SU ALCUNE RAGIONI DEL SOCIALISMO

di Domenico Argondizzo

L’antefatto della vicenda costituente, compiutasi nel 1946-1948, è nella grande occasione mancata dell’inizio degli anni Venti: essa fu caratterizzata da un lato dall’affermazione piena dei poteri del Parlamento (con il connesso ruolo di impulso del socialismo riformista), dall’altro lato dall’avvento del fascismo. Quando le oligarchie compresero che l’evoluzione (innescata dal suffragio universale maschile e dalla proporzionale) del sistema liberale verso una compiuta democrazia parlamentare fosse incompatibile con il perpetuare una gestione proprietaria della cosa pubblica, e come fosse oramai precluso il ritorno al sistema politico censitario, decisero di non ostacolare, ma anzi appoggiare e finanziare, un gruppo di eversori del sistema legale. Scardinare la cornice dello stato liberale, allo scopo di garantirsi una forma di controllo sulla popolazione, facendo un uso opportunistico della minaccia massimalista-comunista (con i suoi strombazzati espropri) per tutelare non semplicemente le loro sostanze, bensì le fonti stesse dell’ineguaglianza.

Le oligarchie avevano la consapevolezza che, in una liberaldemocrazia (con una politica a volte conservatrice, a volte di riformismo socialdemocratico), non vi sarebbero stati margini per il mantenimento del loro privilegio; ovvero, che tale tutela sarebbe stata di gran lunga più faticosa, macchinosa e dispendiosa di risorse (come la prassi delle avanzate democrazie contemporanee dimostra). Infatti, in una organizzazione della comunità politica basata sulla rappresentanza degli interessi (riuniti insieme dalle diverse ideologie politiche), ed in cui la decisione spetta alla maggioranza numerica, sarebbe stato arduo elaborare una ideologia che convincesse i più a fare (anche inconsapevolmente), senza coercizione fisica o morale (caratteristiche dei millenni passati), gli interessi dei pochi detentori della ricchezza. Tanto più arduo in quanto tale ideologia avrebbe dovuto porsi in opposizione diretta al messaggio del socialismo riformista: allargamento della partecipazione politica al fine di (e per mezzo di) una migliore qualità della vita e del lavoro.

Il frastagliato avvicinamento del socialismo riformista al governo democratico, testimoniato dai fatti parlamentari e politici, non si compiva in ritardo sulle lancette della storia, cioè troppo a ridosso dal colpo di stato fascista, ma era l’ultima e decisiva spinta per il processo di reazione che si era innescato anni prima, in risposta a quell’avvicinamento. Nel biennio 1920-1922, la Camera dei deputati conquistava il potere di decidere sulla sua riconvocazione, e l’organizzazione dell’attività legislativa attraverso commissioni permanenti, importando tali istituti dal coevo ordinamento francese[1]. Fino ad allora, la forma di governo del Regno d’Italia si era sviluppata secondo una prassi che l’aveva apparentemente spostata, da quella costituzionale pura[2] (nella quale il Governo doveva godere della fiducia del Re e di lui solo, ed il Parlamento non aveva alcuna voce in capitolo sulla vita del Ministero), ad una forma che parodiava quella di gabinetto britannica[3]. Ma la vera cesura ancora non era avvenuta: fino a tutta la prima guerra mondiale, la sostanza del potere era nelle mani del solo Re e dei pochi uomini che godevano della sua fiducia.

La dimostrazione più evidente della soggezione della Camera elettiva (e quindi del Parlamento), più che nella maniera regia di gestire le crisi di governo e/o del paese, si ha se si pone la lente d’ingrandimento sulla sua stessa vita. Il Re poteva chiudere e/o tenere chiusa la Camera a proprio piacimento, con i diversi istituti dello scioglimento, della chiusura o proroga della sessione parlamentare, e dell’aggiornamento dei lavori. La spia del cambiamento fu l’abbandono del sistema di organizzazione per uffici, in cui fino ad allora lavorava la Camera: una democrazia ristretta e censitaria, con una sostanziale omogeneità politica dovuta all’omogeneità della classe economica che aveva accesso alla rappresentanza, cedeva così il campo al sistema delle commissioni permanenti, che presuppone una democrazia fondata sui partiti politici e su di un sistema costituzionale in cui si garantisce la potenziale partecipazione all’indirizzo politico a tutta la popolazione.

