Giacomo Mancini nacque a Cosenza il 21 apr. 1916 da Pietro e da Giuseppina De Matera. Crebbe in una famiglia socialista, dominata dalla figura del padre, deputato del Partito socialista italiano (PSI) e perseguitato dal fascismo. Dopo il diploma liceale fu mandato dal padre a Torino, dove, nel 1938, conseguì la laurea in giurisprudenza. L’armistizio dell’8 sett. 1943 lo sorprese a Novi Ligure dove stava svolgendo il servizio militare: immediatamente decise di recarsi a Roma, e qui si iscrisse all’appena fondato Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP).
Nella capitale occupata dai tedeschi si dedicò all’attività di resistenza clandestina con l’incarico, assegnatogli da G. Vassalli, di proselitismo e diffusione della stampa nella zona di Prati-Trionfale.
Solo dopo la liberazione di Roma, nel giugno 1944 riuscì a raggiungere la famiglia in Calabria, dove maturò la scelta definitiva per la militanza politica, impegnandosi nelle lotte contadine e guadagnandosi, nel 1946, la nomina a segretario della federazione socialista di Cosenza. Privo della faconda oratoria del padre, manifestò subito uno spiccato pragmatismo, con una particolare attenzione agli aspetti pratici e organizzativi della lotta politica: tratti che lo avrebbero accompagnato nel corso di tutta la sua carriera.

Ne derivava che, immerso nelle lotte contadine e venuto a contatto con le terribili condizioni di vita delle plebi del Sud, Mancini. sviluppò una spiccata sensibilità verso la questione meridionale, cui sarebbe rimasto fedele tutta la vita; e ne derivava altresì che, in una zona dove le sezioni socialiste e comuniste erano solitamente situate nei medesimi locali e dove i militanti di entrambi i partiti conducevano l’uno a fianco dell’altro le medesime occupazioni di terre, egli si schierò senza esitazioni a favore della politica unitaria delle sinistre e del patto d’unità d’azione PCI (Partito comunista italiano) – PSIUP.
Proprio la questione dell’alleanza con il PCI stava però lacerando irrimediabilmente il PSIUP, fino alla scissione consumata nel gennaio 1947 al congresso di Roma. Qui Mancini si schierò con la sinistra guidata da Pietro Nenni e Lelio Basso: una scelta che gli valse il salto sul proscenio della politica nazionale, con la nomina, a soli trent’anni, nella direzione del partito (dopo la scissione socialdemocratica denominato PSI: Partito socialista italiano). Mancini compensò alcune carenze emerse nell’attività di vertice, data l’inesperienza e la giovane età distinguendosi ancor più come abile organizzatore in periferia, tanto che in Calabria anticipò la fusione che PSI e Partito d’azione (Pd’A) avrebbero realizzato poche settimane dopo sul piano nazionale. Si candidò quindi alla Camera nelle liste del Fronte popolare e fu eletto deputato il 18 apr. 1948.

Le elezioni del 1948 ebbero, com’è noto, esito negativo per il Fronte e, all’interno dell’alleanza, disastroso per il PSI. Per il partito iniziò una stagione nuova, caratterizzata, sotto la segreteria di Nenni, dall’intensa opera di rifondazione organizzativa guidata da Rodolfo Morandi, che agì con grande determinazione, ma anche con molta durezza e notevole intransigenza ideologica. Mancini ammirava Morandi, anche per le affinità con un carattere simile al suo, schivo e introverso, sicché partecipò alla sua attività, approvandone tuttavia più gli aspetti pratici che le rigidità ideologiche: la politica italiana era ormai dominata dai grandi partiti di massa e i socialisti non potevano competere con Democrazia cristiana (DC) e PCI senza un’adeguata organizzazione. Anche in Calabria, il tradizionale clientelismo “verticale” fondato sul notabilato e sul rapporto diretto cliente-elettore, veniva soppiantato da un nuovo clientelismo “orizzontale” che operava “per il tramite non più dell’avvocato o del notabile locale, ma di un’organizzazione sostenuta da funzionari e burocrati”. Mancini colse immediatamente la portata di tali innovazioni e adottò “uno stile politico non ideologizzato, ma calibrato volta per volta su obiettivi specifici, perseguiti con caparbia attenzione all’evoluzione dei rapporti di forza”.
Dal momento che gli anni Cinquanta furono caratterizzati in Calabria dalla riforma agraria, dall’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e dalla legge speciale “pro-Calabria”, Mancini si impegnò a scrutarne con accanimento l’applicazione, denunciando ritardi, carenze e abusi, segnalando le degenerazioni della spesa pubblica, scrivendo cospicui dossier, poi oggetto di campagne di stampa e interventi parlamentari. Un impegno che gli fruttò la rielezione, nel 1953, e il rapido ritorno negli organi nazionali del partito, il comitato centrale e la direzione.
Alla fine del decennio, aveva compreso che in Calabria la lotta contro il latifondo era ormai conclusa: di fronte allo spopolamento delle campagne, dovuto all’emigrazione di massa verso il Nord conseguente al miracolo economico, non aveva più senso mirare alla riforma dei rapporti agrari.

