BETTINO CRAXI: USCIRE DALLA CRISI COSTRUIRE IL FUTURO

Care compagne, cari compagni, la nostra presenza a Torino ci riempie l’animo di commozione e di orgoglio. La commozione accompagna l’omaggio che rendiamo alla memoria di tutti coloro che in questa città, forte e civile, hanno pagato con la vita il loro amore per la libertà, la loro fedeltà al dovere verso le istituzioni repubblicane. Ricordiamo i morti di ieri e le vittime di questi mesi. Voglio ricordare un amico: Carlo Casalegno, le altre vittime innocenti che lo hanno preceduto e seguito nella tragica spirale culminata nella strage di Roma e nel rapimento di Aldo Moro. Essi rappresentano per noi il volto della democrazia civile e pacifica, i loro assassini, il volto della barbarie. Noi siamo qui a Torino, amici fra amici per esprimere la nostra solidarietà al popolo torinese, ai suoi rappresentanti a tutte le forze della Repubblica. Siamo qui a chiedere, delegati socialisti di ogni parte d’Italia, che siano moltiplicati gli sforzi per raggiungere i colpevoli. Chiediamo che nel processo di Torino la giustizia, per nessuna ragione, arresti il suo corso. Giudichi, lo faccia in modo giusto e che giustizia sia fatta. Torino nella storia del movimento operaio Il motivo di orgoglio nasce dalla consapevolezza che anche la storia del nostro partito si mescola e per tante parti si identifica con la storia del movimento operaio e dell’antifascismo torinese. Qui a Torino si presentava candidato socialista nel lontano 1892, Camillo Prampòlini, ancor prima che nascesse la prima sezione socialista torinese sotto la guida di Oddino Morgari, mentre aderivano al nascente Partito socialista intellettuali come Edmondo De Amicis, Cesare Lombroso, Giuseppe Giacosa, Arturo Graf. L’«andata al socialismo» di intellettuali e professori dell’Università di Torino acquistava un significato particolare. Più tardi Gramsci dirà che si andava «a scuola della classe operaia» così come capitava a lui e agli altri giovani socialisti di Torino quando vedevano passare i cortei di lavoratori per Via Po, davanti all’Università, per andare ai comizi al parco Michelotti per i grandi scioperi a tempo indeterminato nel 1911 e nel 1912. In prima linea nella difesa della linea pacifista del partito, per una sommossa a Torino nel 1917 furono processati dal Tribunale militare il direttore dell’Avanti! Serrati, il cooperatore Francesco Barberis ed altri operai socialisti. Il movimento dei consigli di fabbrica e la resistenza all’avvento del potere fascista furono un momento eroico del movimento operaio torinese. Gli squadristi di Brandimarte dovevano attendere la marcia su Roma per compiere la strage di Torino nel dicembre 1922. Un anno dopo, di Mussolini che visitava di persona la Fiat, notava Piero Gobetti: «il presidente ha aspettato dodici mesi, vuoi trovare i ribelli addomesticati, la città regale in camicia nera»; ma il suo discorso fu accolto dal silenzio ostinato degli operai. Nel 1927 si ricostituisce a Torino la prima unità di azione antifascista tra socialisti e comunisti, si ricostituisce la prima Camera del lavoro clandestino, mentre il più autorevole dirigente sindacale piemontese, Bruno Buozzi inizia a raccogliere nell’emigrazione in Francia le fila dell’organizzazione sindacale. Nello stesso anno un pugno di socialisti repubblicani democratici dà vita alla «Giovane Italia» che si collega con il «Centro-estero» anche attraverso visite a Torino di Fernando De Rosa e di Sandro Pertini. Nella lunga lotta clandestina della Resistenza il centro torinese opererà in stretto contatto con il «Centro-interno», «Giustizia e Libertà» con Vittorio Foa a Torino e Riccardo Lombardi a Milano. Fu più tardi lo stesso Morandi nel pieno della grande lotta dei partigiani piemontesi a venire a Torino per dirigere lo sciopero insurrezionale nell’aprile 1945. Una grande tradizione di lotte, del movimento operaio e dell’antifascismo, un grande contributo di sangue e di sacrifici del movimento socialista e del nostro Partito. E al coraggio e alla coerenza di queste tradizioni che dobbiamo ricollegarci per essere aiutati ed affrontare con salda energia morale e con onestà di analisi i problemi che ci stanno di fronte. Torino: il Congresso del 1955 Ventitré anni or sono si apriva a Torino il 31° Congresso del Partito socialista. Nella sua relazione l’allora segretario del Partito, compagno Pietro Nenni denunciava con un grande affresco dipinto da par suo, la condizione dei lavoratori e il regime di repressione allora imperante. «Il fatto più grave di fronte al quale ci troviamo – diceva Nenni – è proprio la sistematica violazione dei diritti costituzionali, della libertà politica e della libertà sindacale nella fabbrica, nell’azienda, nel campo, nei pubblici e nei privati uffici». E ancora: «si limitano o si sopprimono i diritti dell’operaio, del contadino e dell’impiegato