“IL SACRIFICIO E’ COMPIUTO. LA VECCHIA CASA S’E’ DIVISA”

da una raccolta di Domenico Argondizzo Sul numero della «Critica sociale» del 16-31 ottobre 1922 apparve il seguente articolo di Claudio Treves Il sacrificio è compiuto. La vecchia casa s’è divisa. Forse era giusto, anche se il partire fu doloroso; la vecchia casa non conteneva più i suoi figlioli che erano cresciuti di troppo e non più si intendevano. Non rammarichiamo; non accusiamo. Non cerchiamo quanto sia stato amaro ed improvvido scegliere proprio codesto tempo, che i nemici sono più accaniti sopra di noi, per dare loro la gioia incomposta di questo trionfo – la nostra divisione -. Constatiamo – senza ombra di rimprovero – l’inesorabile mandato e la fredda decisione nel compirlo, onde una frazione alle dirette dipendenze di Mosca impose il fatto che si è compiuto, e in quel fatto creò a sé una supremazia aspra ed orgogliosa sopra il partito che obbedì, ed, obbedendo, l’ex partito si riorganizzò tosto in forme e spiriti dittatori, con minimi riguardi alla propria maggioranza. Notiamo soltanto che, così come avvenne, la divisione fu sufficientemente a sinistra per dimostrare come, anziché di una nuova divisione, si tratti di una rettifica complementare della divisione di Livorno. I comunisti coi comunisti; i socialisti coi socialisti. Il taglio lascia da una parte il programma socialista del congresso fondatore di Genova (1892) e dall’altra le sovrapposizioni comuniste di Bologna, preludio della costituzione del partito comunista. Se la divisione ci ha indeboliti, nessun dubbio però che abbia portato tra noi della chiarezza. Il manifesto del nostro partito – il partito socialista italiano unitario – illustra ampiamente il fondo del contrasto, l’antagonismo fra il metodo democratico del socialismo e il metodo dittatorio del comunismo. Il comunismo ama rappresentarsi a sé stesso come un esercito in marcia verso una battaglia definitiva ed assume spiriti e disciplina di guerra. Ma se, come ammettono tanti comunisti, spezzato all’urto della realtà il sogno rivoluzionario che scaldò le menti dell’immediato dopoguerra, il partito comunista rientra nel compito di una propaganda di reclutamento da valere a scadenza non prossima (si ricordi la lavata di capo di Lenin al giovine Bordiga per il soverchio zelo a sdemocratizzarsi, a contare soltanto sulle aristocratiche avanguardie della rivoluzione!), come il partito comunista adatterà alle forme compressive della dittatura la sua normale attività, che abbraccerà certamente parecchi anni prima di quel cozzo, in vista del quale esclusivamente si è venuto ordinando? Quanto a noi, socialisti, che riprendiamo, dopo le fluttuazioni socialcomuniste, la via maestra del socialismo per continuare la politica di progressiva ascensione del proletariato attraverso la propaganda, l’organizzazione, l’educazione – politica, sindacale, cooperativa, intellettuale e morale – della classe lavoratrice, i metodi gerarchici ed assolutisti del militarismo, rivoluzionario quanto si vuole, ci sono affatto estranei, perché diametralmente opposti al fine che noi ci proponiamo. Noi abbiamo bisogno di libertà di movimento, di agnosticismo tattico e di autonomia di direzione conforme alle circostanze nostre ed ai bisogni del nostro proletariato in confronto dei nostri partiti borghesi. Noi non possiamo delegare la nostra coscienza, che è fatta del senso delle nostre responsabilità, ad altri, per quanto illustri e benemeriti della rivoluzione, ma da noi distanti e con interessi particolari importantissimi che essi debbono mandare innanzi ad ogni considerazione degli interessi dei singoli aggruppamenti nazionali del proletariato. Messa la scissione su tal terreno, non esitiamo a riconoscere che essa fosse, più che benefica, necessaria. Ma appunto noi credevamo tal terreno superato, noi avevamo il diritto di credere, che a Livorno fosse stata detta al riguardo l’ultima parola. Allora il contrasto era pure stato esplicito: le 21 tesi e l’obbedienza assoluta come condizione per l’adesione alla terza internazionale – da una parte -, e dall’altra il diritto di interpretazione libera e di adattamento nazionale di quelle tesi, di cui alcune – l’alleanza coi nazionalismi rivoluzionari e l’ammissibilità dei massoni nel partito – erano da noi categoricamente rifiutate. La questione della espulsione dei destri, così tenacemente richiesta da Mosca e con tanto vigore diniegata allora dal Serrati e dalla maggioranza del congresso, aveva questo chiarissimo significato: non già un tenero omaggio sentimentale a fratelli traviati di cui si sperava il ravvedimento – questa è la tesi barocca, senza gusto e senza costrutto, escogitata dal Serrati ora al congresso di Roma, tanto per darsi un contegno -, ma la convinzione comune che i destri, per la loro condizione spirituale, rappresentavano più energicamente e più spregiudicatamente quegli adattamenti liberi e localisti delle tesi di Mosca, che erano nel cuore della grande maggioranza dei socialisti italiani, anche massimalisti. Occorre ricordare che Livorno salutò il distacco dai comunisti, idest da Mosca, come una liberazione, accompagnandola con gesti persin salaci, che non lasciavano dubbio sullo spirito di indipendenza antimoscovita ed antiterzointernazionale del partito. Correlativamente, le morte direzioni uscite dai congressi di Livorno e di Milano, sia pure in modo saltuario, pigro e incoerente come era proprio della loro natura, si volsero a riallacciare i rapporti internazionali del partito per altre vie che non quella di Mosca, come fu manifesto ai convegni di Francoforte e di Berlino, i cui risultati furono vantati come uno sforzo promettitore di un gagliardo fronte unico internazionale di tutti i partiti socialisti, non esclusi nemmeno quelli aderenti alla seconda internazionale. Pertanto il brusco mutamento di fronte dei massimalisti, condotti dal Serrati e dalla ex direzione del partito, non altrimenti si spiega che come un ritorno, una involuzione, una dedizione, un passaggio, armi e bagagli, al comunismo ripudiato a Livorno.[1] Ciò osserviamo, come detto, senza alcuna intenzione di accusa o di rampogna, ma soltanto per confermare che a Roma fu una scissione e non una espulsione, che quelli ligi ai princìpi ed alla tradizione socialista siamo stati noi, i destri unitari. Le pretese «deviazioni collaborazioniste» nostre non furono mai deviazioni dallo spirito metodico del socialismo, ma dallo spirito metodico del comunismo. Ci hanno «espulso» come «traditori» di un programma e di un metodo che non fu mai quello del nostro partito, ma di un altro partito che ha la sua costituzione autonoma. E la riprova solenne, se mai fosse stata necessaria, di tale fatto …

