GIUSEPPE SARAGAT

Giuseppe Saragat nasce il 19 settembre 1898 a Torino. La famiglia di origine sarda è di stirpe catalana. Aderisce come simpatizzante al neonato partito socialista. Fin da giovane è su posizioni riformiste, la stessa corrente degli storici padri del socialismo nazionale tra cui Filippo Turati, Claudio Treves, Andrea Modigliani, Camillo Prampolini e Ludovico D’Aragona. Volontario nella prima guerra mondiale prima come soldato semplice e poi come ufficiale viene stato decorato con la croce di guerra. Nel 1922 si iscrive all’allora Partito Socialista unitario e tre anni dopo entra nella sua direzione. L’avvento del fascismo e della dittatura mussoliniana vedono il quasi trentenne Saragat collocarsi all’opposizione del nuovo regime ed imboccare la via dell’esilio: prima l’Austria e poi la Francia dove incontrerà e collaborerà con tutti i massimi esponenti dell’antifascismo in esilio: da Giorgio Amendola a Pietro Nenni. È in questo clima e alla luce di molte corrispondenze che gli giungono dalla Spagna, dove è in corso la guerra civile, che matura una profonda avversione per il comunismo sovietico e per ogni sua “propaggine” occidentale. Di converso comincia ad abbracciare il filone socialdemocratico nordeuropeo figlio della II Internazionale. La posizione saragattiana antisovietica fu assai lungimirante e poi confermata, nell’ultimo decennio del Novecento, dagli stessi avvenimenti storici, ma non altrettanto lungimirante fu l’accettazione acritica delle posizioni secondointernazionaliste che erano state travolte dalla Prima Guerra Mondiale e dal lungo primo dopoguerra che aveva visto, anche a causa della debolezza della sinistra fortemente divisa tra massimalisti leninisti e riformisti socialdemocratici, la genesi e l’instaurarsi in Europa delle dittature fasciste e nazista. Dopo la caduta di Mussolini Giuseppe Saragat ritorna in Italia e, con Pietro Nenni e Lelio Basso, riunifica tutte le correnti socialiste dando origine al Partito Socialista di Unità Proletaria (Psiup) in cui, come in tutta la tradizione socialista, conviveranno sia le istanze riformiste, sia quelle massimaliste senza trovare, e anche questo fa parte della tradizione del socialismo italiano, un punto di sintesi e di accordo. Nel II Governo guidato dal “demolaburista” Ivanoe Bonomi, Saragat è Ministro senza portafoglio. Nelle elezioni per l’Assemblea Costituente i socialisti sono, con oltre il 20 % dei suffragi, il secondo partito italiano alle spalle della Democrazia Cristiana e superano per pochi voti i comunisti del Pci di Palmiro Togliatti. In quanto seconda forza politica della penisola, al partito del sol dell’avvenire va la presidenza dell’Assemblea Costituente, e Nenni, entrato nel frattempo nel Governo guidato dal democristiano Alcide De Gasperi (Dc), indica Giuseppe Saragat come candidato socialista per ricoprire tale carica e il leader riformista viene eletto con la convergenza di tutti i partiti antifascisti (Dc, Pci, Psiup, Pri, Pd’A, Udn, Pli) che costituivano i governi di unità nazionale. Ma è proprio in questi mesi che l’ennesima e insanabile rottura tra i due tronconi del socialismo italiano: da un lato il sanguigno e “popolare” Pietro Nenni si batte per una stretta collaborazione con i comunisti (fino a ipotizzare una unificazione dei due partiti della sinistra) e per una scelta neutralista sul piano internazionale, dall’altra parte il colto e raffinato Giuseppe Saragat, che si ispira ai modelli scandinavi, si oppone strenuamente a tale ipotesi. Le fratture in casa socialista, seguendo la peggiore tradizione, sono sempre insanabili e nel gennaio 1947 Giuseppe Saragat abbandona il Psiup con gli uomini a lui fedeli e dà vita ad un partito socialista moderato e riformista (che sarà per anni l’unico referente italiano del rinato Internazionale Socialista), il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (Psli). Tale partito pochi anni dopo, con l’unificazione con la piccola pattuglia dei membri del Partito Socialista Unificato (Psu) dell’ex ministro Giuseppe Romita, assumerà definitivamente il nome di Partito Socialista Democratico Italiano (Psdi) di cui Giuseppe Saragat sarà unico leader. Il partito socialdemocratico assumerà ben presto posizioni molto moderate e filoatlantiche in contrasto con tutti gli altri partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti d’Europa. Su 115 deputati socialisti eletti nel 1946 ben 52 se ne vanno con Saragat che, pur non riuscendo mai a conquistare il cuore della “base” socialista riuscirà a portare nella sua orbita sindacalisti, giornalisti e intellettuali che ritorneranno nel Psi solo nella seconda metà degli anni ’60: in questa fase di fine anni ’40 il movimento socialista si trovava in una peculiare e paradossale situazione per cui Nenni e il Psi avevano i voti e i militanti, Saragat e il Psdi la classe dirigente e i quadri intermedi. Simultaneamente all’assunzione della guida della nuova creatura politica, Saragat abbandona la guida di Montecitorio alla cui presidenza viene eletto il comunista Umberto Terracini a cui spetterà l’onore di tenere a battesimo, insieme al Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, al Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi (Dc) ed al Guardasigilli Giuseppe Grassi (Pli), la nostra Costituzione repubblicana. Nella primavera del 1947 De Gasperi si reca negli Usa ed al rientro estromette comunisti e socialisti dal governo varando una formula di governo quadripartito centrista composta, oltre che dalla Dc, dai repubblicani di Pacciardi (Pri), dai liberali di Einaudi (Pli) e dai socialdemocratici di Saragat (Psli) che assumerà la Vicepresidenza del Consiglio dei Ministri. È la svolta moderata nella politica italiana che verrà confermata dalle urne il 18 aprile 1948 quando al Democrazia Cristiana sconfiggerà duramente con il 48,8 % dei voti, il Fronte Democratico Popolare, la lista unitaria della sinistra composta, per volontà di Nenni, dal Pci, dal Psi e da alcuni ex esponenti del Partito d’Azione, che si fermerà ad uno scarso 32 % dei consensi. In questa competizione elettorale Giuseppe Saragat si presenterà alla guida di una lista, composta dal suo Psli e da alcuni ex membri del Partito d’Azione che non avevano aderito al tandem Togliatti-Nenni, con il nome di Unità Socialista conquistando un eccellente 7 % di voti: è questo il più alto risultato mai conseguito dai socialisti riformisti. Durante la prima legislatura i saragattiani, contro i quali si scateneranno l’ira e le accuse di tradimento della classe operaia dei comunisti, parteciperanno ai governi egemonizzati dalla Dc, ricoprendo, al pari delle altre forze laiche (Pli e Pri) un ruolo di comprimari, tanto che nel nuovo …