sul luogo del lavoro, tentando di imporgli come deve votare, almeno nella fabbrica e nell’azienda, cosa deve leggere, o perlomeno non leggere, cosa deve dire o perlomeno tacere». Era questa la situazione dopo gli anni duri del dopoguerra delle aspre divisioni e della repressione antisindacale. A 23 anni di distanza possiamo fare un bilancio del balzo in avanti compiuto dalla società italiana nel campo delle libertà politiche e sindacali. Non è stato il frutto di una evoluzione naturale e spontanea. Questa trasformazione democratica è stata il risultato di lotte accanite, tenaci e coraggiose. Chi troppo spesso e disinvoltamente scrive la storia del Partito socialista con un susseguirsi di fallimenti e di sconfitte dimentica il contributo che abbiamo dato a queste lotte, dimentica che tanta parte delle conquiste del mondo del lavoro si debbono all’apporto socialista. Esso fu decisivo nel determinare, partendo proprio dal Congresso di Torino, una svolta democratica nella vita politica nazionale che maturò negli anni successivi. Dimentica l’apporto principale all’impresa più significativa nel campo. dei diritti del lavoro e che si concretò nello statuto dei diritti dei lavoratori al quale il Psi ha legato con il suo, il nome di Giacomo Brodolini. Nenni parlava allora della «Costituzione calpestata» denunciando la mancata attuazione delle Regioni, della Corte costituzionale, del Consiglio superiore della Magistratura, del referendum popolare. L’edificio costituzionale sarà avviato al completamento negli anni successivi in gran parte per l’impulso e l’iniziativa dei socialisti e per le condizioni che essi posero alla base della loro partecipazione a coalizioni di governo. Il Congresso di Torino fu sotto certi …

DISCORSO TENUTO DA RICCARDO LOMBARDI AL SALONE MATTEOTTI DI TORINO IL 1° MAGGIO 1967

Compagni, ho scelto io stesso il tema di questa nostra conversazione, i problemi della programmazione e le implicazioni politiche che essa comporta, perché io sono d’accordo con tutto il partito in questo terreno, cioè che al centro dell’azione socialista è il problema della programmazione. Io credo che sia stata una giusta scelta quella di avere accentuato fortemente l’importanza che l’introduzione di una politica di piano ha nel nostro paese. E tuttavia credo che sarebbe un grave errore, un autocompiacimento, la convinzione che basti un provvedimento legislativo, o basti una serie di iniziative di carattere parlamentare, perché questo problema sia bene impostato, sia l’inizio di sviluppi coerenti e non contraddittori; cioè temo che vi sia un pericolo di mistificazione (riconosciamolo francamente) nella stessa sottolineatura che si dà al problema. Questo rischio di mistificazione nasce essenzialmente da una sottovalutazione degli elementi qualitativi rispetto agli elementi quantitativi, essendo gli elementi qualitativi di una programmazione quelli che ne definiscono il carattere, la portata e anche l’avvenire. Da questo punto di vista si è fatta strada, con una certa faciloneria, l’idea che la programmazione sia in sé e per sé un’acquisizione socialista, e ciò non è vero: ciò corrispondeva a una certa fase della politica economica del nostro paese e fuori, allorché economisti liberali, anche se progressisti, pensavano che il socialismo fosse tutto nel piano e basta; che era poi una trasposizione in termini ammodernati della vecchia interpretazione positiva del marxismo come fatto puramente economico. Ma la situazione che si è evoluta negli ultimi decenni, in Europa e nel mondo, quella che noi qualifichiamo come fase di neo-capitalismo per contrapporla in certa maniera al vecchio capitalismo, ha fatto sì che il problema della programmazione non sia più una specifica rivendicazione socialista. La rivendicazione socialista nasce, ma nasce a valle di una scelta anteriore sulla necessità di una programmazione. Una volta il capitalismo era giustamente qualificato e contraddetto e criticato per il suo carattere anarchico, per la sua incapacità di dominare coscientemente l’organizzazione economica della società, e non soltanto la ripartizione del reddito, ma anche la formazione del reddito e quindi per la incapacità conseguente di dominare i cicli: gli si contestava perciò di portare necessariamente a delle crisi di sovrapproduzione e di sottoproduzione provocando nella società uno stato di permanente instabilità. La programmazione, come intervento cosciente del potere pubblico nella formazione e nella distribuzione del reddito, era qualche cosa di assolutamente inassimilabile per il vecchio capitalismo, il quale appunto si basava sulla potestà del mercato che poi veniva interpretata come una democrazia del mercato. Ricorderete il motto di Einaudi alla vigilia della seconda guerra mondiale, quando identificava una forma di democrazia economica con la libertà del consumatore: era