STRUTTURA E COMPOSIZIONE SOCIALE DEL PSI PRIMA DEL FASCISMO

Alle origini del partito c’era stata una precisa corrispondenza tra la struttura, organizzatasi pressoché spontaneamente, e l’assunto ideologico marxista, nella versione evoluzionistica offerta dal gruppo della Critica Sociale. Secondo tale assunto, l’emancipazione del proletariato doveva organizzare lo strumento della sua emancipazione, il partito, come emancipazione di se medesimo, cioè come organizzazione specifica dei propri interessi sociali, senza commistioni con altre classi. Il partito doveva nascere (e così nacque) come organizzazione della classe operaia. In linea teorica, il Partito operaio, “esclusivista“, come fu anche definito, rappresentava il modello puro, perfetto del partito di classe. La sua “esclusività” recava in sé, tuttavia, una tendenza di natura corporativa, sostanzialmente isolazionistica e prepolitica che alla lunga non era sostenibile, soprattutto rispetto ai nuovi problemi, ed alle nuove possibilità, insorgenti dallo svilupparsi dalle istituzioni della democrazia rappresentativa. Di conseguenza, il partito fu composto non più esclusivamente dagli operai o, meglio, dalle associazioni sociali della classe lavoratrice, ma, successivamente, anche da quegli intellettuali che, da singoli o in gruppo, avevano preso la decisione di sostenere ideologicamente e politicamente il socialismo. La logica conseguenza di tutto ciò fu la trasformazione del Partito operaio in Partito dei lavoratori (1892) e poi in Partito socialista italiano (1894). Un impulso decisivo a questo processo era derivato dall’occasione offerta al sorgente partito di classe dalle competizioni elettorali. Il Partito operaio già all’inizio del decennio che va dal 1880 al 1890 aveva colto al balzo questa occasione, decidendo di avvalersi del diritto di voto per rappresentare direttamente i propri interessi e le proprie istanze politiche, senza delegarle ad altre formazioni, rappresentative di altri interessi sociali. Accadeva così in Italia quanto era già avvenuto in larga misura da altre parti dell’Europa. Lo stesso Engels aveva osservato, nella prefazione all’edizione italiana della sua opera La lotta di classe in Francia, che laddove, come in Germania, s’era offerta questa possibilità di usufruire del diritto di voto, il movimento dei lavoratori non s’era lasciato pregare due volte, ed aveva immediatamente operato una scelta favorevole alla partecipazione alle competizioni elettorali. Una scelta di questa natura comportava due ordini di conseguenze. Innanzitutto, infatti, determinava necessariamente una separazione netta, in forme più o meno traumatiche, a seconda delle circostanze, con le posizioni anarchiche e rivoluzionarie. In secondo luogo, determinava, più o meno consapevolmente, una scelta definitiva a favore dell’assunzione di un modello di partito, che era quello del partito di massa: quel tipo di partito che dal punto di vista sociologico e dal punto di vista storico-politico era destinato ad essere il soggetto nuovo dello scenario politico dell’Europa, e non soltanto di essa. Il modello del partito di massa si contrapponeva a quello del partito elitario ad esso preesistente, formazione politica tipica della classe borghese, e del ceto politico da essa derivante. Il partito elitario, borghese, era sorto in funzione degli interessi elettorali di un ceto ristretto: era circoscritto sostanzialmente a quella minoranza sociale che per censo o per cultura aveva diritto al voto; e si organizzava in strutture dalla vita più o meno effimera ed episodica, cioè circoli, “caucus“, club. A questi potevano aggiungersi, come strumenti anch’essi di azione politica, oltre che di elaborazione culturale e di propaganda, i giornali e le riviste. Inoltre, avevano acquistato una soggettività politica anche i gruppi parlamentari che raccoglievano o coordinavano gli eletti. Queste strutture politiche erano filiazioni delle istituzioni rappresentative, e nascevano come organizzazioni ristrette, composte generalmente dagli eletti e dai loro elettori, la maggior parte dei quali di ceto borghese. Erano, i partiti elitari, i padri e i figli insieme delle rivoluzioni borghesi del XVII secolo in Gran Bretagna e del XVIII secolo in Francia e in America. Il partito di massa che sorge, come espressione soprattutto della classe operaia, era figlio invece della Rivoluzione industriale, ed era composto sostanzialmente da chi non aveva diritto al voto e reclamava per ottenerlo; ed avendolo, lo usava per eleggere i propri rappresentanti in quelle istituzioni rappresentative, parlamentari o comunali, dalle quali erano in precedenza esclusi. Si trattava originariamente di partiti “extraistituzionali“, perché sorti fuori del ceto sociale che egemonizzava le istituzioni rappresentative: in esso si manifestarono due tendenze opposte che dovevano, alla fine, divaricarsi e separarsi traumaticamente. Una tendenza che accettava questa situazione di extraistituzionalità, scegliendo una strada antilegalitaria, e rifiutando di reclamare un allargamento della rappresentanza istituzionale alle classi che ne erano escluse; ed una tendenza che si rivolse a rivendicare il diritto delle masse a partecipare alla vita delle istituzioni, ad usufruire cioè delle armi della legalità per acquisire quelle rappresentanze istituzionali che erano fino allora negate. E a tal fine giunse ad organizzarsi, in modo spontaneo, quale struttura prima sindacale-politica, e successivamente come partito politico di massa, attraverso lo strumento dell’associazionismo spontaneo. In tal modo fu questa seconda tendenza, legalitaria ed evoluzionista, a dar corpo, concretamente, a quel modello di partito che rinnovò profondamente – sia dal punto di vista sociologico, sia dal punto di vista storico-politico – la tipologia tradizionale del partito politico elitario e borghese, introducendo il modello del moderno partito popolare di massa, con una sua organizzazione permanente, una sua propaganda continua, con suoi militanti e dirigenti organicamente dediti all’azione politica del partito. All’opposto, la tendenza extralegale, anarchica prima, e poi definita rivoluzionaria, finì per ripiegare su un tipo di organizzazione ristretta ed elitaria, modellata secondo criteri cospirativi e militari, o paramilitari, che non si distaccava sostanzialmente da tipi analoghi, conosciuti nel passato, di partiti rivoluzionari, con l’unica innovazione – introdotta successivamente dal leninismo, o, comunque, da questo teorizzata – della figura dei “rivoluzionari di professione“: figura analizzata lucidamente in un suo fondamentale studio da Luciano Pellicani. Si può affermare, dunque, che, sotto il profilo della struttura, sia stata la tendenza legalitaria a produrre nelle società occidentali un modello di organizzazione politica realmente “rivoluzionario” rispetto al passato, cioè rispetto ai soggetti politici tradizionali dei partiti elitari e borghesi. Mentre, sotto questo profilo, la tendenza “rivoluzionaria” e stata tutt’altro che innovatrice, o, almeno, non lo è stata in misura analoga. Comunque, nel corso di circa centocinquant’anni, il soggetto politico nuovo che ha dominato lo scenario europeo …