L’istituzione delle commissioni era infatti conseguente al completo allargamento del suffragio, limitatamente al genere maschile, avvenuto nel 1913, con il suo successivo perfezionamento (anche con il passaggio al sistema proporzionale) nel 1919.

Tale evoluzione elettorale ed acquisizione di maggiori prerogative e funzioni da parte della Camera dei deputati[4] avvenne per opera – in via di assoluto protagonismo – di alcuni esponenti socialisti riformisti[5] del gruppo parlamentare socialista. Infatti, dagli interventi (alla Camera ovvero sulla stampa[6]) di Filippo Turati, Giuseppe Emanuele Modigliani, Giacomo Matteotti, si irradia una luce chiarificatrice sui fatti normativo-regolamentari suddetti, e contemporaneamente si ottiene una visione complessiva del concreto funzionamento dell’allora sistema politico costituzionale, nonché della funzione svolta da quella corrente politica e del pensiero politico.

La corrente socialista riformista diede un decisivo apporto, in generale, alla trasformazione dell’organizzazione interna e del funzionamento legislativo della Camera dei deputati, perciò alla sua capacità di incidere anche sull’indirizzo politico generale (salvi sempre i colpi di mano del Governo del Re), e quindi al tentativo di rendere la forma di governo realmente parlamentare.

Proprio quando il socialismo riformista era davvero pronto a partecipare al governo statutario, proprio quando si poteva avviare una politica di trasformazione sociale ed economica del paese, la costruzione di un moderno stato sociale (a ciò sostanzialmente tendevano le modifiche del regolamento parlamentare della Camera elettiva), proprio allora le pressioni delle oligarchie economiche si fecero stringenti intorno al Re. Proprio allora la sovversione fascista si presentò come la via di fuga per i poteri oligopolistici dell’industria, del commercio e dell’agricoltura (tanto quella semifeudale, e, tanto di più, quella che si era avviata all’industrializzazione, con il connesso sviluppo della fastidiosa azione sindacale, delle cooperative e delle leghe); proprio allora si decise di sbarrare la strada alla democrazia parlamentare che si istituzionalizzava, si decise di cancellare l’allargamento – in parte già avvenuto – del sistema politico-costituzionale ai più, di impedire le trasformazioni che si sarebbero avviate con gradualità nella società italiana.

Si può provare a trarre degli eventi del 1922 una valutazione teorica sul ruolo del socialismo riformista (ed in generale di una forza popolare che sappia analizzare scientificamente la società, rendere con ciò consapevole l’elettorato, elaborare – sulla base di questa analisi condivisa – soluzioni perciò stesso condivise) nel sistema politico costituzionale di ogni tempo: esso è elemento e fattore chiave dello sviluppo del «governo libero»; movimento politico e culturale la cui prevalenza (o meno) può segnarne l’evoluzione (o la regressione) costituzionale; in altre parole, si potrebbero indicare le direttrici della socialdemocrazia (o popolarismo), come le uniche linee di sviluppo e rafforzamento della liberaldemocrazia[7].

La democrazia, come qualsiasi tipo di organizzazione istituzionalizzata della società, deve mantenere una divisione (specialistica) ed una gradazione (gerarchica) dei ruoli/funzioni. Ma la specificità democratica, opposta alle autocrazie (i governi non liberi), è quella di postulare che ogni singola generazione possa e debba sviluppare i propri talenti ed attitudini, per partecipare all’edificazione più efficiente della comunità, e con ciò al suo avanzamento generale. La messa in discussione costante di tutte le posizioni sociali (anche dei vertici), basata sul merito e sulle pari opportunità di accesso agli strumenti di crescita culturale, presuppone l’affrancazione dall’indigenza economica, la tutela sanitaria, il diritto/dovere dello studio e del lavoro, la fisiologica soddisfazione dei bisogni (anche sofisticati) dei consumatori (principale molla del sistema economico).