il consumatore che col suo acquisto giorno per giorno deponeva un bollettino di voto democratico. La situazione oggi è diversa. Oggi il capitalismo è diventato il neo-capitalismo, è diventato pianificatore. È diventato pianificatore perché il capitalismo non è più quello di prima: non dico che sia migliore, dico che è diverso, e ci sono alcuni fatti principali che motivano e giustificano questa profonda evoluzione, che ci costringe, come socialisti, a guardare l’avversario che abbiamo di fronte, non quello vecchio, ma quello vero, quello reale, quello di oggi, e a non sbagliarci sul tiro perché altrimenti spareremmo a vuoto. Oggi il capitalismo ha bisogno di una pianificazione per molte ragioni, e prima di tutto perché il capitalismo nuovo è un capitalismo che punta sulla produzione di massa, è un capitalismo il quale ha bisogno di una espansione continua dei mercati; oggi non è più concepibile un capitalismo che segua la linea di sviluppo del vecchio capitalismo, quello che fu criticato da Marx, vale a dire che abbia una tendenza prioritaria alla accumulazione e quindi alla depressione permanente della capacità di consumo delle masse popolari. Quale era il succo della critica marxista del secolo scorso, ancor oggi valida, ma entro certi limiti, diversi dai limiti di allora? Il capitalismo nella sua corsa alla capitalizzazione del reddito e al suo reinvestimento tendeva, per sua forza naturale, a depauperare permanentemente la capacità di acquisto della maggioranza della popolazione, e, puntando alla acquisizione del massimo reddito, puntava, come conseguenza, alla diminuzione massima possibile dei salari, ridotti al livello di sussistenza. Questa diminuzione permanente dei salari che cosa implicava? Da un lato, attraverso gli investimenti maggiori e progredienti, una capacità produttiva sempre maggiore, dall’altro capacità di consumo e di acquisto da parte delle masse popolari sempre minori, di qui la crisi e la necessaria catastrofe del capitalismo, stretto, a un certo punto, nella morsa dell’eccesso di produzione e della depauperazione del consumo. La situazione di oggi è diversa. Sotto l’impulso di due elementi fondamentali che hanno caratterizzato la società moderna nel secolo scorso, e soprattutto nel secolo in cui viviamo, vale a dire la democrazia politica e la forma sindacale, il vecchio capitalismo, che tendeva esclusivamente all’accumulazione, si è modificato: è stato costretto dalla pressione dei sindacati, che hanno contestata la riduzione dei salari, e dalla democrazia politica, che ha immesso nel corpo sociale la pratica ormai generalizzata delle spese sociali, a lasciare la presa su una quota sempre più rilevante di reddito destinata all’investimento e a trasferirla ai consumi. Da questo punto di vista quindi la corsa quasi fatale verso una sempre maggiore accumulazione di capitale, corrispondente a una sempre diminuita capacità di consumo da parte della popolazione, ha subito una radicale modificazione. E aggiungo che, anche la scappatoia rappresentata (secondo la critica postmarxista, per esempio di Rosa Luxembourg) dal colonialismo, vale a dire il fatto che la diminuzione della capacità di acquisto dei prodotti da parte della popolazione metropolitana fosse compensata da un acquisto della popolazione coloniale in una ricerca di mercati che supplissero alla deficienza di domanda dei mercati nazionali, anche questo fenomeno a poco a poco, con l’insorgere del movimento di liberazione dei popoli oppressi, con la nascita di economie che tendono a una propria organizzazione autonoma, con la frantumazione del mercato generale capitalistico ha fatto sì che il panorama generale del capitalismo sia mutato. Questo è il …

LA CONDANNA MORALE DEL FASCISMO NON HA BISOGNO DI “PATENTI”

di Walter Galbusera Fondazione Anna Kuliscioff Al corteo del 25 aprile di Milano si sono ripetute le tradizionali manifestazione di intolleranza contro la Brigata Ebraica che sfilava nel corteo, seguita dal PD che non è stato risparmiato dalle contestazioni. Si è trattato comunque di vicende di preoccupante valore simbolico, ma circoscritte. La manifestazione è stata, come sempre, imponente e per circa la metà composta di aderenti alla sinistra più radicale con un’alta presenza di giovani . I “5 Stelle si sono posizionati nel corteo fra il redivivo Partito Comunista e i movimenti filo palestinesi che innalzavano uno striscione richiedendo di attribuire una medaglia d’oro per la resistenza al popolo palestinese. E’ apparso per la prima volta un manifesto a favore di Assad e dell’Iran mentre, curiosamente, l’interminabile corteo era chiuso da un gruppo di giovani di un collettivo che reggevano un telo su cui era scritto perentoriamente: “ Euro di m…..riliberiamo l’Italia”. A seguire il cordone delle forze dell’ordine. Fin qui la breve cronaca. Sarebbe invece opportuno aprire una