IL LIBRO DI GIULIANO SUL SOCIALISMO

Il libro di Roberto Giuliano nasce da una ricerca operata tramite Facebook, nella quale si chiede ai propri amici cosa intendono o cosa evoca loro la parola socialismo. Dalle risposte avute (97) si analizza il contenuto delle varie riflessioni cercando di valutarne il senso in chiave politica e anche psicologica. “Questo mi ha permesso – spiega l’autore – di fare una analisi di ampio respiro su cos’è il socialismo in chiave storica e sociologica nelle aspettative profonde delle persone. La stessa parola ha sempre sottinteso concetti e valori a volte in profonda antitesi. Certamente l’aspetto più complesso è la visione ideologica del termine socialista, che determina aspettative messianiche se non religiose; si è cercato di posizionare il socialismo all’interno di una visione valoriale, alternativa all’ideologia. Il socialismo liberale è quello che viene proposto come idea-guida di un socialismo per il terzo millennio. Nel libro viene allegata una breve sintesi dei movimenti politici e dei personaggi più significativi della storia del movimento socialista e operaio, allo scopo di dare degli spunti a chi, giovane, si vuole avvicinare alla problematica ideale del socialismo. Per alcuni aspetti vuole essere un tentativo, non so se riuscito, di rilanciare verso le nuove generazioni una idea vecchia e giovane, che è il socialismo riformista; inoltre la possibilità che anche in Italia si crei un movimento socialista liberale e libertario. Lo stesso titolo vuole essere una sana provocazione a quelle visioni apocalittiche e totalitarie che vivono l’impegno politico come sofferenza e dolore. La vita è un inno alla gioia anche se non ne conosciamo il senso, la gioia e l’allegria che non escludono il senso di responsabilità e di dovere verso sé e i propri simili. Così lottare per il benessere è fatto certamente di rinunce – conclude Roberto Giuliano – rischi e sconfitte ma sono accompagnate dall’ottimismo di operare, dando un senso alla nostra vita, anche nei confronti di coloro che democraticamente sono contrari alla nostra idea”. La prefazione è di Gianni De Michelis e l’introduzione di Duccio Trombadori inoltre ci sono allegate due interviste: una ad un ex segretario della Uil Confederale e l’altra al presidente dell’Unione Coltivatori Italiani. Questo perché ritengo che non possa esistere un movimento socialista che, nonostante l’evoluzione della società, non interloquisca con il mondo del lavoro sia industriale, impiegatizio che contadino. Fonte: opinione.it SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL FASCISMO TRA SIGNIFICANTE E SIGNIFICATO

di Carlo Felici In alcune riviste e giornali italiani, oggi, è di gran voga agitare il pericolo neofascista, primi tra tutti alcuni “liberal” molto noti, con inchieste varie, in particolare sul mondo più o meno torbido che fa da sfondo a quella che è oggi la cosiddetta galassia neofascista. Galassia che, già di per sé, contraddice la natura stessa di un movimento che possa essere autenticamente fascista, la cui identità ed azione, almeno storicamente, è stata sempre unitaria e compatta, oltre che nella sua struttura organizzativa che ha sempre e immancabilmente ruotato intorno al suo Duce e fondatore: Benito Mussolini, il quale, evidentemente, non è interpretabile in un modo o in un altro, ma è semplicemente studiabile nella sua biografia e nel suo percorso storico, esauritosi nel 1945. Se il Fascismo, in senso sincronico, fu e resta legato a Mussolini, esso, in senso diacronico, non ebbe, nonostante la continuità della guida che su di esso esercitò il suo Duce, la stessa fisionomia, anche perché non fu mai legato ad una cultura politica in senso stretto né ad una ideologia. Le fasi in cui si sviluppò, mutando prospettive ed aspetto, ma sempre con lo stesso intento di conquistare e gestire il potere, fino al punto da identificare lo Stato con se stesso, furono varie, ricordiamo, a grandi linee le principali: il Sansepolcrismo, fase rivoluzionaria e libertaria, utile soprattutto per carpire consensi nel biennio rosso, squadrismo, da usare come arma nel perpetrarsi del bellicismo violento ed omicida contro le opposizioni della sinistra di allora, il regime, con fisionomia spiccatamente mussolinista, prima del 1924 con una parvenza di facciata democratica, e dall’assassinio di Matteotti, come sfacciata dittatura, e infine l’epilogo tragico e farsesco repubblichino, con un tentativo fuori tempo massimo di tornare agli assunti originari, senza seguito e con una identità sottomessa all’occupante tedesco. In tutte queste fasi, il fascismo fu tenuto unito e in piedi solo ed esclusivamente dal suo Duce: Benito Mussolini. Tutto ciò che è accaduto dopo la sua morte, in riferimento al fascismo o ai suoi simboli, non ha mai più corrisposto alla sua natura che era appunto quella di realizzare una corrispondenza assoluta di identità, tra Stato, popolo e fascismo stesso. Gran parte del popolo italiano si adattò al fascismo, finendo per considerarlo un elemento stabilizzante, la classe politica liberale lo sostenne apertamente, perché lo riteneva un suo strumento per eliminare pericoli più gravi come il bolscevismo, lo stesso Mussolini contava, durante i 20 anni del suo regime, più sulla sua “maggioranza silenziosa” di “afascisti” che sui suoi camerati militanti, sempre pronti a rinfacciargli una rivoluzione mancata con l’assenso del Re e con gli accordi con il Vaticano. E fu proprio l’avere “mancato la rivoluzione” riducendola ad un orpello retorico, che finì per portare il Fascismo al suo suicidio, il 25 luglio del 1943. I fenomeni neofascisti del dopoguerra sono stati sempre dei fenomeni risibili, e persino contraddittori, rispetto a questa “rivoluzione mancata”, nessuno di essi, infatti, concretamente ha mai cercato di minacciare lo Stato, fino a cercare di conquistare il potere per trasformarne radicalmente la fisionomia. Anche gli episodi apparentemente più eversivi, come le bombe o i tentati golpe, vanno infatti inquadrati in una strategia strumentale di un neofascismo non più autonomo, ma eterodiretto per scopi geostrategici o stabilizzanti. Tutta la storia del neofascismo del dopoguerra resta infatti indissolubile rispetto all’atlantismo anticomunista e alla stabilizzazione di un “regime democratico“, cioè di un ossimoro politico, in cui la democrazia dell’alternanza era negata in partenza e con cui si poteva persino fare anche quello che il Fascismo non fece mai, come mandare la cavalleria in piazza a spianare il dissenso. Dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine del potere bolscevico, la cosiddetta galassia neofascista si è frantumata ancora di più, con una sorta di polverizzazione politica, il cui unico collante è la manifestazione di gesti esteriori, di azioni, di proclami che riprendono la retorica del fascismo storico, senza potersi identificare con esso per motivi giudiziari. E soprattutto con una sorta di implosione dovuta all’esasperarsi della competitività interna ai vari gruppi neofascisti, ognuno legato più al suo “ducetto”, che ad una precisa strategia politica unitaria. Niente di nuovo rispetto ad un panorama politico italiano in cui i vari capi e capetti di partito hanno assomigliato sempre più a piccoli capitani di ventura piuttosto che a veri e propri Cesari. Oggi la globalizzazione e la crisi economica sembrano amplificare l’azione e la risonanza di questi gruppi, anche se in realtà la loro incidenza nell’opinione pubblica, nonostante il loro agitarsi mediatico e coreografico, resta alquanto limitata. Il malessere profondo su cui essi fanno leva però esiste e tende ad espandersi, anche perché chi in questo periodo avrebbe dovuto interpretarlo e guidarlo con precise strategie politiche di alternativa ai modelli dominanti e di lotta alle disuguaglianze e all’impoverimento, è stato del tutto latitante. La sinistra si è adattata a svolgere un ruolo collateralista, consociativo e del tutto subalterno alle logiche imposte dal capitale speculativo in ambito continentale europeo. Tanto che oggi solo alcuni suoi gruppi ed esponenti, ancora alquanto minoritari, sono arrivati solo da poco a capire che se non si aggredisce il male endemicamente presente all’origine nella stessa struttura e nei trattati della UE, il regime della dittatura finanziaria tenderà sempre di più a svuotare non solo ogni forma di reattività politica nazionale, ma soprattutto le regole costituzionali su cui ciascuno Stato in Europa si fonda. Prova ne é il recente referendum costituzionale del 4 dicembre che ha visto uno straordinario paradosso politico, anche se potenziato dalla protesta verso un Presidente del Consiglio sempre più impopolare, ed è il fatto che un partito autodefinitosi democratico, tendeva a ridurre la sovranità popolare azzerando, di fatto, quella di un ramo del parlamento, chiedendo il SI alla sua controriforma, mentre la cosiddetta destra e anche gruppi di estrema destra ed estrema sinistra si sono schierati apertamente per il NO, e per la tutela della democrazia parlamentare e costituzionale legata alla sovranità popolare. Estremisti che difendono la democrazia? Suona un po’ strano..ma è …