“IL LIBRETTO ROSSO DI PERTINI”. UNA VITA ESEMPLARE

Ci sono vite a confronto delle quali i romanzi più avvincenti impallidiscono. Nato a San Giovanni di Stella, in provincia di Savona, nel 1896, Sandro Pertini ebbe appena il tempo di abbracciare la causa socialista sui banchi di scuola prima di ritrovarsi in trincea a causa dello scoppio della Prima Guerra Mondiale. Nel corso dei combattimenti guadagnò sul campo la medaglia d’argento al valor militare, ma questo non lo risparmiò dalle persecuzioni fasciste una volta smobilitato. Avversario irriducibile del Duce e dei suoi sgherri, Sandro Pertini patì le bastonature, il carcere e l’esilio, ma niente servì a piegarlo. Protagonista della Resistenza al nazifascismo, conquistò come partigiano una medaglia d’oro, divenendo celebre per il suo perentorio: “Bisogna mettere i tedeschi di fronte a un’alternativa, arrendersi o perire”. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Sandro Pertini diede il suo contributo alla stesura della Costituzione, intraprendendo poi una carriera politica riconosciuta da tutti come specchiato esempio di rigore e di onestà. “Il libretto rosso di Sandro Pertini” ricostruisce la biografia morale del Pertini socialista e del Pertini partigiano: un’eredità fatta di scritti, discorsi e proclami che vengono direttamente da un tempo in cui, proprio grazie a uomini come Pertini, ci si poteva ancora dire orgogliosi di essere italiani. Il libro in formato pdf   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA PREDICA DI NATALE

Quando i contadini e i giornalieri uscirono dalla chiesa, videro sulla strada un uomo che, salito su un tavolo e circondato da alcuni del villaggio, cominciò a parlare Si avvicinarono. Era il giorno di Natale, e quell’uomo diceva: Siete voi cristiani? Lavoratori! Ancora una volta voi avete festeggiata nelle vostre case e nella vostra chiesa la nascita di Gesù Cristo. Ma interrogate la vostra coscienza: siete ben sicuri di meritare il nome di cristiani? Siete ben sicuri di seguire i principii santi predicati da Cristo e pei quali egli morì? Badate! Voi vi dite cristiani, perché recitate le preghiere che vi insegnarono i vostri parenti; perché andate alla messa e alla benedizione; perché infine vi confessate, vi comunicate e osservate tutte le altre pratiche del culto cattolico. Ma credete voi che questo basti per chiamarsi cristiani? Voi non potete crederlo, o amici lavoratori. Non potete crederlo, perché diversamente – se si dovesse ammettere che il cristianesimo consista nelle sole pratiche del culto cattolico – si dovrebbe arrivare alla strana, assurda, ridicola conclusione che i primi e più devoti seguaci di Cristo e lo stesso Cristo in persona non furono cristiani! I primi cristiani – Come furono perseguitati. Voi sapete, infatti, che quasi duemila anni or sono, quando Cristo cominciò a predicare la sua fede, non c’erano né curati, né parroci, né vescovi, né cardinali, né papi e neppure “chiese” nel senso che voi date a questa parola. Gesù – il figlio del povero falegname di Nazaret – andava per le vie e per le piazze a spiegare le sue dottrine. Voi sapete che egli era quasi solo contro tutti; che lo seguivano soltanto degli umili popolani: dei pescatori, degli artigiani, delle povere  donne e dei ragazzi; che i ricchi e i sacerdoti del suo paese, i farisei e gli scribi lo derisero dapprima come un matto e poi, quando videro che le sue idee si facevano strada, lo fecero arrestare come un perturbatore dell’ordine, come nemico della società e della religione: e – stoltamente iniqui, credendo di seppellire con lui il suo pensiero – lo trassero a morte, condannandolo al crudele e infamante supplizio della croce. Voi sapete che per trecento anni i suoi seguaci continuarono ad essere vittime delle più feroci persecuzioni. Considerati quali malfattori; odiati nei primi tempi anche dal popolo, che in generale era ancora troppo ignorante, superstizioso ed incivile per comprendere il loro ideale; lapidati, gettati in pasto alle fiere, uccisi a migliaia, essi dovevano nascondere la loro fede quasi fosse un delitto: e per trovarsi insieme qualche ora tra fratelli, lontani dai nemici, a parlare delle loro dolci speranze, dovevano cercar rifugio sotto terra, nel silenzio solenne delle catacombe. Voi sapete che finalmente, dopo tre secoli di lotta, al tempo dell’imperatore Costantino – quando il loro numero fu cresciuto al punto che ormai quasi tutto il popolo era con loro, e i potenti si accorsero che le persecuzioni erano inutili – le persecuzioni cessarono. E allora anche i ricchi, anche i re e gli imperatori e tutti vollero dirsi cristiani. E Cristo fu adorato come Dio. Gesù Cristo e le preghiere sorsero appunto allora le prime “chiese”, apparvero allora i primi preti, i quali poi andarono via via moltiplicandosi e introdussero l’uso della messa, della benedizione, della confessione e di tutte le altre cerimonie cattoliche, quali sono adesso. Ma Gesù e i suoi primi e grandi discepoli non praticarono nessuno di questi usi. Anzi (sta scritto nel Vangelo) Gesù chiamava ipocriti quei tali che al suo tempo “amavano di fare orazione, stando ritti in piè” – com’egli diceva – “nelle sinagoghe e ne’canti delle piazze, per essere veduti dagli uomini”. E insegnava che la sola cerimonia religiosa, la sola preghiera da farsi era il Pater noster, che ognuno doveva recitare solidariamente nella propria stanza. Ora: vorrete voi dire, amici miei, che Gesù Cristo non era cristiano? Vorrete voi dire che non erano cristiani quei generosi popolani, padri vostri, che con lui, sfidando le persecuzioni e il martirio, furono i veri fondatori del cristianesimo? Voi non direte certamente una simile assurdità. Il “regno di Dio” Ma allora perché furono cristiani quegli uomini, che pur non andavano a messa e non conobbero preti né chiese? In che consiste dunque veramente la dottrina di Cristo? Quali erano i principii che egli predicava e che suscitarono tanto rumore e tanta guerra intorno a lui e a’suoi seguaci? Eccoli qui, o lavoratori, i principii essenziali del cristianesimo, i principii che bisogna seguire se si vuole davvero essere cristiani. Gesù era profondamente convinto che gli uomini fossero tutti figli di uno stesso padre celeste: Dio; e Dio egli lo concepiva come un essere infinitamente giusto e buono. Ora, come mai – egli si domandava – come mai esistono nel mondo tante ingiustizie? Come mai gli uomini sono divisi in ricchi e poveri, in padroni e schiavi? Come mai vi sono gli Epuloni viventi nel lusso e i Lazzari tormentati dalla più crudele miseria? È possibile che Dio – il padre infinitamente giusto e buono – voglia queste inique disuguaglianze tra i figli suoi? No – egli pensava – evidentemente queste disuguaglianze derivano solo dall’ignoranza e dalla malvagità degli uomini. Dio non può volerle. Certamente, Dio le condanna. Certamente, Dio vuole che gli uomini vivano come fratelli – distribuendosi in pace e giustizia la ricchezza comune – e non già vivano come lupi in lotta l’uno contro l’altro, godendo gli uni della miseria degli altri. Dunque – diceva Gesù ai suoi compagni – noi dobbiamo far guerra a questo doloroso e brutto regno dell’ingiustizia in cui siamo nati; noi dobbiamo volere, fortemente volere il regno della giustizia, dell’uguaglianza, della fratellanza umana, perché questo è il regno che Dio vuole fra gli uomini; noi dobbiamo persuadere i nostri fratelli che esso è possibile e non è un sogno. Dobbiamo trasfondere in loro la nostra fede, e il “regno di Dio” si avvererà…. Questo, o lavoratori, questo era il pensiero, e questa fu la predicazione di Cristo. Un odio profondo per tutte le …

