggetto della condanna implacabile di Turati, che, di fronte ad essi, si levava come un fiero e nobile difensore di tutto ciò che da un senso alla vita. Mentre la maggioranza della classe lavoratrice si lasciava affascinare dai nuovi miti, Turati intendeva che il suo dovere, nell’atto stesso in cui si levava con impeto contro il fascismo, era di conservare all’Italia l’idea e il nucleo organizzativo del socialismo democratico. Nel 1922 fondava quel partito dei lavoratori, che, col sacrificio del suo segretario Giacomo Matteotti, circonfondeva in una luce di gloria la lotta per la libertà dell’Italia. Per questo egli fu schernito dai suoi avversari totalitari come “socialtraditore”, sopportando con serena ironia un’ingiuria, che pur lo feriva. Però, tale era la sua statura morale e intellettuale, che, quando la tragedia della Patria si incarnò nel martirio di Giacomo Matteotti, fu a lui che tutti i partiti antifascisti si rivolsero come ad un testimone supremo, e tu da lui che l’Italia commossa e dolente riceveva il sublime vendicatore.

Alla fine del ’26 Turati prendeva la via dell’esilio che doveva chiudersi solo con la sua morte. Tristi tempi, in cui il più nobile degli Italiani del suo tempo doveva abbandonare la Patria occupata dai violenti e trovare asilo in terra amica straniera. L’esilio di Turati è una pagina triste della nostra storia nazionale; la sua presenza in esilio era una denunzia e una condanna, e attorno a lui si raccoglieva la venerazione di tutti gli uomini liberi, che lo onoravano come il rappresentante della vera Italia, figlia del Risorgimento e dei grandi ideali di libertà e di giustizia. La sua presenza fra gli emigrati contribuì in modo decisivo a galvanizzare la forza dell’antifascismo e a dare un altissimo tono morale e politico alla lotta contro la dittatura. Con la sua eloquenza, appoggiata dalla sua autorità fu lui a gettare l’allarme tra le libere genti, prima ancora che il dilagare del fascismo nei paesi di lingua germanica ponesse il mondo di fronte all’ineluttabilità di una nuova terribile guerra mondiale. Il discorso di Turati al Congresso dell’Internazionale a Bruxelles, nel 1928, fu profetico. “Effettivamente – diceva Turati – il fascismo cospira col bolscevismo, di cui è il piatto plagiario. Se il fascismo durasse a lungo e si sviluppasse a pieno, non avrebbe che un unico sbocco, il comunismo”. E spiegando l’origine del fenomeno affermava: “Aggiungete alle conseguenze della guerra l’ondata bolscevica che invade l’intera Europa con il miraggio moscovita, e le debolezze dei partiti socialisti timorosi di perdere la loro popolarità”, e concludeva; “L’antico duello che pareva semplice e chiaro, socialismo e capitalismo, classi operaie e borghesia, si complica di nuovi elementi. Il conflitto è un altro: le obiezioni al socialismo non ci provengono più dal liberalismo, dalla scuola della libera concorrenza, che del resto non esiste quasi più.

Esse ci vengono da tutt’altra parte: dalla propensione sempre più accentuata per i sistemi di statolatria e di dittatura. Fin tanto che questo duello non sarà stato deciso, la grande lotta per il socialismo subirà una sosta. Mai come in questo momento il problema del socialismo si presenta come un problema essenziale di libertà e di autonomia. La libertà dello spirito, libertà politica, libertà sociale, libertà economica, libertà dell’individuo e libertà dei popoli di disporre di se medesimi: tutti questi elementi sono legati assieme indissolubilmente. Se una di queste libertà crolla, crollano tutte le altre. Fra libertà e statolatria l’Internazionale ha da scegliere”. L’Internazionale ha scelto e le profetiche parole, i profetici moniti di Turati, sono oggi più validi che mai. Durante l’esilio Turati presiedeva alla riunificazione dei tronconi del socialismo italiano, e anche su questo problema fondamentale le sue idee sono le nostre. “La scissione del ’22 fu tardiva – scrisse Turati – altri la deplora come “scissione”; io come “tardiva”, ormai quindi inutile. Se avevamo prima la libertà di manovra che l’unità forzata impedì, forse il fascismo non trionfava, certo non trionfava così.