Ma questo non è altro che il messaggio politico del socialismo riformista da Turati a Matteotti. È ipotesi infausta per il governo democratico quella in cui ci sia una disuguaglianza oltre le ragioni funzionali all’organizzazione della società (negando, con ciò stesso, benessere e cultura al più largo numero possibile di cittadini, ed eguaglianza delle possibilità di accesso ai vari ruoli/funzioni), e che tali disparità siano mantenute nel passaggio tra le generazioni, senza verificare che si ha di più perché si è più capaci. Infatti, tali ineguaglianze corrompono tanto quei pochi che hanno di più, quanto i molti che hanno di meno. Come la corruzione si annida nei pochi ricchissimi, feudatari svincolati da ogni legge (che elargiscono protezione e sussistenza alla propria cerchia), così attecchisce nei molti, privi di ogni diritto e, soprattutto, della coscienza dei propri diritti e doveri: la servitù si autoalimenta dell’ignoranza e della povertà materiale, e non consente alcun innalzamento spirituale verso la concezione di una struttura comunitaria fondata sull’«adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»[8].

Ad un tentativo di andare nella direzione della maggiore libertà degli “ordini” (con le riforme del regolamento della Camera dei deputati), è stato risposto, in una società troppo corrotta (per sostenere quegli ordini più “buoni” e “liberi”) giacché troppo ineguale, dalla esigua minoranza (che era troppo ricca e che poteva troppo), direttamente con il passaggio alla tirannia (ovviamente calata in società che aveva assaggiato l’industrializzazione), piuttosto che con un ritorno ai precedenti ordini aristocratici e monarchici[9]. L’annientamento della socialdemocrazia ha quindi portato alla morte del governo libero. Va detto, e questo a maggiore scorno dei pochi pescecani, che, se la corruzione fosse stata estesa fra le masse quanto lo era tra loro stessi, non sarebbe stata necessaria la violenza fascista per instaurare l’autocrazia (nelle elezioni di sangue del 1921, con già ben due anni di sistematica azione squadrista, vi fu comunque uno smacco elettorale per la reazione), ma sarebbe bastato un piccolo colpo di stato per decreto reale.

Al socialismo riformista non si fece esercitare la sua propria concreta azione di trasformazione del paese; la parvenza di governo libero e democratico lasciò il posto ad una forma di stato-governo più apertamente, e senza infingimenti, corrispondente alla corruzione della «materia», che la guerra mondiale acuì aumentando il divario economico tra i pochi ed i molti. Prima della guerra, la forma di governo costituzionale pura era stata ancora sufficiente a contenere la spinta all’allargamento ai più; per via dell’aumentata diseguaglianza era necessario, a neutralizzare tale spinta, un abito costituzionale di nuova confezione: un’autocrazia che sarebbe diventata modello ed archetipo dei colpi di stato del Ventesimo secolo.

Voglio chiaramente paventare un analogo rischio oggi, dato che – tra l’altro – nella contemporaneità sono presenti modalità assai più sofistiche ed efficaci di gestione autocratica del popolo consumatore e spettatore appagato.

Quando – come nel passato – vi è povertà e/o soccombenza di una stessa analisi economica socialista, si finisce per sostenere soluzioni di timbro conservatore, che riducono la platea dei cittadini che possono sviluppare pienamente la propria persona. Portano con ciò stesso a ridurre la capacità di consumo diffuso, ad un calo di domanda interna di beni e servizi, con le conseguenti prospettive di ulteriore regressione del funzionamento del sistema economico. È questo uno degli elementi determinanti della crisi che stiamo vivendo dal 2002 al 2012: non di sovraproduzione, bensì di mancanza di assorbimento delle merci per il dimezzamento degli stipendi del lavoro dipendente che si attuò nel gennaio-marzo 2002 con il cambio interno lira-euro (taroccato all’italiana a 1000 lire per 1 euro). La crisi finanziaria dello Stato è, poi, dovuta in prevalenza al fatto che invece di far pagare tasse dirette ai molti benestanti (che, non svolgendo un lavoro dipendente, godono del privilegio dell’autocertificazione della base imponibile, e quindi della mancata tassazione), gli si chiedono i soldi in prestito mettendo all’asta buoni del Tesoro.