ALCUNI SPUNTI DELL’ATTIVITA’ PARLAMENTARE DI GIACOMO MATTEOTTI

di Domenico Argondizzo Gli strumenti della politica – regolamenti parlamentari Il 26 luglio 1920, nella prima tornata della Camera dei deputati, si svolse il seguito della discussione sulle modificazioni al Regolamento. Venne in discussione un articolo aggiuntivo Pio Donati – Matteotti: “Quando cinque commissioni permanenti lo deliberino a maggioranza assoluta con l’intervento di almeno la metà dei rispettivi iscritti, o quando ne facciano richiesta collettiva due quinti almeno di commissari complessivamente appartenenti alle varie commissioni, la Presidenza della Camera dovrà convocare la Camera (non oltre il quindicesimo giorno dalla richiesta, o dalla comunicazione dei deliberati) per la discussione delle materie indicate nelle deliberazioni o nelle richieste di cui sopra”. Matteotti: «Comincio dal rilievo aritmetico dell’onorevole Tovini. Esso non ha ragione d’essere, perché i commissari non sono deputati come gli altri, ma rappresentano un ufficio di 20 deputati, di guisa che quando si dice che 10 commissari deliberano, bisogna moltiplicare 10 per 20. Quanto alla questione statutaria, alla quale si riferiscono le osservazioni della Giunta, bisogna considerare due aspetti, quello positivo e quello negativo. La nostra proposta viola o modifica le disposizioni statutarie? O invece essa non viene forse ad integrare disposizioni statutarie? Nessun articolo dello Statuto è violato. Gli articoli dello Statuto che hanno attinenza con la questione concernono le prerogative del Potere esecutivo. Ora queste prerogative non sono violate. Nulla è tolto al Potere esecutivo, al quale rimane la facoltà di convocare, prorogare e sciogliere la Camera. Né si viola la prerogativa del Senato, perché si tratta di sedute della Camera e non di sessioni: la Camera può sedere mentre il Senato non siede, purché sia contemporanea la sessione. Anche sotto questo aspetto dunque non si viola alcuna disposizione statutaria. Invece credo che la nostra proposta venga ad integrare le facoltà assegnate dallo Statuto alla Camera. Lo Statuto parla d’iniziativa della Camera per la proposizione delle leggi, la messa in stato d’accusa dei ministri, ecc.. Ora l’iniziativa delle leggi viene proprio dalle commissioni permanenti. Che cosa avverrebbe se le commissioni che propongono le leggi non potessero far sì che queste venissero immediatamente discusse, sol perché il Governo tiene a casa la Camera? Inoltre la Camera ha facoltà di aggiornarsi, e quindi la stessa modificazione del regolamento non viene a dare che una configurazione più speciale a questa facoltà di iniziativa della Camera. In questo momento in cui si svolgono avvenimenti nazionali e internazionali per i quali vi è bisogno che la Camera funzioni almeno in potenza, dopo che si è deplorato che si siano verificati avvenimenti senza l’assistenza e il parere della Camera, non dubito che la maggioranza voterà questo articolo aggiuntivo, perché mi pare che esso venga veramente a rendere effettiva la funzione ed il diritto della Camera ed a sancire nel regolamento ciò che lo Statuto consente o almeno non proibisce, senza toccare neppure i privilegi del Senato e del Potere esecutivo». Il Governo, attraverso il sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri Porzio, dichiarò trattarsi di questioni devolute esclusivamente alla volontà ed al valutazione dell’Assemblea, e che per ciò non aveva alcuna dichiarazione da fare ma si affidava alla Camera. Nella seconda tornata della Camera dei deputati del 6 agosto 1920, vennero discusse le proposte della Giunta del regolamento, relative all’autoconvocazione delle commissioni permanenti e della Camera. L’art. 10 riguardava più specificamente la convocazione dell’Aula attraverso la richiesta congiunta di cinque commissioni permanenti. Giolitti: «Parlo non come Presidente del Consiglio, perché in materia di regolamento della Camera, è la Camera che delibera, ma come semplice deputato. Credo che occorra riflettere molto prima di capovolgere il sistema parlamentare[1]. Ora il sistema parlamentare è di deliberazioni a maggioranza; e noi qui veniamo a capovolgerlo stabilendo che una minoranza ordini alla maggioranza ciò che essa crede di sua convenienza (Commenti). È la verità! Ripeto: questa è la mia opinione personale come deputato, non come Presidente del Consiglio; ma credo che occorra andare molto adagio prima di trasformare sostanzialmente, profondamente, gli ordinamenti parlamentari (Approvazioni – Commenti all’estrema sinistra)». Modigliani: «Evidentemente io non posso svestirmi talmente delle mie opinioni personali da rispondere sulle proposte che sono state formulate. Alcune di queste sono le stesse precise proposte che non ho avuto la fortuna di vedere approvate dalla Giunta del regolamento; e mi vedo quindi costretto a pregare alcuno degli altri colleghi della Giunta a rispondere ai loro proponenti[2]. Profitto però del diritto di parlare per far osservare all’onorevole Giolitti che la questione è stata posta da lui, me lo consenta, in modo non perfettamente esatto. Non si tratta di consentire a una minoranza il diritto di sovrapporsi alla maggioranza; si tratta di consentire alla minoranza il diritto di far sentire la propria opinione e di sottoporla alla decisione della maggioranza, ogni qualvolta questa minoranza sia tanto notevole da doverle riconoscere questo diritto: potendosi presumere, dato il numero dei richiedenti la convocazione, che ci sia qualcosa che merita di essere sentita. Non si capovolge dunque l’Istituto parlamentare: lo si rende efficiente in tutti i casi nei quali questa sua efficienza appare doverosa e necessaria allo stesso corretto funzionamento dell’Istituto parlamentare (Approvazioni all’estrema sinistra – Commenti)». Giolitti: «Mi permetta, onorevole Modigliani, di osservare che se la maggioranza ha deliberato di riunirsi in un dato giorno e la minoranza invece le impone di convocarsi in un tempo diverso, si ha una sovrapposizione all’ordine dato dalla maggioranza [Modigliani: «Ma bisogna che fatti nuovi siano intervenuti!»]. Aggiungo che quando la minoranza esprime un desiderio che non trova consenziente la maggioranza dei deputati, vuol dire che la convocazione non è voluta dalla maggioranza. La maggioranza della Camera, senza aspettare il beneplacito del Governo, ha il diritto di convocarsi, ma delibera come maggioranza e non come minoranza. La revoca, da parte della minoranza, dell’ordine dato dalla maggioranza, obbliga quest’ultima a convocarsi quando invece non voleva riunirsi». Matteotti: «La nostra[3] domanda di convocazione richiede la firma di 200 deputati: è una cifra rilevante, ed impedisce che un solo gruppo possa chiedere la convocazione della Camera, ma esige invece che su questa richiesta convengano le volontà di un …