La mia parola non può dunque essere sospetta, se nelle condizioni presenti mi associo a voi nella letizia e nell’entusiasmo; si aggiunga il mio appello al vostro, perché tutti i socialisti democratici – essi soli, ma tutti – formino una sola schiera”. Si affermava intanto quella coalizione tra le forze democratiche antifasciste, che adombrò nell’esilio i termini della politica di solidarietà democratica di questo ultimo decennio, coalizione di cui Turati fu l’anima e che morirà con lui. La morte di Turati era prossima. Oh, cediamo la parola a colui che fu il più illustre dei suoi compagni e fratelli, Claudio Treves: “Lo vedemmo a poco a poco sparire nel rantolo alla fine spento, nel polso svanito, nello sguardo fatto vitreo, nella soffusa serenità dei lineamenti, come se alfine tutta la sua intrinseca gentilezza si fosse liberata dall’armatura del combattente, che non aveva mai conosciuto ne tregua, ne riposo. Quando ciò avvenne, quella sera, in un solo momento due cose percepim

mo insieme: la voragine che si era scavata nei nostri cuori per non colmarsi più; la rivelazione balenata improvvisa, come una luce nella notte, di ciò che veramente egli era, di ciò che era stato, di ciò che egli sarà per noi sempre.

Egli era tutto il nostro socialismo. Egli era l’Italia. Egli era tutto l’anelito del nostro Paese ad essere buono, giusto, grande, libero in una umanità giusta, buona, grande e libera. Come l’antico Pontefice poteva dire: Ho amato la giustizia, ho odiato l’iniquità, per questo muoio in esilio”. Ricordo, ed è una immagine che non mi abbandonerà mai, la sua testa leonina pesantemente affondata nei cuscini del letto funebre. Era un padre che ci lasciava, un maestro di vita che abbandonava ormai ad altri il compito di rendere operante la sua alta lezione e il suo nobile esempio. Turati non era più con noi, ma dall’infinita distanza in cui egli era, pareva che ci venisse ancora, come infatti ci venne e come sempre ci verrà, il suo insegnamento immortale. Le sue ceneri riposarono per lunghi anni sulla collina del Pére Lachaise, nel cuore di Parigi, presto raggiunte da quella di Claudio Treves, come a protezione della città che l’aveva onorato nell’ora della morte, come si onorano i geni e gli eroi. Passò la bufera della seconda guerra mondiale, ed ebbe inizio la triste pace in cui ancora viviamo. Ricordate, cittadini, la traslazione delle sue ceneri al cimitero monumentale. Léon Blum, il più grande cittadino di Francia, le aveva accompagnate, come se la Francia volesse essa stessa consegnare all’Italia le urne dei due grandi italiani morti in esilio.

Fu una giornata di commozione, in cui Milano diede tutto lo slancio della sua fede e della sua riconoscenza. Oggi, a cento anni dalla nascita di Turati, a venticinque dalla sua morte, a nove dal ritorno delle sue ceneri, che riposano sulla terra lombarda, entro le mura della sua cara Milano, noi siamo qui riuniti per elevare un pensiero di riconoscenza verso colui che ci fece apprendere, al di là della tragedia della guerra, l’immenso valore umano della vita, che ci indicò la via da percorrere, e le prodigiose mete da raggiungere, e che cadde mentre ci accompagnava in questo alto cammino. Quali valori egli ci insegnò! Quale via ci indicò! Verso quali mete ci accompagnò! Il socialismo democratico è ciò che egli ci ha insegnato, non come un messaggio che si comunica, ma come una realtà che si vive col pensiero e con l’esempio. Il socialismo democratico, prima d’essere una dottrina o una forza organizzata, è un modo di concepire e di vivere la vita. Socialista democratico, in primo luogo, è colui che crede alla possibilità di far scomparire dalla società i mali che la deturpano, e che crede che ciò sia possibile con mezzi conformi al fine umano che si vuole raggiungere. Facendo leva sulla forza morale, che è quanto dire sulla parte migliore di noi stessi, il socialismo democratico non scivola nella utopia e nel moralismo, perché affonda le radici nella dolorosa realtà di cui analizza a fondo le cause.

