BORGHESIA: FASCINO DISCRETO DELLE ETICHETTE

di Pierfranco Pellizzetti

Guido Carli nega che una parte della borghesia produttiva possa darsi un ruolo innovativo, sottraendosi alla «solidarietà di classe». La borghesia italiana, però, è sempre stata nazionalista, opportunista o settaria

Tesi: i ceti sociali sono portatori di interessi specifici che tendono ad organizzarsi secondo rappresentazioni culturali orientate da valori. Tradotto in italiano: gruppi di cittadini uniformati da ruolo e status sociale sono omogenei anche per interesse e cultura. In uno schema siffatto sarebbe attuabile l’operazione illuministica di ridisegnare la geografia politica partendo dall’individuazione degli orientamenti reali, seguendo il senso delle nervature con cui i gruppi si innestano nel tessuto sociale. Ma quando si scende dall’astratto al concreto, il quadro nazionale viene totalmente modificato da viscosità e ritardi culturali che producono false rappresentazioni, da luoghi comuni consolidati che determinano errate identificazioni ed alimentano solidarietà infondate; spesso l’emergere di realtà nuove non viene percepito come tale (né — sovente — loro stesse riescono a percepirsi tali) e — quindi —lo si tende ad “inscatolare” in vecchi schemi; un ruolo negativo giocano — infine — tutte le operazioni culturali di retroguardia volte a fornire valori devianti ai gruppi sociali in travaglio davanti un problema di auto-identificazione. Ricorrendo ad un vecchio e cinico adagio cavouriano (conservateurs dans le coeur, radicaux pour peur), il presidente della Confindustria Guido Carli suole svilire lo sforzo, di una parte della borghesia produttiva, di darsi un ruolo innovativo coerente con i propri interessi reali (se ha un senso la tradizionale polemica imprenditoriale nei confronti del parassitismo e del capitalismo assistenziale). Se ne deduce che, per il presidente della Confindustria, una scelta di tipo progressista (che, nel caso italiano, significa volta a razionalizzare un capitalismo atipico) equivarrebbe a puro e semplice gattopardismo. Ma la singolare critica interviene ancora al livello dell’individuazione degli interessi reali cosicché la valorizzazione del termine conservateur nella citazione cavouriana rivela le perplessità di Carli nei confronti di un progetto che comporta l’uscita di un segmento di borghesia (appunto, produttivo-imprenditoriale) dalla più generale e tradizionale solidarietà di classe (appunto, borghese-conservatrice).

Perplessità oneste e legittime. È chiaro che una borghesia progressista attenta al fondamentale problema della propria specificità non può essere socialista o populista. I valori rivoluzionari (radicali) borghesi sono la mobilità ed il pluralismo e la tradizione che li elabora è quella liberale. Dall’Einaudi della bellezza della lotta (recupero del valore del conflitto) al Pannunzio della lotta contro i “padroni del vapore” (riproposizione di una moralità laica) vi è tutta un’elaborazione liberal-progressista che può essere punto di riferimento per una militanza insieme borghese e a sinistra. Ma il termine “liberale” si presta ad operazioni culturali svariate e dubbie. Portiamo ad autorevole esempio quanto ha recentemente scritto lo storico Rosario Romeo (e lo facciamo con qualche timore vista la ben nota attitudine dell’illustre storico a prendere a schiaffoni l’interlocutore troppo critico o irrispettoso): «Molto si parla, negli ambienti di sinistra, delle recenti iniziative miranti ad organizzare in qualche modo la cultura “moderata”, che poi vuol dire liberal-democratica» (Giornale nuovo del 25 giugno scorso).

Isoliamo la parte finale di questa frase: «moderata, che poi vuol dire liberal-democratica». Chi l’ha detto? Il pensiero liberal-democratico è “immoderata” scommessa sulla creatività di minoranze eretiche (il dissent di De Ruggiero) e sul ruolo innovativo della critica. Siamo dunque davanti ad una forzatura concettuale che rivela — in parte — il senso della più generale operazione portata avanti dai gruppi che si raccolgono attorno al quotidiano montanelliano: creare, in un quadro politico che tende a normalizzarsi attraverso l’accordo di vertice della corporazione partitica (ipotesi consociativa), un’opposizione (per ora aventiniana) alla destra del regime, auto-proclamatasi liberale e che coaguli il malcontento dei benpensanti. Se questa opposizione è liberale, chi non vi aderisce — argomenterebbe Croce — liberale non è: fascino discreto delle etichette. Proseguendo in tema di etichette, osserviamo come (per quanto attiene l’evocato moderatismo) la storia nazionale insegni che “moderato” è proprio il conservatorismo della parte meno forcaiola della borghesia. Ma se il nostro paese una classe dirigente liberale, rare eccezioni a parte, non ha mai saputo esprimerla, altrettanto, rare sono le posizioni schiettamente conservatrici. Si è sempre abbondato — invece — in borghesie trasformistiche, nazionalistiche, opportuniste (perché fifone) o settarie (perché ignoranti); le posizioni sono sfumate e polivalenti, giustificabili, sempre, mediante acrobazie lessicali —al limite dell’appropriazione indebita — del tipo “liberal-democratico ovvero moderato“. A questa logica del camuffamento si ispira anche il tentativo dei montanelliani di presentare come liberali e, al tempo, moderate un insieme di pregiudiziali anti-progressiste di una borghesia assetata di impossibili ritorni centristi, strutturalmente obbligata ad arroccarsi davanti ad ogni sfida.

Ceti di cui Tocqueville direbbe: «non hanno capito niente, non hanno scordato niente». Se riesce questo tentativo di opporre alla logica normalizzante della corporazione politica la logica reazionaria del ritorno ad un (ipotetico) buon tempo antico, si finirà per “schizzare” ai margini del dibattito ogni posizione innovativo-riformista, lasciando — conseguentemente — uno spazio immenso ed inquietante alla non-logica del rifiuto del sistema inteso come unica opposizione possibile. In uno scenario così compresso vi sarebbero difficoltà quasi insuperabili per il tentativo di ridisegnare la geografia politica italiana partendo da quelli che sono gli interessi reali presenti nella società civile. Sarebbe ulteriormente rallentata la maturazione di una moderna borghesia liberal-progressista, adeguata ad una realtà di tipo industriale e portatrice di proprie ipotesi di trasformazione della società coerenti con i propri interessi reali.

Tratto da Critica Sociale del 23 settembre 1977

L’immagine utilizzata è tratta da un’opera dell’artista Roberto Finessi