pacata riflessione su una delibera del consiglio comunale di Milano che ha introdotto nelle procedure burocratiche per chiedere la concessione di suolo pubblico, sale e spazi per lo svolgimento di manifestazioni e iniziative, patrocini, contributi diretti o indiretti, la sottoscrizione di una dichiarazione in cui si afferma “di riconoscere e rispettare i principi, le norme e i valori della Costituzione Italiana, repubblicana e antifascista che vieta ogni forma di discriminazione basata su sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.” Per la verità, il richiamo alla Costituzione, frutto di “un taglia e cuci” poco elegante del testo della Suprema Carta, nell’intenzione di combattere le discriminazioni rischia di introdurne di nuove senza ottenere alcun risultato. Questo tipo di “patente” è però stata introdotta anche a Torino, Padova, Vicenza e in tutte le occasioni è stata votata anche dai consiglieri 5 Stelle. Per combattere sul piano della repressione i sintomi di una (improbabile) minaccia fascista bastano le leggi in vigore che debbono essere applicate dalla Magistratura. Per farlo in termini preventivi sul piano politico e culturale, è necessario tenere viva la memoria storica delle cause che portarono i fascisti al potere, della ventennale dittatura, della guerra e della Resistenza che è patrimonio di un vasto schieramento di forze politiche di orientamenti diversi che si unirono sull’unico obiettivo comune, quello di sconfiggere il fascismo. Qualche effetto paradossale si è già visto a Padova, dove la commemorazione di una studentessa infoibata dai titini è stata prima vietata ma successivamente, trovato un prestanome, il permesso è stato concesso. Ma vi sono altri interrogativi. Quali sarebbero le sanzioni se un firmatario della “Dichiarazione” mentisse? Più ancora chi sarebbe in grado di provare quello che si verrebbe a configurare un falso in atto pubblico? Più che costruire nuovi e inutili strumenti burocratici, che paradossalmente tolgono credibilità alla causa che vorrebbero servire e sulla cui legittimità si potrebbe discutere a lungo, non sarebbe meglio impegnarsi per garantire effettivamente il rispetto delle norme in vigore sul territorio della repubblica? Il punto è che non esistono reati di opinione perseguibili in quanto tali . Dichiararsi fascisti può suscitare una legittima indignazione ma l’unica sanzione applicabile è una condanna politica e morale. Un brillante articolo nelle pagine locali di un importante quotidiano nazionale sottolinea che, mentre “ nel ventennio si obbligavano i Professori universitari a giurare fedeltà al regime e chi non lo faceva era escluso dalla cattedra, a Vicenza e Padova cambia l’ordine degli addendi (il plateatico al posto della cattedra e l’antifascismo al posto del fascismo). Anziché dar vita a una parodia della “tessera del pane”, forse i Sindaci avrebbero fatto meglio a concentrare i propri sforzi sul controllo degli appalti che adottano il meccanismo del massimo ribasso e non garantiscono la clausola sociale a difesa dei lavoratori dipendenti dalle aziende appaltatrici che perdono il contratto. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

25 APRILE 2018

di Franco Astengo Norberto Bobbio, molti anni fa, affermava che la celebrazione della Resistenza rappresentava una sorta di esame di coscienza laico sul presente e il momento della consapevolezza della grande distanza tra gli ideali partigiani e l’Italia contemporanea. Questa affermazione può rappresentare la linea –guida da mantenere per ricordare quei fatti della tragedia che il popolo italiano ha vissuto più di settant’anni fa. A patto però che per guardare all’attualità e per traguardare il futuro non si dimentichi la memoria. Abbiamo vissuto mesi nel corso dei quali ripetutamente la memoria della Resistenza è stata offesa da rigurgiti neo – fascisti comparsi da un passato cui non possiamo permettere di ritornare. E’ il momento di rispondere con grande solennità assumendoci tutti assieme un impegno inderogabile. C’è di più in questa post -modernità: il fascismo vive tra noi, nei comportamenti quotidiani dell’egoismo, dell’individualismo, della ricerca della sopraffazione degli altri, nell’inganno quotidiano della politica ridotta a pura lotta per il potere, alla guerra che dilania interi popoli e rischia, ancora una volta, di incendiare il mondo. Ricordare oggi il 25 Aprile, il giorno più importante della storia repubblicana, significa prima di tutto compiere un dovere civico e morale di altissimo valore, significa stare dalla parte di chi considera la storia patrimonio insuperabile delle radici di un popolo, significa combattere per la verità e per la difesa dei principi di fondo della nostra convivenza civile e politica. Viviamo un clima culturale, assistiamo all’emergere di silenzi, zone d’ombra, vuoti, a pentitismi rivolti magari