Il socialismo democratico sa che la società non può essere trasformata, se non quando coloro che hanno interesse a farlo, ossia i lavoratori, acquisteranno coscienza di classe, ossia acquisteranno coscienza dei compiti che stanno loro di fronte. Il socialismo democratico pone quindi in un primo tempo un problema di educazione e di propaganda, utilizzando la coscienza di classe, che sorge dai lavoratori, per organizzarli in partito politico. Il partito politico dei socialisti democratici è un organismo, che deve essere congruente con i fini umani che si vogliono raggiungere; esso non è ne un esercito con la ferrea disciplina e con gli obiettivi fissati dall’alto, che vanno raggiunti con qualsiasi mezzo, e non è neppure un circolo per discussioni teoriche, che non siano accompagnate dall’azione. Il Partito Socialista Democratico ha un obiettivo pratico da realizzare, un fine da raggiungere; esso presuppone quindi un denominatore comune sui consensi e sui fini, ossia esige un’autodisciplina democratica. L’idea fondamentale che guida il partito è l’indissolubilità del socialismo dai principi di libertà e di democrazia; questo è il punto della grande frattura con i partiti comunisti e paracomunisti. Il socialista democratico crede nell’unità della storia, nell’unità della vita. Egli sa che le divisioni anche più profonde, come quelle tra popoli e popoli, classi e classi, poggiano su un comune fondamento umano che si tratta appunto di difendere. La stessa guerra non può distruggere questa unità indistruttibile, per cui, nel calore della lotta, il combattente, consapevole dei fini di essa, riconosce nell’avversario un volto umano simile al suo.

Questa è la grande differenza tra i rivoluzionari e i fanatici, i quali ultimi, dimentichi della loro umanità, sono condannati a produrre una realtà inumana. La consapevolezza del comune fondamento che lega tutti gli uomini, lungi dall’attutire nel vero socialista il senso delle lotte necessario, lo sprona verso di esse, rendendolo capace di strappare dalla realtà un progresso civile. Mentre il fanatico, nel corso degli eventi, travolto dalla visione angusta del mezzo spietato, finisce per diventare preda di esso, distruggendo col senso della lotta il fine ch’essa si propone, il socialista democratico marcia verso la meta con passo sicuro. È da questa consapevolezza della unità della storia che discende la fede nella libertà e nella democrazia, . ossia la fede nel valore originario di ogni individuo. Compito del socialismo è di eliminare le classi, ma ciò non potrà essere fatto, se si distruggerà il contenuto umano che c’è in ogni individuo, ossia, se s’imporrà la nuova legge con la violenza e la dittatura. Al posto di una classe se ne installerà un’altra, e non si realizzerà quella società, che Marx anticipava, quando diceva che “il libero sviluppo di ognuno garantirà il libero sviluppo di tutti”.

Condizione fondamentale di sviluppo fecondo delle lotte di classe è anticipare, ciascuno nel proprio animo, la società umana per cui si combatte. Si tolga questa consapevolezza, e le lotte diverranno degli scontri selvaggi senza senso ne scopo. Ecco perché le lotte inevitabili per il trionfo della libertà e della giustizia debbono essere contenute nei limiti di quelle civili norme democratiche, che presuppongono il ripudio della violenza. Mirabile dottrina, che è tanto più valida come creatrice di valori sociali, quanto più sottolinea ciò che è patrimonio inalienabile della coscienza dei singoli. Di questa dottrina Turati fu il Maestro dei Maestri, e in queste ore gravi, che paiono preludere ad eventi che sfuggono al controllo degli uomini, è ancora a lui che noi dobbiamo rivolgerci, è ancora dal suo insegnamento che noi dobbiamo trarre consiglio. Il socialismo chiama i lavoratori ad una lotta che deve redimere tutta la società e fondarla su basi veramente umane. Nel corso di questa lotta tutte le brutture del presente debbono essere cancellate, ma nessuno dei valori universali, ai quali trenta secoli di storia ci hanno legati, deve venire offuscato o distrutto. La vittoria del mondo del lavoro non è, e non può essere, la sostituzione di un’oppressione ad un’altra oppressione, ma deve essere la liberazione da tutte le oppressioni.