OGGI IN SPAGNA, DOMANI IN ITALIA

Carlo Rosselli: discorso pronunciato alla radio di Barcellona il 13 novembre 1936. Compagni, fratelli, italiani, ascoltate. Un volontario italiano vi parla dalla Radio di Barcellona per portarvi il saluto delle migliaia di antifascisti italiani esuli che si battono nelle file dell’armata rivoluzionaria. Una colonna italiana combatte da tre mesi sul fronte di Aragona. Undici morti, venti feriti, la stima dei compagni spagnuoli : ecco la testimonianza del suo sacrificio. Una seconda colonna italiana. formatasi in questi giorni, difende eroicamente Madrid. In tutti i reparti si trovano volontari italiani, uomini che avendo perduto la libertà nella propria terra, cominciano col riconquistarla in Ispagna, fucile alla mano. Giornalmente arrivano volontari italiani: dalla Francia, dal Belgio. dalla Svizzera, dalle lontane Americhe. Dovunque sono comunità italiane, si formano comitati per la Spagna proletaria. Anche dall’Italia oppressa partono volontari. Nelle nostre file contiamo a decine i compagni che, a prezzo di mille pericoli, hanno varcato clandestinamente la frontiera. Accanto ai veterani dell’antifascismo lottano i Giovanissimi che hanno abbandonato l’università, la fabbrica e perfino la caserma. Hanno disertato la Guerra borghese per partecipare alla guerra rivoluzionaria. Ascoltate, italiani. E’ un volontario italiano che vi parla dalla Radio di Barcellona. Un secolo fa, l’Italia schiava taceva e fremeva sotto il tallone dell’Austria, del Borbone, dei Savoia, dei preti. Ogni sforzo di liberazione veniva spietatamente represso. Coloro che non erano in prigione, venivano costretti all’esilio. Ma in esilio non rinunciarono alla lotta. Santarosa in Grecia, Garibaldi in America, Mazzini in Inghilterra, Pisacane in Francia, insieme a tanti altri, non potendo più lottare nel paese, lottarono per la libertà degli altri popoli, dimostrando al mondo che gli italiani erano degni di vivere liberi. Da quei sacrifici,da quegli esempi uscì consacrata la causa italiana. Gli italiani riacquistarono fiducia nelle loro forze. Oggi una nuova tirannia, assai più feroce ed umiliante dell’antica, ci opprime. Non è più lo straniero che domina. Siamo noi che ci siamo lasciati mettere il piede sul collo da una minoranza faziosa, che utilizzando tutte le forze del privilegio tiene in ceppi la classe lavoratrice ed il pensiero italiani. Ogni sforzo sembra vano contro la massiccia armata dittatoriale. Ma noi non perdiamo la fede. Sappiamo che le dittature passano e che i popoli restano. La Spagna ce ne fornisce la palpitante riprova. Nessuno parla più di de Rivera. Nessuna parlerà più domani di Mussolini. E’ come nel Risorgimento, nell’ epoca più buia, quando quasi nessuno osava sperare, dall’estero vennero l’esempio e l’incitamento, cosi oggi noi siamo convinti che da questo sforzo modesto, ma virile dei volontari italiani, troverà alimento domani una possente volontà di riscatto. E’ con questa speranza segreta che siamo accorsi in Ispagna. 0ggi qui, domani in Italia. Fratelli, compagni italiani, ascoltate. E’ un volontario italiano che vi parla dalla Radio di Barcellona. Non prestate fede alle notizie bugiarde della stampa fascista, che dipinge i rivoluzionari spagnuoli come orde di pazzi sanguinari alla vigilia della sconfitta. La rivoluzione in Ispagna è trionfante. Penetra ogni giorno di più nel profondo della vita del popolo rinnovando istituiti, raddrizzando secolari ingiustizie. Madrid non è caduta e non cadrà. Quando pareva in procinto di soccombere, una meravigliosa riscossa di popolo arginava l’invasione ed iniziava la controffensiva. Il motto della milizia rivoluzionaria che fino ad ora era “No pasaran” è diventato “Pasaremos“, cioè non i fascisti, ma noi, i rivoluzionari, passeremo. La Catalogna, Valencia, tutto il litorale mediterraneo, Bilbao e cento altre città, la zona più ricca, più evoluta e industriosa di Spagna sta solidamente in mano alle forze rivoluzionarie. Un ordine nuovo è nato, basato sulla libertà e la giustizia sociale. Nelle officine non comanda più il padrone, ma la collettività, attraverso consigli di fabbrica e sindacati. Sui campi non trovate più il salariato costretto ad un estenuante lavoro nell’interesse altrui. Il contadino è padrone della terra che lavora, sotto il controllo dei municipii. Negli uffici,gli impiegati, i tecnici, non obbediscono più a una gerarchia di figli di papà, ma ad una nuova gerarchia fondata sulla capacità e la libera scelta. Obbediscono, o meglio collaborano, perché‚ nella Spagna rivoluzionaria, e soprattutto nella Catalogna libertaria, le più audaci conquiste sociali si fanno rispettando la personalità dell’uomo e l’autonomia dei gruppi umani. Comunismo, si, ma libertario. Socializzazione delle grandi industrie e del grande commercio, ma non statolatria: la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio è concepita come mezzo per liberare l’uomo da tutte le schiavitù. L’esperienza in corso in Ispagna è di straordinario interesse per tutti. Qui, non dittatura, non economia da caserma, non rinnegamento dei valori culturali dell’Occidente, ma conciliazione delle più ardite riforme sociali con la libertà. Non un solo partito che, pretendendosi infallibile, sequestra la rivoluzione su un programma concreto e realista: anarchici, comunisti, socialisti, repubblicani collaborano alla direzione della cosa pubblica, al fronte, nella vita sociale. Quale insegnamento per noi italiani! Fratelli, compagni italiani, ascoltate. Un volontario italiano vi parla dalla Radio di Barcellona per recarvi il saluto dei volontari italiani. Sull’altra sponda del Mediterraneo un mondo nuovo sta nascendo. E’ la riscossa antifascista che si inizia in Occidente. Dalla Spagna guadagnerà l’Europa. Arriverà innanzi tutto in Italia, cosi vicina alla Spagna per lingua, tradizioni, clima, costumi e tiranni. Arriverà perchè la storia non si ferma, il progresso continua, le dittature sono delle parentesi nella vita dei popoli, quasi una sferza per imporre loro, dopo un periodo d’ inerzia e di abbandono, di riprendere in in mano il loro destino. Fratelli italiani che vivete nella prigione fascista, io vorrei che voi poteste, per un attimo almeno, tuffarvi nell’ atmosfera inebriante in cui vive da mesi,nonostante tutte le difficoltà, questo popolo meraviglioso. Vorrei che poteste andare nelle officine per vedere con quale entusiasmo si produce per i compagni combattenti;vorrei che poteste percorrere le campagne e leggere sul viso dei contadini la fierezza di questa dignità nuova e soprattutto percorrere il fronte e parlare con i militi volontari. Il fascismo,non potendosi fidare dei soldati che passano in blocco alle nostre file, deve ricorrere ai mercenarii di tutti i colori. Invece, le caserme proletarie brulicano di una …