SU ALCUNE RAGIONI DEL SOCIALISMO

di Domenico Argondizzo L’antefatto della vicenda costituente, compiutasi nel 1946-1948, è nella grande occasione mancata dell’inizio degli anni Venti: essa fu caratterizzata da un lato dall’affermazione piena dei poteri del Parlamento (con il connesso ruolo di impulso del socialismo riformista), dall’altro lato dall’avvento del fascismo. Quando le oligarchie compresero che l’evoluzione (innescata dal suffragio universale maschile e dalla proporzionale) del sistema liberale verso una compiuta democrazia parlamentare fosse incompatibile con il perpetuare una gestione proprietaria della cosa pubblica, e come fosse oramai precluso il ritorno al sistema politico censitario, decisero di non ostacolare, ma anzi appoggiare e finanziare, un gruppo di eversori del sistema legale. Scardinare la cornice dello stato liberale, allo scopo di garantirsi una forma di controllo sulla popolazione, facendo un uso opportunistico della minaccia massimalista-comunista (con i suoi strombazzati espropri) per tutelare non semplicemente le loro sostanze, bensì le fonti stesse dell’ineguaglianza. Le oligarchie avevano la consapevolezza che, in una liberaldemocrazia (con una politica a volte conservatrice, a volte di riformismo socialdemocratico), non vi sarebbero stati margini per il mantenimento del loro privilegio; ovvero, che tale tutela sarebbe stata di gran lunga più faticosa, macchinosa e dispendiosa di risorse (come la prassi delle avanzate democrazie contemporanee dimostra). Infatti, in una organizzazione della comunità politica basata sulla rappresentanza degli interessi (riuniti insieme dalle diverse ideologie politiche), ed in cui la decisione spetta alla maggioranza numerica, sarebbe stato arduo elaborare una ideologia che convincesse i più a fare (anche inconsapevolmente), senza coercizione fisica o morale (caratteristiche dei millenni passati), gli interessi dei pochi detentori della ricchezza. Tanto più arduo in quanto tale ideologia avrebbe dovuto porsi in opposizione diretta al messaggio del socialismo riformista: allargamento della partecipazione politica al fine di (e per mezzo di) una migliore qualità della vita e del lavoro. Il frastagliato avvicinamento del socialismo riformista al governo democratico, testimoniato dai fatti parlamentari e politici, non si compiva in ritardo sulle lancette della storia, cioè troppo a ridosso dal colpo di stato fascista, ma era l’ultima e decisiva spinta per il processo di reazione che si era innescato anni prima, in risposta a quell’avvicinamento. Nel biennio 1920-1922, la Camera dei deputati conquistava il potere di decidere sulla sua riconvocazione, e l’organizzazione dell’attività legislativa attraverso commissioni permanenti, importando tali istituti dal coevo ordinamento francese[1]. Fino ad allora, la forma di governo del Regno d’Italia si era sviluppata secondo una prassi che l’aveva apparentemente spostata, da quella costituzionale pura[2] (nella quale il Governo doveva godere della fiducia del Re e di lui solo, ed il Parlamento non aveva alcuna voce in capitolo sulla vita del Ministero), ad una forma che parodiava quella di gabinetto britannica[3]. Ma la vera cesura ancora non era avvenuta: fino a tutta la prima guerra mondiale, la sostanza del potere era nelle mani del solo Re e dei pochi uomini che godevano della sua fiducia. La dimostrazione più evidente della soggezione della Camera elettiva (e quindi del Parlamento), più che nella maniera regia di gestire le crisi di governo e/o del paese, si ha se si pone la lente d’ingrandimento sulla sua stessa vita. Il Re poteva chiudere e/o tenere chiusa la Camera a proprio piacimento, con i diversi istituti dello scioglimento, della chiusura o proroga della sessione parlamentare, e dell’aggiornamento dei lavori. La spia del cambiamento fu l’abbandono del sistema di organizzazione per uffici, in cui fino ad allora lavorava la Camera: una democrazia ristretta e censitaria, con una sostanziale omogeneità politica dovuta all’omogeneità della classe economica che aveva accesso alla rappresentanza, cedeva così il campo al sistema delle commissioni permanenti, che presuppone una democrazia fondata sui partiti politici e su di un sistema costituzionale in cui si garantisce la potenziale partecipazione all’indirizzo politico a tutta la popolazione. L’istituzione delle commissioni era infatti conseguente al completo allargamento del suffragio, limitatamente al genere maschile, avvenuto nel 1913, con il suo successivo perfezionamento (anche con il passaggio al sistema proporzionale) nel 1919. Tale evoluzione elettorale ed acquisizione di maggiori prerogative e funzioni da parte della Camera dei deputati[4] avvenne per opera – in via di assoluto protagonismo – di alcuni esponenti socialisti riformisti[5] del gruppo parlamentare socialista. Infatti, dagli interventi (alla Camera ovvero sulla stampa[6]) di Filippo Turati, Giuseppe Emanuele Modigliani, Giacomo Matteotti, si irradia una luce chiarificatrice sui fatti normativo-regolamentari suddetti, e contemporaneamente si ottiene una visione complessiva del concreto funzionamento dell’allora sistema politico costituzionale, nonché della funzione svolta da quella corrente politica e del pensiero politico. La corrente socialista riformista diede un decisivo apporto, in generale, alla trasformazione dell’organizzazione interna e del funzionamento legislativo della Camera dei deputati, perciò alla sua capacità di incidere anche sull’indirizzo politico generale (salvi sempre i colpi di mano del Governo del Re), e quindi al tentativo di rendere la forma di governo realmente parlamentare. Proprio quando il socialismo riformista era davvero pronto a partecipare al governo statutario, proprio quando si poteva avviare una politica di trasformazione sociale ed economica del paese, la costruzione di un moderno stato sociale (a ciò sostanzialmente tendevano le modifiche del regolamento parlamentare della Camera elettiva), proprio allora le pressioni delle oligarchie economiche si fecero stringenti intorno al Re. Proprio allora la sovversione fascista si presentò come la via di fuga per i poteri oligopolistici dell’industria, del commercio e dell’agricoltura (tanto quella semifeudale, e, tanto di più, quella che si era avviata all’industrializzazione, con il connesso sviluppo della fastidiosa azione sindacale, delle cooperative e delle leghe); proprio allora si decise di sbarrare la strada alla democrazia parlamentare che si istituzionalizzava, si decise di cancellare l’allargamento – in parte già avvenuto – del sistema politico-costituzionale ai più, di impedire le trasformazioni che si sarebbero avviate con gradualità nella società italiana. Si può provare a trarre degli eventi del 1922 una valutazione teorica sul ruolo del socialismo riformista (ed in generale di una forza popolare che sappia analizzare scientificamente la società, rendere con ciò consapevole l’elettorato, elaborare – sulla base di questa analisi condivisa – soluzioni perciò stesso condivise) nel sistema politico costituzionale di ogni tempo: esso è elemento e fattore chiave dello sviluppo …