Le limitazioni della libertà e della democrazia da parte delle classi dominanti sono ciò che noi dobbiamo sopprimere, ma il contenuto umano della libertà non può essere rinnegato, senza rinnegare il fine per cui si combatte. Chi lotta con vera coscienza di classe e con vera consapevolezza dei fini delle sue lotte, non deve rinnegare nulla di ciò che di grande e nobile è stato compiuto dalle generazioni che ci hanno preceduto, ma al contrario dovrà migliorarlo e portarlo più in alto. Se non saprà fare questo, egli si batterà magari con l’ardore del fanatico, sarà un nemico implacabile della società attuale, ma non sarà l’artefice di un mondo migliore, e lungi dall’essere un socialista, diventerà uno strumento incosciente di una nuova rapina. Il socialismo è una milizia difficile e dura, che esige dai suoi militanti un senso austero della lotta, animato però dalla nobiltà dei fini della lotta. Essere socialista vuoi dire aver trovato la via della comunione con tutti coloro che soffrono e che sono oppressi, vuoi dire aver trovato la via della fraternità e, se occorre, del sacrificio, non nell’annullamento della propria personalità, ma al vertice di essa. Essere socialista, infine, vuoi dire aver trovato la via della libertà e della giustizia, vuoi dire aver trovato la via della pace, di quella pace che è compromessa da coloro che rinnegano le ragioni supreme della vita. Questa è la lezione che abbiamo raccolto da Turati, ed è una lezione che si spiega come una luminosa pagina nel nostro tempo, che ha visto abbattersi su di sé tutti i problemi insoluti del passato ed è turbato da tutti gli enigmi del futuro.

Noi socialisti democratici ci ispiriamo a questo grande insegnamento e nelle ore gravi di oggi, mentre il vento turbinoso della storia volta, violento, le pagine del nostro destino, è a Turati, alla sua dottrina, alla sua politica e soprattutto al suo esempio di moralità e di civismo che noi guardiamo come ad una infallibile guida. Di fronte ai problemi tremendi che le circostanze di oggi pongono a tutti gli uomini di buona volontà, il ricordo di Filippo Turati ci anima nella convinzione invincibile che le forze della violenza e della guerra non prevarranno, solo che rimangano sulla terra degli uomini come lui, pronti al sacrificio per la libertà e la giustizia. Mentre la tracotanza delle dittature, irte di armi, costruite sulla miseria e la schiavitù dei popoli, fa piegare le anime pavide, questa celebrazione di un uomo che odiò la guerra, che combatté la dittatura e visse per difendere la conculcata giustizia, ci richiama al trionfale primato dei valori morali. Turati è, prima d’ogni altra cosa, la sfida sublime della coscienza morale contro la violenza e il male.

Chi più di lui potrebbe ispirarci nel momento attuale, quando la violenza e il male hanno il sinistro fascino di una forza che si ritiene soverchiante? No, la violenza non soverchierà mai la virtù, che ha in sé una forza immortale. Turati non sarà mai vinto. Le idee di libertà e di giustizia, che furono tutta la sua anima, potranno essere insidiate e minacciate da pericoli mortali, ma alla fine saranno esse che trionferanno in un mondo finalmente riscattato dalla vergogna della dittatura, liberato dal terrore della guerra e fondato sulla giustizia sociale. È per costruire quel mondo di giustizia, di libertà e di pace, che Turati ha dedicato la sua vita gloriosa ed è quello il mondo di cui è cittadino immortale. Qui, nel cimitero monumentale di Milano, le sue ceneri riposano vegliate dalla pietà della popolazione: esse sono un pegno enorme, anche se non sono che un simbolo, un labile simbolo offerto alla venerazione dei discepoli. Ma l’immensa fiamma che ha illuminato la coscienza degli Italiani non è spenta e non si spegnerà mai.

Tratto da l’Ossimoro di Mario Artali