“IL SACRIFICIO E’ COMPIUTO. LA VECCHIA CASA S’E’ DIVISA”

da una raccolta di Domenico Argondizzo Sul numero della «Critica sociale» del 16-31 ottobre 1922 apparve il seguente articolo di Claudio Treves Il sacrificio è compiuto. La vecchia casa s’è divisa. Forse era giusto, anche se il partire fu doloroso; la vecchia casa non conteneva più i suoi figlioli che erano cresciuti di troppo e non più si intendevano. Non rammarichiamo; non accusiamo. Non cerchiamo quanto sia stato amaro ed improvvido scegliere proprio codesto tempo, che i nemici sono più accaniti sopra di noi, per dare loro la gioia incomposta di questo trionfo – la nostra divisione -. Constatiamo – senza ombra di rimprovero – l’inesorabile mandato e la fredda decisione nel compirlo, onde una frazione alle dirette dipendenze di Mosca impose il fatto che si è compiuto, e in quel fatto creò a sé una supremazia aspra ed orgogliosa sopra il partito che obbedì, ed, obbedendo, l’ex partito si riorganizzò tosto in forme e spiriti dittatori, con minimi riguardi alla propria maggioranza. Notiamo soltanto che, così come avvenne, la divisione fu sufficientemente a sinistra per dimostrare come, anziché di una nuova divisione, si tratti di una rettifica complementare della divisione di Livorno. I comunisti coi comunisti; i socialisti coi socialisti. Il taglio lascia da una parte il programma socialista del congresso fondatore di Genova (1892) e dall’altra le sovrapposizioni comuniste di Bologna, preludio della costituzione del partito comunista. Se la divisione ci ha indeboliti, nessun dubbio però che abbia portato tra noi della chiarezza. Il manifesto del nostro partito – il partito socialista italiano unitario – illustra ampiamente il fondo del contrasto, l’antagonismo fra il metodo democratico del socialismo e il metodo dittatorio del comunismo. Il comunismo ama rappresentarsi a sé stesso come un esercito in marcia verso una battaglia definitiva ed assume spiriti e disciplina di guerra. Ma se, come ammettono tanti comunisti, spezzato all’urto della realtà il sogno rivoluzionario che scaldò le menti dell’immediato dopoguerra, il partito comunista rientra nel compito di una propaganda di reclutamento da valere a scadenza non prossima (si ricordi la lavata di capo di Lenin al giovine Bordiga per il soverchio zelo a sdemocratizzarsi, a contare soltanto sulle aristocratiche avanguardie della rivoluzione!), come il partito comunista adatterà alle forme compressive della dittatura la sua normale attività, che abbraccerà certamente parecchi anni prima di quel cozzo, in vista del quale esclusivamente si è venuto ordinando? Quanto a noi, socialisti, che riprendiamo, dopo le fluttuazioni socialcomuniste, la via maestra del socialismo per continuare la politica di progressiva ascensione del proletariato attraverso la propaganda, l’organizzazione, l’educazione – politica, sindacale, cooperativa, intellettuale e morale – della classe lavoratrice, i metodi gerarchici ed assolutisti del militarismo, rivoluzionario quanto si vuole, ci sono affatto estranei, perché diametralmente opposti al fine che noi ci proponiamo. Noi abbiamo bisogno di libertà di movimento, di agnosticismo tattico e di autonomia di direzione conforme alle circostanze nostre ed ai bisogni del nostro proletariato in confronto dei nostri partiti borghesi. Noi non possiamo delegare la nostra coscienza, che è fatta del senso delle nostre responsabilità, ad altri, per quanto illustri e benemeriti della rivoluzione, ma da noi distanti e con interessi particolari importantissimi che essi debbono mandare innanzi ad ogni considerazione degli interessi dei singoli aggruppamenti nazionali del proletariato. Messa la scissione su tal terreno, non esitiamo a riconoscere che essa fosse, più che benefica, necessaria. Ma appunto noi credevamo tal terreno superato, noi avevamo il diritto di credere, che a Livorno fosse stata detta al riguardo l’ultima parola. Allora il contrasto era pure stato esplicito: le 21 tesi e l’obbedienza assoluta come condizione per l’adesione alla terza internazionale – da una parte -, e dall’altra il diritto di interpretazione libera e di adattamento nazionale di quelle tesi, di cui alcune – l’alleanza coi nazionalismi rivoluzionari e l’ammissibilità dei massoni nel partito – erano da noi categoricamente rifiutate. La questione della espulsione dei destri, così tenacemente richiesta da Mosca e con tanto vigore diniegata allora dal Serrati e dalla maggioranza del congresso, aveva questo chiarissimo significato: non già un tenero omaggio sentimentale a fratelli traviati di cui si sperava il ravvedimento – questa è la tesi barocca, senza gusto e senza costrutto, escogitata dal Serrati ora al congresso di Roma, tanto per darsi un contegno -, ma la convinzione comune che i destri, per la loro condizione spirituale, rappresentavano più energicamente e più spregiudicatamente quegli adattamenti liberi e localisti delle tesi di Mosca, che erano nel cuore della grande maggioranza dei socialisti italiani, anche massimalisti. Occorre ricordare che Livorno salutò il distacco dai comunisti, idest da Mosca, come una liberazione, accompagnandola con gesti persin salaci, che non lasciavano dubbio sullo spirito di indipendenza antimoscovita ed antiterzointernazionale del partito. Correlativamente, le morte direzioni uscite dai congressi di Livorno e di Milano, sia pure in modo saltuario, pigro e incoerente come era proprio della loro natura, si volsero a riallacciare i rapporti internazionali del partito per altre vie che non quella di Mosca, come fu manifesto ai convegni di Francoforte e di Berlino, i cui risultati furono vantati come uno sforzo promettitore di un gagliardo fronte unico internazionale di tutti i partiti socialisti, non esclusi nemmeno quelli aderenti alla seconda internazionale. Pertanto il brusco mutamento di fronte dei massimalisti, condotti dal Serrati e dalla ex direzione del partito, non altrimenti si spiega che come un ritorno, una involuzione, una dedizione, un passaggio, armi e bagagli, al comunismo ripudiato a Livorno.[1] Ciò osserviamo, come detto, senza alcuna intenzione di accusa o di rampogna, ma soltanto per confermare che a Roma fu una scissione e non una espulsione, che quelli ligi ai princìpi ed alla tradizione socialista siamo stati noi, i destri unitari. Le pretese «deviazioni collaborazioniste» nostre non furono mai deviazioni dallo spirito metodico del socialismo, ma dallo spirito metodico del comunismo. Ci hanno «espulso» come «traditori» di un programma e di un metodo che non fu mai quello del nostro partito, ma di un altro partito che ha la sua costituzione autonoma. E la riprova solenne, se mai fosse stata necessaria, di tale fatto …