Con l’aggravante che non si rendono questi titoli non negoziabili sui mercati secondari, come si dovrebbe fare per l’evidente ragione che non sono titoli di una impresa qualunque, bensì di uno Stato (che dovrebbe avere sovranità di imporre i tributi necessari e sufficienti anche alla sola sua sopravvivenza). Lo Stato, pertanto, vive con i soldi in prestito dei molti suoi ladri autoctoni, e vive esponendosi, come qualunque debitore privato, alle speculazioni degli investitori nazionali ed internazionali.

Il socialismo (si chiami pure con un nome diverso, ma che abbia quel metodo indirizzato/indirizzante da/a quei valori) avrebbe ancora qualcosa da dire di decisivo per le sorti delle organizzazioni nazionali ed internazionali della comunità politica.

D.A.

 

Note

Questo lavoro è tratto da 1920-1922. Nascita e morte della democrazia in Parlamento. Dramma in cinque atti, inedito depositato presso le Biblioteche della Camera dei deputati (BCdD 2006.00751RES/1-2) e del Senato della Repubblica (BSR 258.XVII.2/1-2); tratti pure da esso: Sull’autoconvocazione in senso stretto, in «Nuovi studi politici», luglio-dicembre 2006, 3/4, a. XXXVI, nonché sul forum dei «Quaderni Costituzionali»; 1920-1922 La nuova organizzazione dei lavori della Camera dei deputati alla prova, 1920-1922 La normazione parlamentare sul bilancio e la decretazione governativa, 1920-1922 Il bacio di una consorte non importuna, la quale, femmina come è, ama un po’ di essere adulata.

[1] Due ulteriori giovani istituti del diritto parlamentare francese, portato diretto delle commissioni permanenti espressione dei gruppi parlamentari politici, comparvero nella prassi e/o nei regolamenti parlamentari alla Camera: 1) la funzione di “filtro” della commissione che curava la materia del bilancio; 2) la funzione di coordinamento interno ed esterno (nei confronti del Governo) del Presidente della Camera e di un nuovo organo, cioè della Conferenza dei presidenti delle commissioni permanenti. Si noti soltanto che sia in Italia sia, più organicamente e sistematicamente in Francia, questa prima forma di programmazione dei lavori è svolta da un organo diverso dalla Conferenza dei presidenti dei gruppi parlamentari.

[2] Sul tipo della Costituzione dell’Impero germanico del 1871, ovvero delle Costituzioni francesi del 1814 e 1830.

[3] Per l’assenza di alcuna prescrittività in tale tendenza della forma di governo italiana, può parlarsi di una mera ed incostante prassi, e non di una convenzione né di consuetudine costituzionale (ove mai si considerasse possibile la consuetudine in materia costituzionale).

[4] Per risalire all’origine delle necessità che portano a quelle riforme, si deve andare indietro per lo meno al 1912. È con la guerra (di Libia e poi mondiale) che, acuendosi il deficit di rappresentatività e le criticità della forma di governo statutaria, si innesca una maturazione che porterà alle riforme del regolamento parlamentare della Camera dei deputati nel luglio-agosto del 1920 (sedute del 24, 26 luglio e 6 agosto), e poi ad un suo perfezionamento nel giugno 1922 (22 e 23 giugno).

[5] Mi riferisco alla corrente riformista interna al partito socialista (all’epoca definito “ufficiale”), e non alla distinta formazione politica dei socialisti riformisti (o “socialriformisti”), pur sempre germinata dal partito socialista. Ciononostante anche per alcuni esponenti del partito socialista riformista, cito ad esempio Arturo Labriola, si può parlare di un loro ruolo chiave nella vicenda regolamentare osservata.

[6] Prevalentemente dalla «Critica Sociale».

[7] Cito alcuni concetti tratti dai Discorsi sopra la Prima deca di Tito Livio di Machiavelli.

[8] Art. 2 della Costituzione della Repubblica italiana del 1947.

[9] Le dinamiche del passaggio dalla democrazia degenerata alla tirannia sono analizzate nella Repubblica di Platone.