Bisognava superare la linea del PCI, che egli giudicava troppo “ruralista”, e fondare un “nuovo meridionalismo”, che puntasse all’industrializzazione e all’inserimento del Sud nei circuiti del moderno sviluppo economico.
Era una ricerca di nuove soluzioni politiche che si abbinava con il coevo mutamento di strategia del PSI: nel 1956, infatti, la destalinizzazione e poi l’invasione sovietica dell’Ungheria avevano indotto Nenni a rompere l’alleanza col PCI, provocando tuttavia anche una spaccatura interna al partito. Si schierò subito a favore della scelta autonomista del segretario; anzi, vincendo la sua consueta ritrosia di temperamento, si impegnò in duri scontri in direzione contro gli esponenti della sinistra interna . Al congresso di Venezia del febbraio 1957 la frattura si rivelò tuttavia più grave del previsto, paralizzando di fatto l’azione del partito. Un passaggio decisivo diventavano così le elezioni del 1958, vissute dalle correnti anche come una verifica dei rapporti di forza: in Calabria lo scontro si fece particolarmente aspro tra la sinistra capeggiata da R. Minasi e il gruppo guidato da Mancini che, secondo il giudizio unanime dei prefetti e dei funzionari del PCI, riuscì a porsi come punto di riferimento degli autonomisti di tutta la regione. Il risultato delle elezioni, positivo per il PSI, fu interpretato come un appoggio dell’elettorato alla linea di Nenni; sicché, al successivo congresso di Napoli, nel gennaio 1959, la corrente autonomista prevalse, seppur di poco. Si trattava ora di ampliare e consolidare tale consenso; e un ruolo chiave in questa sfida fu giocato proprio da Mancini che, per l’abilità mostrata come dirigente locale, ottenne l’incarico, cruciale, di responsabile nazionale dell’organizzazione.

Si trattava di un compito gravoso: non solo guidare il lavoro organizzativo dell’intera compagine, ma curare anche – come sollecitava G. Pieraccini in direzione – “l’organizzazione della frazione nel partito, con sedi non solo centrali ma periferiche, ispettori ecc.”, così da porre le basi per la definitiva vittoria della corrente nella riunione del 25 giugno 1959). Il successo giunse al congresso di Milano del 1961, con la nuova affermazione degli autonomisti e la conferma alla guida del PSI di Nenni, che intanto si muoveva in direzione dell’ingresso nel governo in alleanza con la DC.
Varato, alla fine del 1963, il governo di centro-sinistra con l’esecutivo Moro-Nenni (4 dic. 1963 – 22 luglio 1964), che tanta parte aveva avuto nel condurre in porto questa linea, vide aprirsi una nuova stagione quale uomo di governo: il primo incarico fu quello di ministro della Sanità.
In tale funzione Mancini si distinse per un provvedimento di grande impatto e popolarità: la vaccinazione antipolio di massa, con il nuovo e più efficace metodo Sabin. Molte furono le resistenze, sia del corpo medico (che si vedeva caricato di un gravosissimo compito), sia, ancor più, delle industrie farmaceutiche (che avevano accumulato cospicue scorte dell’altro vaccino, il Salk). Mancini agì quindi con fermezza e determinazione, minacciando sanzioni in caso di inadempienza e accompagnando l’iniziativa con una massiccia campagna di informazione; sicché la vaccinazione, iniziata il 1( marzo 1964, fu completata nel giro di pochi mesi.
Nel secondo e terzo governo Moro-Nenni (22 luglio 1964 – 24 giugno 1968), cambiò dicastero, diventando ministro dei Lavori pubblici.
L’incarico era di grande rilievo in una fase di impetuoso sviluppo economico e di dilagante abusivismo edilizio. La “prova del fuoco” si ebbe nell’estate del 1966, in occasione della frana verificatasi ad Agrigento, dove quartieri costruiti su terreni dichiarati inagibili, e in violazione delle norme edilizie, franarono a valle, gettando sul lastrico intere famiglie. Nel Consiglio dei ministri propose sanzioni drastiche: sospensione dei funzionari responsabili, riesame delle autorizzazioni edilizie, blocco dei lavori che non rispettavano le norme.