STRUTTURA E COMPOSIZIONE SOCIALE DEL PSI PRIMA DEL FASCISMO

Alle origini del partito c’era stata una precisa corrispondenza tra la struttura, organizzatasi pressoché spontaneamente, e l’assunto ideologico marxista, nella versione evoluzionistica offerta dal gruppo della Critica Sociale. Secondo tale assunto, l’emancipazione del proletariato doveva organizzare lo strumento della sua emancipazione, il partito, come emancipazione di se medesimo, cioè come organizzazione specifica dei propri interessi sociali, senza commistioni con altre classi. Il partito doveva nascere (e così nacque) come organizzazione della classe operaia. In linea teorica, il Partito operaio, “esclusivista“, come fu anche definito, rappresentava il modello puro, perfetto del partito di classe. La sua “esclusività” recava in sé, tuttavia, una tendenza di natura corporativa, sostanzialmente isolazionistica e prepolitica che alla lunga non era sostenibile, soprattutto rispetto ai nuovi problemi, ed alle nuove possibilità, insorgenti dallo svilupparsi dalle istituzioni della democrazia rappresentativa. Di conseguenza, il partito fu composto non più esclusivamente dagli operai o, meglio, dalle associazioni sociali della classe lavoratrice, ma, successivamente, anche da quegli intellettuali che, da singoli o in gruppo, avevano preso la decisione di sostenere ideologicamente e politicamente il socialismo. La logica conseguenza di tutto ciò fu la trasformazione del Partito operaio in Partito dei lavoratori (1892) e poi in Partito socialista italiano (1894). Un impulso decisivo a questo processo era derivato dall’occasione offerta al sorgente partito di classe dalle competizioni elettorali. Il Partito operaio già all’inizio del decennio che va dal 1880 al 1890 aveva colto al balzo questa occasione, decidendo di avvalersi del diritto di voto per rappresentare direttamente i propri interessi e le proprie istanze politiche, senza delegarle ad altre formazioni, rappresentative di altri interessi sociali. Accadeva così in Italia quanto era già avvenuto in larga misura da altre parti dell’Europa. Lo stesso Engels aveva osservato, nella prefazione all’edizione italiana della sua opera La lotta di classe in Francia, che laddove, come in Germania, s’era offerta questa possibilità di usufruire del diritto di voto, il movimento dei lavoratori non s’era lasciato pregare due volte, ed aveva immediatamente operato una scelta favorevole alla partecipazione alle competizioni elettorali. Una scelta di questa natura comportava due ordini di conseguenze. Innanzitutto, infatti, determinava necessariamente una separazione netta, in forme più o meno traumatiche, a seconda delle circostanze, con le posizioni anarchiche e rivoluzionarie. In secondo luogo, determinava, più o meno consapevolmente, una scelta definitiva a favore dell’assunzione di un modello di partito, che era quello del partito di massa: quel tipo di partito che dal punto di vista sociologico e dal punto di vista storico-politico era destinato ad essere il soggetto nuovo dello scenario politico dell’Europa, e non soltanto di essa. Il modello del partito di massa si contrapponeva a quello del partito elitario ad esso preesistente, formazione politica tipica della classe borghese, e del ceto politico da essa derivante. Il partito elitario, borghese, era sorto in funzione degli interessi elettorali di un ceto ristretto: era circoscritto sostanzialmente a quella minoranza sociale che per censo o per cultura aveva diritto al voto; e si organizzava in strutture dalla vita più o meno effimera ed episodica, cioè circoli, “caucus“, club. A questi potevano aggiungersi, come strumenti anch’essi di azione politica, oltre che di elaborazione culturale e di propaganda, i giornali e le riviste. Inoltre, avevano acquistato una soggettività politica anche i gruppi parlamentari che raccoglievano o coordinavano gli eletti. Queste strutture politiche erano filiazioni delle istituzioni rappresentative, e nascevano come organizzazioni ristrette, composte generalmente dagli eletti e dai loro elettori, la maggior parte dei quali di ceto borghese. Erano, i partiti elitari, i padri e i figli insieme delle rivoluzioni borghesi del XVII secolo in Gran Bretagna e del XVIII secolo in Francia e in America. Il partito di massa che sorge, come espressione soprattutto della classe operaia, era figlio invece della Rivoluzione industriale, ed era composto sostanzialmente da chi non aveva diritto al voto e reclamava per ottenerlo; ed avendolo, lo usava per eleggere i propri rappresentanti in quelle istituzioni rappresentative, parlamentari o comunali, dalle quali erano in precedenza esclusi. Si trattava originariamente di partiti “extraistituzionali“, perché sorti fuori del ceto sociale che egemonizzava le istituzioni rappresentative: in esso si manifestarono due tendenze opposte che dovevano, alla fine, divaricarsi e separarsi traumaticamente. Una tendenza che accettava questa situazione di extraistituzionalità, scegliendo una strada antilegalitaria, e rifiutando di reclamare un allargamento della rappresentanza istituzionale alle classi che ne erano escluse; ed una tendenza che si rivolse a rivendicare il diritto delle masse a partecipare alla vita delle istituzioni, ad usufruire cioè delle armi della legalità per acquisire quelle rappresentanze istituzionali che erano fino allora negate. E a tal fine giunse ad organizzarsi, in modo spontaneo, quale struttura prima sindacale-politica, e successivamente come partito politico di massa, attraverso lo strumento dell’associazionismo spontaneo. In tal modo fu questa seconda tendenza, legalitaria ed evoluzionista, a dar corpo, concretamente, a quel modello di partito che rinnovò profondamente – sia dal punto di vista sociologico, sia dal punto di vista storico-politico – la tipologia tradizionale del partito politico elitario e borghese, introducendo il modello del moderno partito popolare di massa, con una sua organizzazione permanente, una sua propaganda continua, con suoi militanti e dirigenti organicamente dediti all’azione politica del partito. All’opposto, la tendenza extralegale, anarchica prima, e poi definita rivoluzionaria, finì per ripiegare su un tipo di organizzazione ristretta ed elitaria, modellata secondo criteri cospirativi e militari, o paramilitari, che non si distaccava sostanzialmente da tipi analoghi, conosciuti nel passato, di partiti rivoluzionari, con l’unica innovazione – introdotta successivamente dal leninismo, o, comunque, da questo teorizzata – della figura dei “rivoluzionari di professione“: figura analizzata lucidamente in un suo fondamentale studio da Luciano Pellicani. Si può affermare, dunque, che, sotto il profilo della struttura, sia stata la tendenza legalitaria a produrre nelle società occidentali un modello di organizzazione politica realmente “rivoluzionario” rispetto al passato, cioè rispetto ai soggetti politici tradizionali dei partiti elitari e borghesi. Mentre, sotto questo profilo, la tendenza “rivoluzionaria” e stata tutt’altro che innovatrice, o, almeno, non lo è stata in misura analoga. Comunque, nel corso di circa centocinquant’anni, il soggetto politico nuovo che ha dominato lo scenario europeo …