“LA GAUCHE” – 33 CONGRÈS MONDIAL IUSY 2018

Il Congresso Mondiale IUSY è il nostro più importante evento globale in cui ci siamo riuniti negli ultimi anni, dove abbiamo eletto la nostra leadership e fissato l’agenda per il futuro. Gli ultimi due anni sono stati gli anni in cui è accaduto l’inimmaginabile. Democrazie consolidate sono state assediate da populisti e neofascisti, chiedendo quote di potere. Tutte le regioni del mondo sono cadute nella retorica nazionalista antidemocratica della destra. L’estrema destra si sta diffondendo nelle periferia delle principali capitali occidentali, così come in molti altri posti del mondo. La loro narrativa si insinua nella mente delle persone, gli emigranti sono lo spauracchio delle nostre società, e le loro parole non fanno che avvelenare ogni ragionamento generando solo rabbia. Raramente i nostri partiti sono stati in grado di contrastare, spesso difendendo lo status quo in nome del buon senso, ma appaiono conservatori e sordi alle richieste di aiuto agli occhi di coloro che chiedono un cambiamento radicale. Le nostre parole sono state distorte, modificate e usate contro di noi. È tempo per noi di prendere posizione perché dobbiamo ricordare che il cambiamento non viene mai dall’alto. Succede solo quando le persone si rendono conto che questo non è il mondo in cui vogliamo vivere. Nonostante le lotte, i rischi, le battaglie è giunto il tempo che occcorre un cambiamento tangibile, dobbiamo rimanere oggi con una voce ancora più forte tesa acambiare questo mondo. Abbiamo bisogno di te, tutti voi. Abbiamo bisogno della tua energia, delle tue idee brillanti e del tuo idealismo per rendere la nostra lotta più di semplici parole limitate a una sala conferenze. Non vediamo l’ora di incontrarvi tutti al “Left”, il 33 ° Congresso Mondiale IUSY 2018, per dedicarci al divertimento sia alla politica. La nostra organizzazione ospitante, il Consiglio della gioventù del Partito democratico dei socialisti del Montenegro, è lieta di accogliervi tutti a casa vostra. Si prega di trovare le informazioni tecniche allegate per il Congresso Mondiale IUSY. Si noti che invitiamo tutte le organizzazioni membre a registrarsi entro il 30 novembre 2017, ma non oltre il 31 dicembre 2017. C’è un compito difficile da realizzare – il più difficile per la nostra generazione – ma siamo, dopo tutto, la sinistra! Per questo motivo, non vediamo l’ora di vedervi in ​​Montenegro per un Congresso mondiale fruttuoso e stimolante. In solidarietà, Howard Lee Presidente di IUSY Alessandro Pirisi Segretario Generale di IUSY Nikola Pesic Presidente del forum DPS Youth Fonte: The International Union of Socialist Youth (IUSY) SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA “FELICE GIOVINEZZA”DEL SOCIALISMO

di Domenico Argondizzo Prendo le mosse da un concetto chiaramente espresso nell’editoriale “Il socialismo, l’Italia e l’Europa”, su «mondoperaio» n. 6/2012. Si parla della necessaria presenza sullo scenario politico-elettorale di opzioni ben radicate nella cultura politica europea. Lo esige la profondità della crisi, che postula risposte innovative sia sul piano sociale (crisi fiscale e riforma del Welfare), sia sul piano economico (limiti al capitalismo finanziario), sia infine sul piano politico (ruolo degli Stati-nazione e democratizzazione dell’Unione europea). Come contributo, anche in occasione del centoventicinquesimo anniversario della fondazione del Partito socialista, mi permetto di richiamare un po’ di anima e respiro socialista, poggiandomi su alcuni documenti che si collocano in un passaggio cruciale della storia del movimento socialista, a cavallo tra la sua massima affermazione nella società italiana ed in Parlamento, ed il suo assassinio. Se infatti è necessaria la presenza anche e soprattutto del movimento socialista, essa è necessaria non semplicemente – e riduttivamente – perché manchi una organizzazione che si richiami direttamente ad esso (cosa infatti che non è, vista la longeva vita del Partito socialista italiano), ma bensì per il contributo di pensiero, di analisi, di idee, di progetti concreti che il socialismo seppe esprimere in epoche lontane e per questioni (forse) remote; contributo che potrebbe essere decisivo anche e soprattutto oggi. Ciò che mi preme è stabilire un nesso – direi inscindibile – tra la necessaria presenza dei valori del socialismo, del suo metodo di analisi (esso stesso tra i suoi caratteri distintivi, e precondizione per la definizione dei suoi valori di riferimento), del suo metodo di prospettazione di risposte alle esigenze sociali (prospettazione orientata dai suoi valori), e le ragioni di merito del suo assassinio. Altrimenti tale necessaria presenza sarebbe fatua e comunque non atta a durare. Se non si ricostituisce un legame consapevole con il passato, se non si ripercorrono gli iter logici, i ragionamenti, che motivarono scelte concrete, e più concrete reazioni, non può mettersi a frutto tutta la potenzialità dirompente degli ideali socialisti. Ci si dovrebbe contentare della presenza di un simulacro mendace ed incapace di parlare incisivamente all’elettorato. Inizio dall’intervento che Filippo Turati tenne il 7 ottobre 1919, al congresso socialista nazionale di Bologna[1]. La prima questione che veniva affrontata era l’antagonismo tra riforme e rivoluzione. Secondo Turati era mal posta tale antitesi perché le rivoluzioni più sostanziali (e quindi “socialiste”) sono il frutto di tante piccole riforme affiancate le une alle altre (e tendenti tutte agli obiettivi del socialismo). Ragione per cui gli “atteggiamenti” “anarchici” che pretendevano di sostituirsi al socialismo, ne invece erano la “diametrale negazione”. Questi erano gli stessi temi dibattuti a Milano nel 1891, alla Sala Sivori di Genova nel 1892, a Reggio Emilia nel 1893 (“Quale eterna giovinezza è la nostra! Felice giovinezza, per la quale, dopo oltre un quarto di secolo, ci si ritrova qui a ribalbettare gli stessi identici discorsi che facemmo. Nel partito socialista, come a tavola, evidentemente non si invecchia”). Sin da quei momenti fondativi del PSI venne infatti confutato il preteso antagonismo fra rivoluzionarismo e riformismo fondato su una differenziazione tra piccole e grandi riforme. Si può dire, anzi che il socialismo italiano nacque proprio quando si affrancò idealmente e praticamente da quegli atteggiamenti “anarcheggianti”. E discuteva quindi la centrale questione del metodo riformista (perciò stesso socialista). Esso guidò “quel partito operaio – che del resto, per quei tempi e per le condizioni dell’Italia d’allora, era pure una grande e gloriosa affermazione politica di classe […], a poco a poco, verso la conquista del potere, verso una molto più alta comprensione di concetti politici nazionali e internazionali, insomma verso il socialismo”. Quello che si battezzava nel 1919 come massimalismo rigettava in un canto, come armi superate, tutti i principi, i metodi, gli organismi, che nei precedenti trenta anni erano stati affermati, conquistati e perfezionati dal socialismo italiano. L’apologia e l’esaltazione della violenza, come il migliore, se non l’unico, mezzo per la più pronta attuazione dell’ideale socialista, non “è che il rinculo di 30 anni; non è che la ripetizione ad litteram della discussione che facemmo al congresso di Genova, 28 anni or sono”. Tutta l’esperienza accumulata, dal 1882, di azione socialista avrebbe dovuto essere superata per l’apparire prodigioso di una nuova rivelazione (“Alla elevazione della classe proletaria che, via via […] come più acquista di compattezza, di capacità, di valore, e più impara a farsi valere, a improntare di sé l’evoluzione storica, a instaurare nello Stato e nella nazione e nei rapporti internazionali la grande, la vera democrazia, quella del Lavoro, con le armi della intelligenza, della civiltà, della libertà più sconfinata, si sostituisce un gretto ideale di violenza armata e brutale”). La cosiddetta dittatura del proletariato avrebbe escluso d’un sol colpo dalla vita sociale tutte le altre capacità, tutti gli altri contributi, tutte le altre classi, e la stessa grande maggioranza dei lavoratori; rivelandosi così per essere la dittatura di alcuni uomini sul proletariato, ossia la dittatura contro lo stesso proletariato. Questo metodo apparteneva alla preistoria politica del movimento popolare, ed il socialismo scientifico non fu che “la reazione dottrinale e pratica contro questi vecchiumi”. Prima di esso dominava ancora il concetto che il socialismo potesse improvvisarsi in virtù della bontà della causa che esso rappresenta, per un atto di volontà, e quindi, o per decreto imperiale, o per concessione generosa delle classi dominanti, oppure per un atto di violenza delle masse; che una rivoluzione soprattutto economica, che interessa i più profondi tessuti dell’organizzazione sociale, potesse instaurarsi, trionfare, mantenersi prima della completa elaborazione di tutti gli elementi tecnici, morali, economici, politici, che rendono questa nuova formazione possibile (“La compagine sociale è un prodotto storico complicatissimo, di elementi economici, tecnici, morali, politici”). Preciso che specifiche proposte – allora formulate anche da Turati – come la collettivizzazione dei mezzi di produzione, si dovrebbe trattarle con l’acquisita maggiore comprensione dei fenomeni economici, portato degli ulteriori 80 anni che ci separano dagli anni venti del 1900 (“Le formule dei programmi sono sempre effetto di transazioni […]. Poi la storia le seppellisce”). All’idea – un …

