“IL SACRIFICIO E’ COMPIUTO. LA VECCHIA CASA S’E’ DIVISA”
da una raccolta di Domenico Argondizzo Sul numero della «Critica sociale» del 16-31 ottobre 1922 apparve il seguente articolo di Claudio Treves Il sacrificio è compiuto. La vecchia casa s’è divisa. Forse era giusto, anche se il partire fu doloroso; la vecchia casa non conteneva più i suoi figlioli che erano cresciuti di troppo e non più si intendevano. Non rammarichiamo; non accusiamo. Non cerchiamo quanto sia stato amaro ed improvvido scegliere proprio codesto tempo, che i nemici sono più accaniti sopra di noi, per dare loro la gioia incomposta di questo trionfo – la nostra divisione -. Constatiamo – senza ombra di rimprovero – l’inesorabile mandato e la fredda decisione nel compirlo, onde una frazione alle dirette dipendenze di Mosca impose il fatto che si è compiuto, e in quel fatto creò a sé una supremazia aspra ed orgogliosa sopra il partito che obbedì, ed, obbedendo, l’ex partito si riorganizzò tosto in forme e spiriti dittatori, con minimi riguardi alla propria maggioranza. Notiamo soltanto che, così come avvenne, la divisione fu sufficientemente a sinistra per dimostrare come, anziché di una nuova divisione, si tratti di una rettifica complementare della divisione di Livorno. I comunisti coi comunisti; i socialisti coi socialisti. Il taglio lascia da una parte il programma socialista del congresso fondatore di Genova (1892) e dall’altra le sovrapposizioni comuniste di Bologna, preludio della costituzione del partito comunista. Se la divisione ci ha indeboliti, nessun dubbio però che abbia portato tra noi della chiarezza. Il manifesto del nostro partito – il partito socialista italiano unitario – illustra ampiamente il fondo del contrasto, l’antagonismo fra il metodo democratico del socialismo e il metodo dittatorio del comunismo. Il comunismo ama rappresentarsi a sé stesso come un esercito in marcia verso una battaglia definitiva ed assume spiriti e disciplina di guerra. Ma se, come ammettono tanti comunisti, spezzato all’urto della realtà il sogno rivoluzionario che scaldò le menti dell’immediato dopoguerra, il partito comunista rientra nel compito di una propaganda di reclutamento da valere a scadenza non prossima (si ricordi la lavata di capo di Lenin al giovine Bordiga per il soverchio zelo a sdemocratizzarsi, a contare soltanto sulle aristocratiche avanguardie della rivoluzione!), come il partito comunista adatterà alle forme compressive della dittatura la sua normale attività, che abbraccerà certamente parecchi anni prima di quel cozzo, in vista del quale esclusivamente si è venuto ordinando? Quanto a noi, socialisti, che riprendiamo, dopo le fluttuazioni socialcomuniste, la via maestra del socialismo per continuare la politica di progressiva ascensione del proletariato attraverso la propaganda, l’organizzazione, l’educazione – politica, sindacale, cooperativa, intellettuale e morale – della classe lavoratrice, i metodi gerarchici ed assolutisti del militarismo, rivoluzionario quanto si vuole, ci sono affatto estranei, perché diametralmente opposti al fine che noi ci proponiamo. Noi abbiamo bisogno di libertà di movimento, di agnosticismo tattico e di autonomia di direzione conforme alle circostanze nostre ed ai bisogni del nostro proletariato in confronto dei nostri partiti borghesi. Noi non possiamo delegare la nostra coscienza, che è fatta del senso delle nostre responsabilità, ad altri, per quanto illustri e benemeriti della rivoluzione, ma da noi distanti e con interessi particolari importantissimi che essi debbono mandare innanzi ad ogni considerazione degli interessi dei singoli aggruppamenti nazionali del proletariato. Messa la scissione su tal terreno, non esitiamo a riconoscere che essa fosse, più che benefica, necessaria. Ma appunto noi credevamo tal terreno superato, noi avevamo il diritto di credere, che a Livorno fosse stata detta al riguardo l’ultima parola. Allora il contrasto era pure stato esplicito: le 21 tesi e l’obbedienza assoluta come condizione per l’adesione alla terza internazionale – da una parte -, e dall’altra il diritto di interpretazione libera e di adattamento nazionale di quelle tesi, di cui alcune – l’alleanza coi nazionalismi rivoluzionari e l’ammissibilità dei massoni nel partito – erano da noi categoricamente rifiutate. La questione della espulsione dei destri, così tenacemente richiesta da Mosca e con tanto vigore diniegata allora dal Serrati e dalla maggioranza del congresso, aveva questo chiarissimo significato: non già un tenero omaggio sentimentale a fratelli traviati di cui si sperava il ravvedimento – questa è la tesi barocca, senza gusto e senza costrutto, escogitata dal Serrati ora al congresso di Roma, tanto per darsi un contegno -, ma la convinzione comune che i destri, per la loro condizione spirituale, rappresentavano più energicamente e più spregiudicatamente quegli adattamenti liberi e localisti delle tesi di Mosca, che erano nel cuore della grande maggioranza dei socialisti italiani, anche massimalisti. Occorre ricordare che Livorno salutò il distacco dai comunisti, idest da Mosca, come una liberazione, accompagnandola con gesti persin salaci, che non lasciavano dubbio sullo spirito di indipendenza antimoscovita ed antiterzointernazionale del partito. Correlativamente, le morte direzioni uscite dai congressi di Livorno e di Milano, sia pure in modo saltuario, pigro e incoerente come era proprio della loro natura, si volsero a riallacciare i rapporti internazionali del partito per altre vie che non quella di Mosca, come fu manifesto ai convegni di Francoforte e di Berlino, i cui risultati furono vantati come uno sforzo promettitore di un gagliardo fronte unico internazionale di tutti i partiti socialisti, non esclusi nemmeno quelli aderenti alla seconda internazionale. Pertanto il brusco mutamento di fronte dei massimalisti, condotti dal Serrati e dalla ex direzione del partito, non altrimenti si spiega che come un ritorno, una involuzione, una dedizione, un passaggio, armi e bagagli, al comunismo ripudiato a Livorno.[1] Ciò osserviamo, come detto, senza alcuna intenzione di accusa o di rampogna, ma soltanto per confermare che a Roma fu una scissione e non una espulsione, che quelli ligi ai princìpi ed alla tradizione socialista siamo stati noi, i destri unitari. Le pretese «deviazioni collaborazioniste» nostre non furono mai deviazioni dallo spirito metodico del socialismo, ma dallo spirito metodico del comunismo. Ci hanno «espulso» come «traditori» di un programma e di un metodo che non fu mai quello del nostro partito, ma di un altro partito che ha la sua costituzione autonoma. E la riprova solenne, se mai fosse stata necessaria, di tale fatto …
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