IL LIBRO DI GIULIANO SUL SOCIALISMO

Il libro di Roberto Giuliano nasce da una ricerca operata tramite Facebook, nella quale si chiede ai propri amici cosa intendono o cosa evoca loro la parola socialismo. Dalle risposte avute (97) si analizza il contenuto delle varie riflessioni cercando di valutarne il senso in chiave politica e anche psicologica. “Questo mi ha permesso – spiega l’autore – di fare una analisi di ampio respiro su cos’è il socialismo in chiave storica e sociologica nelle aspettative profonde delle persone. La stessa parola ha sempre sottinteso concetti e valori a volte in profonda antitesi. Certamente l’aspetto più complesso è la visione ideologica del termine socialista, che determina aspettative messianiche se non religiose; si è cercato di posizionare il socialismo all’interno di una visione valoriale, alternativa all’ideologia. Il socialismo liberale è quello che viene proposto come idea-guida di un socialismo per il terzo millennio. Nel libro viene allegata una breve sintesi dei movimenti politici e dei personaggi più significativi della storia del movimento socialista e operaio, allo scopo di dare degli spunti a chi, giovane, si vuole avvicinare alla problematica ideale del socialismo. Per alcuni aspetti vuole essere un tentativo, non so se riuscito, di rilanciare verso le nuove generazioni una idea vecchia e giovane, che è il socialismo riformista; inoltre la possibilità che anche in Italia si crei un movimento socialista liberale e libertario. Lo stesso titolo vuole essere una sana provocazione a quelle visioni apocalittiche e totalitarie che vivono l’impegno politico come sofferenza e dolore. La vita è un inno alla gioia anche se non ne conosciamo il senso, la gioia e l’allegria che non escludono il senso di responsabilità e di dovere verso sé e i propri simili. Così lottare per il benessere è fatto certamente di rinunce – conclude Roberto Giuliano – rischi e sconfitte ma sono accompagnate dall’ottimismo di operare, dando un senso alla nostra vita, anche nei confronti di coloro che democraticamente sono contrari alla nostra idea”. La prefazione è di Gianni De Michelis e l’introduzione di Duccio Trombadori inoltre ci sono allegate due interviste: una ad un ex segretario della Uil Confederale e l’altra al presidente dell’Unione Coltivatori Italiani. Questo perché ritengo che non possa esistere un movimento socialista che, nonostante l’evoluzione della società, non interloquisca con il mondo del lavoro sia industriale, impiegatizio che contadino. Fonte: opinione.it SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL FASCISMO TRA SIGNIFICANTE E SIGNIFICATO

di Carlo Felici In alcune riviste e giornali italiani, oggi, è di gran voga agitare il pericolo neofascista, primi tra tutti alcuni “liberal” molto noti, con inchieste varie, in particolare sul mondo più o meno torbido che fa da sfondo a quella che è oggi la cosiddetta galassia neofascista. Galassia che, già di per sé, contraddice la natura stessa di un movimento che possa essere autenticamente fascista, la cui identità ed azione, almeno storicamente, è stata sempre unitaria e compatta, oltre che nella sua struttura organizzativa che ha sempre e immancabilmente ruotato intorno al suo Duce e fondatore: Benito Mussolini, il quale, evidentemente, non è interpretabile in un modo o in un altro, ma è semplicemente studiabile nella sua biografia e nel suo percorso storico, esauritosi nel 1945. Se il Fascismo, in senso sincronico, fu e resta legato a Mussolini, esso, in senso diacronico, non ebbe, nonostante la continuità della guida che su di esso esercitò il suo Duce, la stessa fisionomia, anche perché non fu mai legato ad una cultura politica in senso stretto né ad una ideologia. Le fasi in cui si sviluppò, mutando prospettive ed aspetto, ma sempre con lo stesso intento di conquistare e gestire il potere, fino al punto da identificare lo Stato con se stesso, furono varie, ricordiamo, a grandi linee le principali: il Sansepolcrismo, fase rivoluzionaria e libertaria, utile soprattutto per carpire consensi nel biennio rosso, squadrismo, da usare come arma nel perpetrarsi del bellicismo violento ed omicida contro le opposizioni della sinistra di allora, il regime, con fisionomia spiccatamente mussolinista, prima del 1924 con una parvenza di facciata democratica, e dall’assassinio di Matteotti, come sfacciata dittatura, e infine l’epilogo tragico e farsesco repubblichino, con un tentativo fuori tempo massimo di tornare agli assunti originari, senza seguito e con una identità sottomessa all’occupante tedesco. In tutte queste fasi, il fascismo fu tenuto unito e in piedi solo ed esclusivamente dal suo Duce: Benito Mussolini. Tutto ciò che è accaduto dopo la sua morte, in riferimento al fascismo o ai suoi simboli, non ha mai più corrisposto alla sua natura che era appunto quella di realizzare una corrispondenza assoluta di identità, tra Stato, popolo e fascismo stesso. Gran parte del popolo italiano si adattò al fascismo, finendo per considerarlo un elemento stabilizzante, la classe politica liberale lo sostenne apertamente, perché lo riteneva un suo strumento per eliminare pericoli più gravi come il bolscevismo, lo stesso Mussolini contava, durante i 20 anni del suo regime, più sulla sua “maggioranza silenziosa” di “afascisti” che sui suoi camerati militanti, sempre pronti a rinfacciargli una rivoluzione mancata con l’assenso del Re e con gli accordi con il Vaticano. E fu proprio l’avere “mancato la rivoluzione” riducendola ad un orpello retorico, che finì per portare il Fascismo al suo suicidio, il 25 luglio del 1943. I fenomeni neofascisti del dopoguerra sono stati sempre dei fenomeni risibili, e persino contraddittori, rispetto a questa “rivoluzione mancata”, nessuno di essi, infatti, concretamente ha mai cercato di minacciare lo Stato, fino a cercare di conquistare il potere per trasformarne radicalmente la fisionomia. Anche gli episodi apparentemente più eversivi, come le bombe o i tentati golpe, vanno infatti inquadrati in una strategia strumentale di un neofascismo non più autonomo, ma eterodiretto per scopi geostrategici o stabilizzanti. Tutta la storia del neofascismo del dopoguerra resta infatti indissolubile rispetto all’atlantismo anticomunista e alla stabilizzazione di un “regime democratico“, cioè di un ossimoro politico, in cui la democrazia dell’alternanza era negata in partenza e con cui si poteva persino fare anche quello che il Fascismo non fece mai, come mandare la cavalleria in piazza a spianare il dissenso. Dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine del potere bolscevico, la cosiddetta galassia neofascista si è frantumata ancora di più, con una sorta di polverizzazione politica, il cui unico collante è la manifestazione di gesti esteriori, di azioni, di proclami che riprendono la retorica del fascismo storico, senza potersi identificare con esso per motivi giudiziari. E soprattutto con una sorta di implosione dovuta all’esasperarsi della competitività interna ai vari gruppi neofascisti, ognuno legato più al suo “ducetto”, che ad una precisa strategia politica unitaria. Niente di nuovo rispetto ad un panorama politico italiano in cui i vari capi e capetti di partito hanno assomigliato sempre più a piccoli capitani di ventura piuttosto che a veri e propri Cesari. Oggi la globalizzazione e la crisi economica sembrano amplificare l’azione e la risonanza di questi gruppi, anche se in realtà la loro incidenza nell’opinione pubblica, nonostante il loro agitarsi mediatico e coreografico, resta alquanto limitata. Il malessere profondo su cui essi fanno leva però esiste e tende ad espandersi, anche perché chi in questo periodo avrebbe dovuto interpretarlo e guidarlo con precise strategie politiche di alternativa ai modelli dominanti e di lotta alle disuguaglianze e all’impoverimento, è stato del tutto latitante. La sinistra si è adattata a svolgere un ruolo collateralista, consociativo e del tutto subalterno alle logiche imposte dal capitale speculativo in ambito continentale europeo. Tanto che oggi solo alcuni suoi gruppi ed esponenti, ancora alquanto minoritari, sono arrivati solo da poco a capire che se non si aggredisce il male endemicamente presente all’origine nella stessa struttura e nei trattati della UE, il regime della dittatura finanziaria tenderà sempre di più a svuotare non solo ogni forma di reattività politica nazionale, ma soprattutto le regole costituzionali su cui ciascuno Stato in Europa si fonda. Prova ne é il recente referendum costituzionale del 4 dicembre che ha visto uno straordinario paradosso politico, anche se potenziato dalla protesta verso un Presidente del Consiglio sempre più impopolare, ed è il fatto che un partito autodefinitosi democratico, tendeva a ridurre la sovranità popolare azzerando, di fatto, quella di un ramo del parlamento, chiedendo il SI alla sua controriforma, mentre la cosiddetta destra e anche gruppi di estrema destra ed estrema sinistra si sono schierati apertamente per il NO, e per la tutela della democrazia parlamentare e costituzionale legata alla sovranità popolare. Estremisti che difendono la democrazia? Suona un po’ strano..ma è …