PERTINI E LA COSTITUZIONE, IL LIBRO DI CUCCODORO SULLA FIGURA DEL PRESIDENTE E SUA MOGLIE CARLA

Enrico Cuccodoro, docente di Diritto Costituzionale presso l’università del Salento, ha recentemente pubblicato il libro “Gli impertinenti”, dedicato alla figura del Presidente della Repubblica Sandro Pertini e sua moglie Carla. Nel settantesimo anniversario della Costituzione italiana, ormai imminente, il prof. Cuccodoro racconta la figura di Sandro Pertini attraverso una fitta serie di ricordi e testimonianze dirette che ne fanno emergere il peso specifico e soprattutto fanno riflettere su ciò che la politica dovrebbe tornare a essere, in termini di impegno, di giustizia sociale, di levatura morale. Il libro verrà presentato in Basilicata nelle prossime settimane, in più occasioni. Tra le altre date, Rionero in Vulture il 7 dicembre e Brienza il 12 dicembre prossimi. Professor Cuccodoro, quali aspetti dell’esperienza politica di Sandro Pertini ne fanno un riferimento ancora attuale per l’Italia di oggi? A distanza di anni la figura di Sandro Pertini è ancora nel cuore di moltissimi. Proprio oggi conversando con un giovane del Senegal, che lavora in Italia, lui mi ha sorprendentemente detto queste parole stupende: “Sandro Pertini non è lontano è solo dall’altro lato del nostro cammino…!”. Un itinerario umano che ci richiama valori di libertà e giustizia sociale universali, di pace, soprattutto di moralità nella politica e che faccia argine alla corruzione e al malaffare dilaganti. Sentimenti che a settanta anni di vita costituzionale debbono spronare le più giovani leve della democrazia del paese a rinnovare lo spirito di fedeltà e unità verso la nostra Repubblica. Era preoccupazione costante di Pertini che mai i giovani dovessero conoscere le difficoltà e i patimenti che gli uomini della sua generazione avevano subito e sopportato per dare all’Italia una nuova direzione di progresso civile sociale ed economico. Egli era un combattente risoluto che riusciva ad entusiasmare e avvicinare i ragazzi di ogni età, rendendosi pienamente formidabile educatore civico in momenti difficilissimi della storia del Paese. Perché “gli impertinenti”? L’impertinenza era la sua caratura caratteriale…non amava i grandi discorsi tribunizi, bensì amava che gli si rivolgessero sempre tutte le domande più “impertinenti” alle quali dava risposte convincenti appassionate e credibili, fuori dalla retorica e dal facile convincimento, catturando fiducia e simpatia da parte soprattutto dei cittadini più piccoli. Nell’attuale scenario politico, sociale ed economico, quale contributo potrebbe offrire una via “socialista”? La via “socialista” di Pertini con Carla è stata la strada dell’umanità più profonda e vitale, volta a riassestare le ragioni della corrispondenza del Paese reale al Paese legale, per superare fratture tensioni e incomprensioni, talvolta anche percorrendo un cammino senza speranza immediata di successo, ma nella fede assoluta di non barattare mai le proprie idee per vittorie del contingente momento. Mai! sempre, tuttavia, con l’intento di allargare gli spazi possibili della libertà in ragione armonica della giustizia sociale: binomio inscindibile in equilibrio simbiotico nel pensiero di Pertini per il campo d’azione politico-istituzionale e per quello altrettanto fondamentale della “cura promovendae salutis”, in ciò assistito qui dalla fermezza caratteriale altrettanto intransigente della compagna di vita a lui carissima, Carla. Cosa fece di un partigiano il Presidente più amato e super partes della nostra storia repubblicana? Pertini innova, così, il ruolo del Presidente della Repubblica, forte dall’aver ricoperto per lunghi anni la carica di guida saldissima e assai apprezzata della Assemblea di Montecitorio. Egli non il Capo dello Stato solo “nel” Palazzo del Quirinale. Ma diventa, in realtà, il primo impiegato dello Stato, spesso a fianco dei cittadini, che mette dunque il suo “corpo” al servizio del Paese sempre, in una missione popolare virtuosa per le circostanze liete e per quelle drammatiche che tanto caratterizzano gli anni del settennato presidenziale a lui affidato dal 1978 al 1985; di fatto ponendosi sovente quale difensore civico per tutta la Collettività nazionale fra Società civile e Stato. Una Presidenza popolare e amata che resta modello di comportamento inimitabile per rispetto super partes e per sensibilitá di rendere davvero il Quirinale, la casa di tutti gli italiani. Qual era la percezione della questione meridionale nel presidente Pertini? Quando Pertini, a braccio, parla a Turi, nel ricevere la cittadinanza onoraria, egli ripete come la priorità sia soprattutto la dignità umana e il lavoro nel Mezzogiorno d’Italia… “Italiani che chiedono di vivere tranquillamente in questo tormentato Paese”. Fonte: basilicata24.it SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL TESTO DEL DISCORSO DI TURATI AL CONGRESSO DI LIVORNO