in altre direzioni, ma che sostanzialmente coinvolgono la memoria di quello che è stato l’avvenimento fondamentale nella storia d’Italia. L’ANPI si è, nel recente passato, coerentemente schierata contro l’idea di deformare la Costituzione, alterare l’equilibrio tra i diritti e i doveri dei cittadini, restringere l’esercizio delle libertà democratiche. Quell’impegno va rivendicato e deve rappresentare l’agenda quotidiana per tutti quelli che intendono impegnarsi per difendere e affermare la nostra convivenza civile. Allora bisogna ricordare, è necessario avere il coraggio di ricordare senza cedere alle mode corrente del revisionismo: alla liberazione dell’Italia dalla dittatura si poté arrivare grazie al sacrificio di tanti giovani, ragazzi e ragazze che, pur appartenendo a un ampio schieramento politico (c’erano i cattolici, i socialisti, gli azionisti, i militari monarchici, i comunisti. Ma si chiamavano con un solo nome: I Partigiani). Questi ragazzi combatterono fianco a fianco, con unità d’intenti e d’azione, con un grande traguardo comune: il riscatto dell’Italia invasa e un diverso avvenire, fatto di giustizia e di eguaglianza La storia dell’Italia Repubblicana sta scritta per intero su quel monumento che Piero Calamandrei definì “Ora e Sempre Resistenza”. Sandro Pertini parlò della Resistenza come di un “Secondo Risorgimento, i cui protagonisti, questa volta, furono le masse popolari”. Per favore nel ricordare questi passaggi determinanti per la nostra democrazia non si ceda all’idea che si tratti semplicemente di retorica. Si tratta, invece, di ricordare e ricostruire i momenti determinanti della vita della nostra Nazione e dell’Europa nel momento della sconfitta del nazismo, Nazismo che è stata l’espressione più evidente della ferocia della “banalità del male”. Nazismo del quale il fascismo fu corresponsabile, pienamente corresponsabile e non semplicemente complice. Non c’è nessuna ritualità, nessun adempimento di un ormai stanco cerimoniale nel ricordare la storia della Resistenza ed esiste uno stretto legame fra il 25 aprile e la battaglia che oggi deve essere condotta contro le diseguaglianze, le sopraffazioni, i fenomeni di sfruttamento, la disgregazione sociale che caratterizzano drammaticamente l’attualità. Così come esiste una stretta connessione tra il 25 aprile e la ricerca della pace: un tema oggi assolutamente centrale in una situazione che vede, in diverse parti del mondo, pericoli concreti di ripresa bellica. Parlando della Resistenza oggi non intendiamo certo approfondire la ricostruzione storiografica di quei fatti, ma semplicemente sfatare quella teoria revisionista che, negli ultimi anni, va molto di moda nell’indicare la Resistenza come semplice “Guerra Civile”. Quelle ragazze e quei ragazzi che si erano dati l’appellativo di Partigiani si accinsero, da subito, dal 26 Aprile a ricostruire il proprio Paese. Genova, soltanto per fare un esempio, fu liberata dal popolo: l’orgoglioso Juncker Prussiano; Meinhold depose la propria spada davanti all’operaio Remo Scappini e subito la Città riprese a funzionare in tutte le sue attività. Quando gli alleati, tra il 27 e il 28 Aprile, risalendo la riviera di Levante arrivarono a Nervi scoprirono, con loro grande stupore, che funzionava già perfino il servizio tranviario. Eppure pensate ai bombardamenti, alle deportazioni, alle stragi che avevano colpito la nostra terra in quegli anni: ma la volontà di riprendere a vivere era stata troppo forte. Con la Liberazione dell’intero territorio nazionale dall’invasore nazista e dai mercenari della RSI quelle ragazze e quei ragazzi si accinsero a concorrere alla costruzione della nuova Italia, carichi di tanto impegno, dedizione, speranza. Guardiamo agli anni che ci separano da quei giorni di lotta e di speranza. Ci sono state contraddizioni, difficoltà, pagine brutte e belle ma per alcuni decenni possiamo dire che si è trattato di anni d’impegno per la coesistenza pacifica, per il dialogo internazionale, per la ricerca dell’unità europea oltre che di attività solidale verso i movimenti di liberazione nazionale in Africa, Asia, America, Europa. Sono stati difesi e diffusi gli ideali antifascisti e democratici. Sono stati anni di forte impegno contro ogni tentativo di sopraffazione mascherata da tentativi golpisti, da azioni terroriste e stragiste, da iniziative finalizzate a colpire e restringere ruolo e funzioni delle istituzioni nate dalla Resistenza e dalla Carta Costituzionale. Sono stati anni impegnati nella difesa delle culture nazionali nel segno della solidarietà internazionale, contro ogni forma di discriminazione e per l’affermazione dei diritti dell’uomo e di uno sviluppo economico, sociale e culturale , nel rispetto della Giustizia. Quelle ragazze e quei ragazzi non seppero soltanto respingere l’invasore e cacciare il tiranno. Una sapienza politica illuminò la Resistenza: quella stessa sapienza politica che fu posta in opera nello scrivere la Costituzione Repubblicana. L’insegnamento di fondo, che ci deriva dal ricordare quel momento storico deve guidarci anche oggi per mettere in primo piano, fra tutti, la difesa …