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La reazione fu veemente sia al vertice, con la DC che fece quadrato intorno ai propri dirigenti locali, sia alla base, in Sicilia, dove le categorie colpite da tali misure organizzarono un vasto moto di protesta. Mancini, comprendendo che, qualora avesse ceduto, avrebbe sanzionato un ruolo di subordinazione nel centro-sinistra del PSI rispetto alla DC, decise di resistere e, anzi, contrattaccare: cavalcando l’ondata di sdegno popolare suscitata nel resto del Paese, la frana di Agrigento poteva diventare l’occasione per introdurre nuove regole nel settore urbanistico e ridurre gli ampi spazi fino ad allora lasciati all’abusivismo edilizio.
Questa linea si inseriva all’interno di una più ampia visione strategica: puntava, di fatto, a valorizzare il ministero dei Lavori pubblici come volano dello sviluppo economico e intendeva perciò utilizzare “le leve di potere dello Stato in funzione di un intervento diffuso sul territorio” per liberare un nuovo flusso di investimenti pubblici da dirigere soprattutto verso il Meridione. Qui si trattava di sostituire il vecchio “rapporto clientelare personalizzato e fondato sulla concessione di un piccolo impiego” con nuove reti “di relazioni più complesse e anonime, dotate di un valore economico di gran lunga accresciuto e connesse a una prospettiva di sviluppo” complessivo dell’economia.
All’interno di tale strategia si inserirono la “legge ponte” del 1967 (che per la prima volta concedeva agli enti locali la possibilità di dotarsi di strumenti di regolazione e pianificazione urbana), il freno imposto alla cementificazione dell’Appia Antica a Roma, i massicci investimenti nelle regioni del Sud, soprattutto in Calabria.

In questi anni aumentò notevolmente la popolarità di Mancini., il quale si accreditò come “ministro più efficiente del centro-sinistra” e vide crescere la propria statura politica: “da notabile” era ormai “diventato leader”. Di conseguenza il suo peso e la sua importanza aumentarono sensibilmente anche all’interno del PSI, che nel frattempo stava vivendo un’ulteriore fase di passaggio, per il processo di unificazione col Partito socialdemocratico italiano (PSDI) e la conseguente fondazione del Partito socialista unificato (PSU). Mancini si schierò risolutamente fra i sostenitori del progetto: l’obiettivo condiviso era quello di creare un soggetto politico capace di modificare in proprio favore i rapporti di forza con la DC e così di spostare a sinistra il baricentro politico del governo.
Con questo bagaglio si giunse alle elezioni del maggio 1968. I risultati furono contraddittori: sul piano nazionale il PSU registrò una cocente sconfitta; sul piano locale, che condusse una campagna elettorale molto incisiva e moderna, conseguì una notevole vittoria.
In Calabria il PSU raggiunse il 17,8% (contro il 14% nazionale), a Cosenza divenne il secondo partito dopo la DC col 22,9% e risultò il candidato col maggior numero di preferenze: oltre 109.000.
Si mise così in moto un processo duplice: da un lato lo sfaldamento del PSU, che si sciolse nel 1969 con l’uscita dei socialdemocratici, dall’altro l’ulteriore ascesa come leader nazionale, eletto vicesegretario unico di Francesco. De Martino nel rifondato PSI; quando De Martino entrò nel governo Rumor, il Mancini, il 23 apr. 1970, venne eletto con voto unanime segretario del PSI.

Per risollevare le sorti di un partito logorato dalla gestione di governo e lacerato dalle divisioni, si mosse lungo due direttrici. Sul piano organizzativo interno (che sin dagli anni Quaranta, come si è visto, costituiva una delle sue principali preoccupazioni), puntò al rilancio delle strutture locali e, al fine di presentarsi come segretario di tutta la compagine e fare scattare nei militanti lo spirito di corpo, si fece affiancare da tre vicesegretari, G. Mosca, B. Craxi e T. Codignola, uno per ciascuna delle principali correnti. Sul piano politico, conscio che i socialisti avevano pagato in sede elettorale un’immagine di eccessiva subalternità alla DC, puntò a rilanciare il profilo riformatore del partito e a farne l’interprete di tutte le istanze della sinistra progressista che, soprattutto dopo la stagione del 1968-69, lievitavano nel Paese. Di qui l’attenzione rivolta alle iniziative culturali, la sensibilità nei confronti di temi come l’aborto o la droga, l’interesse verso le battaglie per i diritti civili condotte dai radicali. A tanta seminagione non corrisposero tuttavia i frutti sperati. A Reggio Calabria nel luglio 1970 scoppiò la rivolta che, originata dalla scelta di Catanzaro come capoluogo di regione e guidata da esponenti neofascisti, aveva tra i suoi principali bersagli polemici proprio Mancini. Intanto partiva nel settimanale Candido una denuncia relativa a presunte tangenti intascate da Mancini; raccolta da altri organi di stampa, la campagna assunse toni di grande veemenza e finì inevitabilmente per deteriorare l’immagine del Mancini.