Testo Integrale “Compagni amici, e compagni avversari; non voglio, non debbo dire nemici. A Bologna, un anno fa, in un discorso molto contrastato, che forse ebbe tuttavia qualche conferma dai fatti, io vi pregavo di accogliere le mie parole come un testamento. Io non debbo, senza volere avere la sciocca presunzione, e ridicola, di aggiungere lugubre solennità alle mie parole, poche parole, non debbo e non posso farvi altra dichiarazione oggi. Più che mai, anzi, debbo ringraziare il Partito ed il Congresso che mi ha lasciato in vita, che mi lascia tuttora in vita. È stato un pò il mio  destino d’essere sempre un imputato, davanti a questo o quel tribunale, e quando è un tribunale rivoluzionario, che non vi schianta completamente, che non vi lascia qualche respiro, è un tribunale molto mite, a cui bisogna essere grati. Per ciò io invoco ancora la vostra cortesia, tanto più che le mie parole, siano dette per la frazione cui appartengo, o per fatto personale, o per dichiarazione anticipata di voto, potranno essere assolutamente brevi, più brevi di quelle di tutti gli altri che mi han no preceduto, se, sʼintende, avrete la cortesia di non interrompermi troppo, e non avrete interesse ad interrompermi, specialmente i compagni che desiderano condannarmi. Costoro hanno tutto lʼinteresse, perché la loro condanna abbia unʼapparenza di fondamento, di sentire la mia esposizione, che non abuserà né del loro tempo né urterà volontariamente i loro sentimenti. Lontana da me ogni intenzione, anche se una parola fosse mal detta o male intesa, ogni intenzione urtante od offensiva, e voi, che siete i più bolscevichi di tutti, dovrete ammettere questa confessione alla russa, fatta ad alta voce. Non ho bisogno di molto tempo, né per fatto personale, né per dichiarazione di voto. Non per fatto personale, perché sebbene in un certo senso tutto questo Congresso sia un poʼ anche il mio processo – anzi, io dovevo averne uno speciale, fui rimandato dalla Camera di Consiglio a questa Corte di Assise per uno speciale processo che forse lʼangustia del tempo soltanto non farà celebrare con tutti i riti – tuttavia io constato che lo stesso Congresso, gli stessi oratori che mi accusano, mi hanno anche un pò difeso. E poi, consentite questo orgoglio testamentario innocuo: credo che nel profondo dei vostri cuori sentiate che, dopo tutto, la mia difesa personale, più che nelle parole è in me stesso. Ma io non avvilirò, non   umilierò, non immiserirò il Congresso con una discussione di piccole minuzie, quali sono appunto i fatti personali. Che io abbia usato in unʼoccasione o in unʼaltra una frase più o meno opportuna, che un mio atto, come quello di chiunque altro, possa essere stato qualificato a torto o a ragione – io dico a torto – io rivendico i miei infortuni sul lavoro come una parte della mia sincerità, del mio dovere verso il Partito; ma ad ogni modo, che abbia incappato in un infortunio sul lavoro, tutto ciò non può scompormi molto, tutto ciò prova che ho lavorato! Gli infortuni sul lavoro non avvengono ai critici inerti, a coloro che non si prestano al rude lavoro, essi dʼaltronde hanno una ben misera importanza per chi non si crei degli idoli, dei feticci personali. Se il nostro Partito è un Partito di classe, se la nostra azione è veramente unʼazione di storia, gli errori, fossero pure tali, dei singoli uomini, comunque si chiamino, non possono che scalfirne appena lʼepidermide. Amici e compagni, abbattiamo tutti gli idoli, tutte le idolatrie, anche questa idolatria a rovescio che consiste nel sopravalutare gli atti e le parole dei singoli uomini, si chiamino Turati, Serrati, anche Marx o Lenin, come se la forza, la coscienza, lʼazione fossero in determinati uomini che potessero tutto compromettere, e non fossero nella vostra grande coscienza, nella forza grande di tutto il Partito socialista. Dunque alla pattumiera tutte le misere quisquilie personali. Leviamoci più alto, al di sopra di queste miserie, e soprattutto degli uomini e delle persone. E neppure varrebbe la pena di un lungo discorso per una dichiarazione anticipata di voto, dopo che nelle parole di tanti altri, di Baldesi, fra gli altri, dello stesso Lazzari – che veramente mi ha trattato un pò maluccio, tanto non siamo schizzinosi, ma nel cui discorso abbiamo sentito pulsare quel senso di profonda umanità che si direbbe smarrito, inaridito, nei teoremi, nei filosofemi astratti, ideologici dei filosofi nuovi – nelle parole di Vacirca, cʼera quanto basta va per la difesa dottrinale nostra, cʼera quanto bastava per persuadere quelli che potevano essere persuasi, per farli dubitare, per farli studiare; quanto a quelli che hanno un velo settario nella mente che impedisce loro di dubitare, per questi ormai sono vani i discorsi e lascio che lʼevoluzione degli spiriti avvenga da sé. E mi pare che lʼevoluzione spontanea degli spiriti avvenga e non vi offendete se dico bene di voi. Sì, io constato, sì, io trovo negli stessi discorsi dei compagni avversari, di quelli che più furono prigionieri di sé stessi, delle loro tesi di ieri, sì, io trovo questa evoluzione rapidamente in cammino. E allora, quale e quanta differenza, compagni – e lo dico a elogio, perché gli immobili, gli statici, coloro che non sanno mutare non sono che dei capita mortui, delle cose morte, non un partito vivo e che avanza – quale e quanta differenza tra lʼavventata revisione e proclamazione di Bologna, e i cauti e ponderati discorsi degli stessi estremisti e massimalisti di questo Congresso. Non voglio fare personalità, dico unʼimpressione generale. Vi parla un compagno avversario: forse non ve ne avvedete, ma voi correte verso di noi con la velocità di un treno lampo! Quando la mentalità della guerra – non è colpa di nessuno – sarà evaporata, quando quella che, con frase felice, Serrati – faccio nomi di persone quando debbo lodarle, unicamente – chiamava la psicología di guerra, il socialismo dei combattenti, sarà svanito, allora quando lʼesperienza, la riflessione avranno fatto scuola e lezione nei cervelli di tutti, io credo fermamente che lʼunità, che oggi …