DAL PUNTO DI VISTA DEL FRONTE POPOLARE: LE ELEZIONI DEL 18 APRILE 1948, UNA SCONFITTA PER IL MOVIMENTO OPERAIO

di Franco Astengo 18 aprile 1948, settant’anni fa, si svolsero le elezioni per la Prima legislatura Repubblicana. In questi giorni saranno molteplici i ricordi, le analisi, le rievocazioni di quel passaggio fondamentale nella storia d’Italia ed è facile prevederne il tono complessivo: l’Italia scelse l’Occidente e il cosiddetto “mondo libero”, la lungimiranza di De Gasperi permise la formazione di un governo di coalizione nonostante la DC disponesse della maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, si poté così avviare felicemente la ricostruzione dal disastro bellico. Con questo intervento l’intenzione è quella di fornire un minimo contributo alla ricostruzione di ciò che accadde in quei giorni da un altro punto di vista: quello degli sconfitti rappresentati dal Fronte Democratico Popolare. In questo senso si può affermare che il 18 aprile del 1948 fu battuto il movimento operaio italiano. Per eseguire quest’operazione che sicuramente (e volutamente) rappresenta una parziale ricostruzione della memoria si è seguito il “file rouge” di un testo, del quale si ritroveranno testualmente qua e là affermazioni e analisi: si tratta del volume “Il voto degli Italiani”, di Celso Ghini. Celso Ghini fu per lungo tempo responsabile dell’ufficio elettorale del PCI a Botteghe Oscure, quell’ufficio elettorale che, in tempi nei quali l’informatica era di là da venire, era considerato più attendibile dello stesso Ministero nel fornire i risultati delle consultazioni, anticipandone anche l’esito. Un testo edito dagli Editori Riuniti del quale conserviamo la prima edizione, uscita nel febbraio 1975. La traccia che quel testo ci fornisce nel ricostruire le vicende culminate nelle elezioni del 18 aprile 1948, inizia dal mutamento del quadro internazionale e l’avvento della guerra fredda. Si può dunque partire nella nostra ricostruzione citando il famoso discorso tenuto da Churchill a Fulton, negli Stati Uniti, il 5 marzo 1946. In esso il vecchio leader conservatore, appena sconfitto alle elezioni, aveva lanciato in forma drammatica l’espressione “cortina di ferro da Stettino a Trieste” per simboleggiare la separazione invalicabile che si era venuta a creare fra gli stati ex alleati dell’est europeo e il resto del mondo. Il trattato di pace non era ancora stato concluso e il processo di Norimberga in corso, ma Churchill sosteneva già la necessità di condurre nei confronti dell’URSS una politica di forza, usando il possesso – in quel momento esclusivo – della bomba atomica da parte degli USA quale minaccia potenziale. Il discorso di Fulton viene indicato come il punto di partenza effettivo della guerra fredda, anche se l’adozione ufficiale del termine viene fatta risalire al 12 marzo 1947 con l’annuncio della cosiddetta “dottrina Truman” con l’impegno di intervento nella guerra civile greca. La guerra fredda, ovverosia il rovesciamento delle alleanze per mutare i rapporti di forza e i risultati della guerra covava dal 1944 da quando apparve chiaro che la disfatta della Germania hitleriana era prossima e inevitabile. All’interno di questo quadro sotto la pressione ideologica, politica ed economica degli Stati Uniti i partiti liberali, democratici, cristiani, cattolici, radicali, repubblicani, socialdemocratici europei ruppero l’unità antifascista dei fronti di liberazione nazionale che erano stati creati durante la guerra e la Resistenza nei paesi vittime dell’aggressione e dell’occupazione nazista e fascista, allontanando dai governi occidentali i rappresentanti comunisti e socialisti. Manifesto del Partito Socialista Italiano per le elezioni del 1948 In Italia ciò avvenne a seguito del viaggio di De Gasperi negli USA avvenuto nel gennaio 1947. Al suo ritorno, il 17 gennaio, De Gasperi di sua iniziativa aprì la crisi di governo: la crisi si risolse con la formazione di un tripartito DC-PSI-PCI ma con l’esclusione dei socialdemocratici che, proprio nei giorni del viaggio del Presidente del Consiglio, avevano attuato la scissione del Partito Socialista creando un proprio soggetto politico in origine denominato Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI). I passaggi immediatamente successivi possono essere così riassunti. Nelle trattative per la formazione del nuovo governo erano stati formalmente accettati i 14 punti presentati dal socialista Morandi attraverso la realizzazione dei quali si prevedeva di arrestare l’inflazione e difendere il tenore di vita dei lavoratori tenendo conto