ALCUNI SPUNTI DELL’ATTIVITA’ PARLAMENTARE DI GIACOMO MATTEOTTI

di Domenico Argondizzo Gli strumenti della politica – regolamenti parlamentari Il 26 luglio 1920, nella prima tornata della Camera dei deputati, si svolse il seguito della discussione sulle modificazioni al Regolamento. Venne in discussione un articolo aggiuntivo Pio Donati – Matteotti: “Quando cinque commissioni permanenti lo deliberino a maggioranza assoluta con l’intervento di almeno la metà dei rispettivi iscritti, o quando ne facciano richiesta collettiva due quinti almeno di commissari complessivamente appartenenti alle varie commissioni, la Presidenza della Camera dovrà convocare la Camera (non oltre il quindicesimo giorno dalla richiesta, o dalla comunicazione dei deliberati) per la discussione delle materie indicate nelle deliberazioni o nelle richieste di cui sopra”. Matteotti: «Comincio dal rilievo aritmetico dell’onorevole Tovini. Esso non ha ragione d’essere, perché i commissari non sono deputati come gli altri, ma rappresentano un ufficio di 20 deputati, di guisa che quando si dice che 10 commissari deliberano, bisogna moltiplicare 10 per 20. Quanto alla questione statutaria, alla quale si riferiscono le osservazioni della Giunta, bisogna considerare due aspetti, quello positivo e quello negativo. La nostra proposta viola o modifica le disposizioni statutarie? O invece essa non viene forse ad integrare disposizioni statutarie? Nessun articolo dello Statuto è violato. Gli articoli dello Statuto che hanno attinenza con la questione concernono le prerogative del Potere esecutivo. Ora queste prerogative non sono violate. Nulla è tolto al Potere esecutivo, al quale rimane la facoltà di convocare, prorogare e sciogliere la Camera. Né si viola la prerogativa del Senato, perché si tratta di sedute della Camera e non di sessioni: la Camera può sedere mentre il Senato non siede, purché sia contemporanea la sessione. Anche sotto questo aspetto dunque non si viola alcuna disposizione statutaria. Invece credo che la nostra proposta venga ad integrare le facoltà assegnate dallo Statuto alla Camera. Lo Statuto parla d’iniziativa della Camera per la proposizione delle leggi, la messa in stato d’accusa dei ministri, ecc.. Ora l’iniziativa delle leggi viene proprio dalle commissioni permanenti. Che cosa avverrebbe se le commissioni che propongono le leggi non potessero far sì che queste venissero immediatamente discusse, sol perché il Governo tiene a casa la Camera? Inoltre la Camera ha facoltà di aggiornarsi, e quindi la stessa modificazione del regolamento non viene a dare che una configurazione più speciale a questa facoltà di iniziativa della Camera. In questo momento in cui si svolgono avvenimenti nazionali e internazionali per i quali vi è bisogno che la Camera funzioni almeno in potenza, dopo che si è deplorato che si siano verificati avvenimenti senza l’assistenza e il parere della Camera, non dubito che la maggioranza voterà questo articolo aggiuntivo, perché mi pare che esso venga veramente a rendere effettiva la funzione ed il diritto della Camera ed a sancire nel regolamento ciò che lo Statuto consente o almeno non proibisce, senza toccare neppure i privilegi del Senato e del Potere esecutivo». Il Governo, attraverso il sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri Porzio, dichiarò trattarsi di questioni devolute esclusivamente alla volontà ed al valutazione dell’Assemblea, e che per ciò non aveva alcuna dichiarazione da fare ma si affidava alla Camera. Nella seconda tornata della Camera dei deputati del 6 agosto 1920, vennero discusse le proposte della Giunta del regolamento, relative all’autoconvocazione delle commissioni permanenti e della Camera. L’art. 10 riguardava più specificamente la convocazione dell’Aula attraverso la richiesta congiunta di cinque commissioni permanenti. Giolitti: «Parlo non come Presidente del Consiglio, perché in materia di regolamento della Camera, è la Camera che delibera, ma come semplice deputato. Credo che occorra riflettere molto prima di capovolgere il sistema parlamentare[1]. Ora il sistema parlamentare è di deliberazioni a maggioranza; e noi qui veniamo a capovolgerlo stabilendo che una minoranza ordini alla maggioranza ciò che essa crede di sua convenienza (Commenti). È la verità! Ripeto: questa è la mia opinione personale come deputato, non come Presidente del Consiglio; ma credo che occorra andare molto adagio prima di trasformare sostanzialmente, profondamente, gli ordinamenti parlamentari (Approvazioni – Commenti all’estrema sinistra)». Modigliani: «Evidentemente io non posso svestirmi talmente delle mie opinioni personali da rispondere sulle proposte che sono state formulate. Alcune di queste sono le stesse precise proposte che non ho avuto la fortuna di vedere approvate dalla Giunta del regolamento; e mi vedo quindi costretto a pregare alcuno degli altri colleghi della Giunta a rispondere ai loro proponenti[2]. Profitto però del diritto di parlare per far osservare all’onorevole Giolitti che la questione è stata posta da lui, me lo consenta, in modo non perfettamente esatto. Non si tratta di consentire a una minoranza il diritto di sovrapporsi alla maggioranza; si tratta di consentire alla minoranza il diritto di far sentire la propria opinione e di sottoporla alla decisione della maggioranza, ogni qualvolta questa minoranza sia tanto notevole da doverle riconoscere questo diritto: potendosi presumere, dato il numero dei richiedenti la convocazione, che ci sia qualcosa che merita di essere sentita. Non si capovolge dunque l’Istituto parlamentare: lo si rende efficiente in tutti i casi nei quali questa sua efficienza appare doverosa e necessaria allo stesso corretto funzionamento dell’Istituto parlamentare (Approvazioni all’estrema sinistra – Commenti)». Giolitti: «Mi permetta, onorevole Modigliani, di osservare che se la maggioranza ha deliberato di riunirsi in un dato giorno e la minoranza invece le impone di convocarsi in un tempo diverso, si ha una sovrapposizione all’ordine dato dalla maggioranza [Modigliani: «Ma bisogna che fatti nuovi siano intervenuti!»]. Aggiungo che quando la minoranza esprime un desiderio che non trova consenziente la maggioranza dei deputati, vuol dire che la convocazione non è voluta dalla maggioranza. La maggioranza della Camera, senza aspettare il beneplacito del Governo, ha il diritto di convocarsi, ma delibera come maggioranza e non come minoranza. La revoca, da parte della minoranza, dell’ordine dato dalla maggioranza, obbliga quest’ultima a convocarsi quando invece non voleva riunirsi». Matteotti: «La nostra[3] domanda di convocazione richiede la firma di 200 deputati: è una cifra rilevante, ed impedisce che un solo gruppo possa chiedere la convocazione della Camera, ma esige invece che su questa richiesta convengano le volontà di un …