Quando l’8-9 maggio 1972 si svolsero le nuove elezioni politiche, il PSI arretrò rispetto al 1963, fermandosi al 9%; e in Calabria vide crollare le preferenze personali da 109.000 a 64.000. Al successivo congresso del partito, nel novembre 1972 a Genova, egli fu sconfitto e la segreteria passò a De Martino; non sarebbe più tornato neppure al governo, con l’eccezione della breve parentesi come ministro per il Mezzogiorno nel governo Rumor del 1974.
Il cambio al vertice non attenuava intanto la crisi politico-organizzativa del PSI, che anzi nel 1976 pativa una nuova delusione elettorale (restando fermo al 9%). Maturava così la “svolta del Midas”, che portò all’elezione a segretario di Craxi, in alternativa ad Antonio Giolitti, con il contributo determinante proprio di Mancini, all’opposizione nel partito su posizioni di sinistra, sia pure decisamente autonomiste.
Subito si accreditò la versione, invano smentita Mancini, “di una regia nella defenestrazione di De Martino da parte di Giacomo Mancini per consumare una vendetta personale nei confronti di chi lo aveva spodestato” e portare al vertice alcuni giovani dirigenti intermedi “nella convinzione di poterli controllare e condizionare”.
Nei primi tempi della nuova segreteria fornì a Craxi il proprio appoggio e nei giorni drammatici del rapimento Moro (16 marzo 1978) sostenne la linea della trattativa, cercando di mettere a frutto i contatti tenuti negli anni precedenti con la sinistra extraparlamentare e alcuni esponenti dell’Autonomia; di lì a poco, tuttavia, cominciarono a emergere i primi contrasti.

Mentre Craxi cercava di emanciparsi da ogni eventuale tutela esterna, Mancini divenne punto di riferimento di quanti contestavano i metodi e la linea del segretario, come il direttore del telegiornale del secondo canale della RAI TV, Andrea Barbato, il quale, sgradito al vertice del partito e minacciato di sostituzione, denunciava in una lettera la “continua richiesta della segreteria di farmi fuori”. Attriti ben presto dichiarati, tanto che Mancini lamentò pubblicamente i metodi autoritari imposti a suo giudizio al partito da Craxi (intervista a La Repubblica, 15 dic. 1979).
Nonostante tali fermenti, Craxi, all’inizio del 1980, riuscì a consolidarsi al vertice del partito e Mancini, pur rieletto in Parlamento nel 1983 e nel 1987, si tenne sostanzialmente in disparte, continuando comunque a criticarne i metodi di gestione: tutto era nelle mani “dei signori delle tessere”, scrisse, per esempio, nel 1989 al vicesegretario Claudio Martelli, senza alcuna effettiva “comunicazione” con le esigenze reali del Paese. Quando nel 1992 non venne rieletto in Parlamento, la carriera politica sembrava ormai finita. Si aprì invece per lui una nuova stagione, questa volta nella natia Cosenza; nel 1993 venne eletto sindaco alla testa di alcune liste civiche non collegate ai partiti tradizionali. Subito dopo, tuttavia, ebbe inizio una dolorosa vicenda giudiziaria originata dall’accusa di presunte collusioni con cosche mafiose, conclusa, in primo grado, con un’assoluzione per insussistenza del fatto. Candidatosi nuovamente nel 1997, venne rieletto sindaco al primo turno, sostenuto anche dalla coalizione dell’Ulivo. Gli ultimi anni furono spesi da Mancini. per il rilancio della sua città, soprattutto con la valorizzazione del centro storico.
Il Mancini morì a Cosenza l’8 aprile 2002

di Paolo Mattera

Stathis Panagulis, Nikos Zambelis e Giacomo Mancini_sullo sfondo alla parete l'immagine di Brodolini
Stathis Panagulis, Nikos Zambelis e Giacomo Mancini. Sullo sfondo alla parete l’immagine di Giacomo Brodolini

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Stathis Panagulis, Nikos Zambelis e Giacomo Mancini. Sullo sfondo alla parete l’immagine di Giacomo Brodolini