SU ALCUNE RAGIONI DEL SOCIALISMO

di Domenico Argondizzo L’antefatto della vicenda costituente, compiutasi nel 1946-1948, è nella grande occasione mancata dell’inizio degli anni Venti: essa fu caratterizzata da un lato dall’affermazione piena dei poteri del Parlamento (con il connesso ruolo di impulso del socialismo riformista), dall’altro lato dall’avvento del fascismo. Quando le oligarchie compresero che l’evoluzione (innescata dal suffragio universale maschile e dalla proporzionale) del sistema liberale verso una compiuta democrazia parlamentare fosse incompatibile con il perpetuare una gestione proprietaria della cosa pubblica, e come fosse oramai precluso il ritorno al sistema politico censitario, decisero di non ostacolare, ma anzi appoggiare e finanziare, un gruppo di eversori del sistema legale. Scardinare la cornice dello stato liberale, allo scopo di garantirsi una forma di controllo sulla popolazione, facendo un uso opportunistico della minaccia massimalista-comunista (con i suoi strombazzati espropri) per tutelare non semplicemente le loro sostanze, bensì le fonti stesse dell’ineguaglianza. Le oligarchie avevano la consapevolezza che, in una liberaldemocrazia (con una politica a volte conservatrice, a volte di riformismo socialdemocratico), non vi sarebbero stati margini per il mantenimento del loro privilegio; ovvero, che tale tutela sarebbe stata di gran lunga più faticosa, macchinosa e dispendiosa di risorse (come la prassi delle avanzate democrazie contemporanee dimostra). Infatti, in una organizzazione della comunità politica basata sulla rappresentanza degli interessi (riuniti insieme dalle diverse ideologie politiche), ed in cui la decisione spetta alla maggioranza numerica, sarebbe stato arduo elaborare una ideologia che convincesse i più a fare (anche inconsapevolmente), senza coercizione fisica o morale (caratteristiche dei millenni passati), gli interessi dei pochi detentori della ricchezza. Tanto più arduo in quanto tale ideologia avrebbe dovuto porsi in opposizione diretta al messaggio del socialismo riformista: allargamento della partecipazione politica al fine di (e per mezzo di) una migliore qualità della vita e del lavoro. Il frastagliato avvicinamento del socialismo riformista al governo democratico, testimoniato dai fatti parlamentari e politici, non si compiva in ritardo sulle lancette della storia, cioè troppo a ridosso dal colpo di stato fascista, ma era l’ultima e decisiva spinta per il processo di reazione che si era innescato anni prima, in risposta a quell’avvicinamento. Nel biennio 1920-1922, la Camera dei deputati conquistava il potere di decidere sulla sua riconvocazione, e l’organizzazione dell’attività legislativa attraverso commissioni permanenti, importando tali istituti dal coevo ordinamento francese[1]. Fino ad allora, la forma di governo del Regno d’Italia si era sviluppata secondo una prassi che l’aveva apparentemente spostata, da quella costituzionale pura[2] (nella quale il Governo doveva godere della fiducia del Re e di lui solo, ed il Parlamento non aveva alcuna voce in capitolo sulla vita del Ministero), ad una forma che parodiava quella di gabinetto britannica[3]. Ma la vera cesura ancora non era avvenuta: fino a tutta la prima guerra mondiale, la sostanza del potere era nelle mani del solo Re e dei pochi uomini che godevano della sua fiducia. La dimostrazione più evidente della soggezione della Camera elettiva (e quindi del Parlamento), più che nella maniera regia di gestire le crisi di governo e/o del paese, si ha se si pone la lente d’ingrandimento sulla sua stessa vita. Il Re poteva chiudere e/o tenere chiusa la Camera a proprio piacimento, con i diversi istituti dello scioglimento, della chiusura o proroga della sessione parlamentare, e dell’aggiornamento dei lavori. La spia del cambiamento fu l’abbandono del sistema di organizzazione per uffici, in cui fino ad allora lavorava la Camera: una democrazia ristretta e censitaria, con una sostanziale omogeneità politica dovuta all’omogeneità della classe economica che aveva accesso alla rappresentanza, cedeva così il campo al sistema delle commissioni permanenti, che presuppone una democrazia fondata sui partiti politici e su di un sistema costituzionale in cui si garantisce la potenziale partecipazione all’indirizzo politico a tutta la popolazione. L’istituzione delle commissioni era infatti conseguente al completo allargamento del suffragio, limitatamente al genere maschile, avvenuto nel 1913, con il suo successivo perfezionamento (anche con il passaggio al sistema proporzionale) nel 1919. Tale evoluzione elettorale ed acquisizione di maggiori prerogative e funzioni da parte della Camera dei deputati[4] avvenne per opera – in via di assoluto protagonismo – di alcuni esponenti socialisti riformisti[5] del gruppo parlamentare socialista. Infatti, dagli interventi (alla Camera ovvero sulla stampa[6]) di Filippo Turati, Giuseppe Emanuele Modigliani, Giacomo Matteotti, si irradia una luce chiarificatrice sui fatti normativo-regolamentari suddetti, e contemporaneamente si ottiene una visione complessiva del concreto funzionamento dell’allora sistema politico costituzionale, nonché della funzione svolta da quella corrente politica e del pensiero politico. La corrente socialista riformista diede un decisivo apporto, in generale, alla trasformazione dell’organizzazione interna e del funzionamento legislativo della Camera dei deputati, perciò alla sua capacità di incidere anche sull’indirizzo politico generale (salvi sempre i colpi di mano del Governo del Re), e quindi al tentativo di rendere la forma di governo realmente parlamentare. Proprio quando il socialismo riformista era davvero pronto a partecipare al governo statutario, proprio quando si poteva avviare una politica di trasformazione sociale ed economica del paese, la costruzione di un moderno stato sociale (a ciò sostanzialmente tendevano le modifiche del regolamento parlamentare della Camera elettiva), proprio allora le pressioni delle oligarchie economiche si fecero stringenti intorno al Re. Proprio allora la sovversione fascista si presentò come la via di fuga per i poteri oligopolistici dell’industria, del commercio e dell’agricoltura (tanto quella semifeudale, e, tanto di più, quella che si era avviata all’industrializzazione, con il connesso sviluppo della fastidiosa azione sindacale, delle cooperative e delle leghe); proprio allora si decise di sbarrare la strada alla democrazia parlamentare che si istituzionalizzava, si decise di cancellare l’allargamento – in parte già avvenuto – del sistema politico-costituzionale ai più, di impedire le trasformazioni che si sarebbero avviate con gradualità nella società italiana. Si può provare a trarre degli eventi del 1922 una valutazione teorica sul ruolo del socialismo riformista (ed in generale di una forza popolare che sappia analizzare scientificamente la società, rendere con ciò consapevole l’elettorato, elaborare – sulla base di questa analisi condivisa – soluzioni perciò stesso condivise) nel sistema politico costituzionale di ogni tempo: esso è elemento e fattore chiave dello sviluppo …