che la produzione industriale aveva, in quel momento, raggiunto l’80% di quella di anteguerra mentre i salari non superavano il 45-50%. Tutte le proposte avanzate dai ministri socialisti e comunisti tendenti a riequilibrare quel divario furono in prima istanza respinte dai ministri democristiani, nonostante l’accordo di governo realizzato attorno ai già citati 14 punti. Nello stesso tempo si tentò di bloccare il grande movimento dei contadini per il blocco delle disdette di mezzadria, la revisione dei patti di colonia, la riduzione degli affitti. Il 20 Aprile 1947 si votò per le elezioni regionali siciliane e si registrò un successo del Blocco del Popolo formato da comunisti e socialisti con il 29,13% mentre la DC (che nelle elezioni dell’Assemblea Costituente aveva raggiunto il 33,62%) si fermò al 20,52% mentre il PSLI conseguì il 4,2%. La risposta a questo risultato elettorale si ebbe il 1° Maggio con la strage di Portella della Ginestra. Il 13 maggio 1947, all’indomani della firma del Trattato di Pace e della votazione all’Assemblea Costituente sull’articolo 7 che regolava i rapporti tra Stato e Chiesa (votato anche dai comunisti e non dai socialisti) la DC aprì nuovamente la crisi di governo. La conclusione della crisi si ebbe il 19 giugno: De Gasperi aveva formato il nuovo Governo estromettendo comunisti e socialisti e inserendo come vice presidente e ministro del bilancio il liberale Einaudi. L’Assemblea Costituente concesse la fiducia con 274 voti contro 231. Intanto la situazione internazionale stava davvero precipitando nella guerra fredda, con l’intervento diretto degli inglesi in Grecia contro i partigiani comunisti e l’apertura di una “guerra delle monete” in Germania dove gli americani introdussero forzatamente un “marco occidentale” con la reazione sovietica di imporre restrizioni nel passaggio delle merci tra le diverse zone d’occupazione di Berlino, cui gli occidentali risposero con il famoso “ponte aereo”. L’esito fu quello di allontanare la possibilità di riunificazione della Germania, puntando americani e inglesi alla formazione – come, in effetti, avvenne – di uno stato occidentale, cui l’URSS rispose in seguito con la creazione della Repubblica …

RAGNATELA DI MARE SOLIDARIETA’ E LAVORO

di Pierfranco Pellizzetti La tradizione storica della Pietro Chiesa. (Compagnia Portuale Pietro Chiesa Genova) Prefazione La Compagnia dei lavoratori del carbone “Pietro Chiesa“, mentre compie i propri cento anni di vita, assiste con crescente preoccupazione al diffondersi della “perdita di memoria” storica. Connotato inquietante, tanto in politica come a livello sociale, della lunga transizione verso l’ignoto di fine secolo. Per questo promuove l’iniziativa del piccolo libro sulla storia dei carbuné, scritto con la costante attenzione ad un presente che sappia farsi consapevole futuro. Noi non siamo gente nostalgica, non coltiviamo romanticherie e neppure melanconie. Per noi ricordare vuol dire tenere sempre ben presenti le parole dei maestri di un’Italia non “allineata”, non omologata dal potere: il Carlo Giulio Argan de “la storia non come memoria ma presente e realtà in atto “; il Franco Fortini de “il diritto della memoria come analisi del passato per progettare criticamente il futuro”. Per noi la memoria non è, né deve essere, commemorazione o reducismo. Quell’appiattimento nella maniera che ha prosciugato la linfa vitale di ogni simbolo della nostra storia; che ha reso il 25 Aprile una data svilita, il Primo Maggio un rito ormai senza senso, l’epopea della Resistenza un involucro retorico incomprensibile ai più giovani: tutto un patrimonio identitario, grande e prezioso, buttato via come cenere al vento. Dovremo – dunque – convenire che la cifra culturale italiana si riduce alla retorica della banalità? In tal caso, dovremmo limitarci alla solita (e manieristica) presa di distanza dal costume nazionale all’insegna dell’anti-italianità? I tempi chiedono ben altro. Lo dicevamo: l’intelligenza del passato è un modo per proiettarci nel futuro. Per trovare una piattaforma solida di certezze condivise da cui riprendere il nostro cammino. Farlo, mentre la forza corrosiva dell’ideologia liberistica, all’opera da almeno due decenni, ha reso quasi inutilizzabili i due principali strumenti per produrre identità sociale: la politica e il lavoro. Strumenti tra loro intimamente connessi. Noi siamo convinti – infatti – che l’attuale crisi della politica derivi – in primo luogo – dallo smarrimento del concetto di lavoro quale primario “determinante” sociale. Se così è, allora diventa vitale recuperare il ricordo delle grandi lotte sociali dei nostri predecessori, i loro formidabili sforzi organizzativi, la loro faticosa conquista di una coscienza e un ruolo politico; ricordare tutto ciò significa riconquistare valori forti. Valori capaci di riempire un vuoto etico; quel “gioioso suicidio pubblico” di una sinistra subalterna, all’inseguimento dell’ideologia del “più mercato” e del sempre meno socialità. Una sinistra ipnotizzata dallo specchio deformante per cui il cittadino-lavoratore dovrebbe, quasi per magia, trasformarsi in cittadino-consumatore (cui l’odierna propaganda del pensiero unico finge di consegnare lo scettro illusorio di “grande decisore finale”). Lavoro e politica ricordati e ritrovati, dunque. Ricordati e ritrovati anche nelle vicende dei carbuné che, un secolo fa, edificarono sotto la Lanterna quella che venne chiamata “la cittadella della democrazia”. Ricordare e ritrovare. Per battere le menzogne di un’era che – come ci suggerisce il vecchio saggio Eric J. Hobsbawm – “sarebbe piaciuta a Maria Antonietta”: non c’è più pane ma ci sono le “brioches”. Tirreno Bianchi Console della “Pietro Chiesa”     SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

COMUNICATO SEMPRE AVANTI SOCIALISMO XXI SECOLO

www.socialismoitaliano1892.it socialismoitaliano1892@gmail.com Gruppo Facebook: SempreAvantiSocialismoXXI     Comunicato Stampa Dal 1 gennaio 2018, secondo l’Osservatorio indipendente di Bologna, gli incidenti mortali, dai quali sono esclusi i decessi di chi si reca al lavoro, sono 143 e non sono dati aggiornati. Poco meno di due morti al giorno. La magistratura accerterà, con i tempi che purtroppo conosciamo, le cause, ma noi pensiamo sia scandaloso che l’opera di prevenzione non riesca a evitare il ripetersi di questa mattanza. Il lavoro è un diritto. La sicurezza un dovere a cui lo Stato deve dare la massima attenzione incrementando la vigilanza. In Toscana, secondo i dati non aggiornati, a partire dal primo gennaio di quest’anno le morti sul lavoro sono 9 e con i lavoratori deceduti a Livorno sono giunti a 11. Non possiamo accettare l’idea che il sacrificio di vite umane sia il prezzo da pagare per assicurare lo sviluppo della nostra economia e ancor meno possiamo accettare che la concorrenza e la riduzione dei costi comporti il rischio della vita di chi lavora. I socialisti si uniscono al lutto delle famiglie e della comunità livornese, ma chiedono che dopo il lutto si intraprendano tutte le iniziative necessarie per evitare che le morti sul lavoro rimangano solo un dato statistico senza conseguenze. Il Coordinatore per Sempre Avanti Socialismo XXI Secolo Aldo Potenza   Comunicato Stampa.pdf SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA SCUOLA CHE VORREI

di Marzia Casiraghi “Io propongo un sistema di #istruzione laico e indipendente, che emani e trasmetta passione e interesse, che incolli i ragazzi alla sedia trasformando lo stantio obbligo scolastico in voglia matta di imparare, di informarsi continuamente e di capire. Che insegni a esser liberi e che spinga verso la continua ricerca, facendo leva sulla curiosità e sull’onestà intellettuali. Un sistema che si avvalga di insegnanti selezionati tramite opportuni concorsi atti a vagliare soprattutto il loro potenziale di coinvolgimento, di affabulazione; la loro capacità di esser chiari e di trasmettere interesse. Propongo una scuola in cui la verifica e il voto valgano meno della discussione, del dialogo educativo, della maturazione del senso critico e della ricerca della propria identità. Una #scuola che non costringa (tramite subdole forme di orientamento) i ragazzi a seguire strade che nulla hanno a che fare con le loro inclinazioni e i loro interessi personali. Una scuola che abbandoni le sue scellerate impostazioni bancarie fatte di debiti e crediti, come se la cultura fosse un prodotto da vendere. Una scuola che privilegi la domanda alla risposta. Che porti avanti l’idea di una cultura fine a se stessa e disinteressata, orientata semmai alla realizzazione – e quindi alla Felicità – personale. Che sforni persone più che cittadini e consumatori. Che rimetta al centro il tema della moralità (autonoma e razionale, equidistante – e di molto – da qualsivoglia credo religioso o politico). Che rompa l’alleanza con le industrie e che smetta di far lavorare i ragazzi gratis abituandoli a una ben “proficua” sudditanza nei confronti dei loro futuri datori di lavoro. Che smetta di seminare il panico nei confronti di quell’incerto e ansiogeno futuro occupazionale dei nostri ragazzi, che è tale solo per scelte e finalità ben precise di chi ha in mano le redini dell’economia di un Paese malato come il nostro. Propongo che la scuola dell’obbligo si fermi a quattordici anni, proprio al fine di permettere a ognuno di seguir la propria strada, quindi anche quella dell’artigianato e delle occupazioni tecniche, senza sentirsi obbligato a studiare inutilmente, per anni, materie per cui non prova amore né interesse. Propongo che si tengano ben lontane, dal mondo della scuola, dinamiche come quella della valutazione del lavoro degli insegnanti; un lavoro i cui frutti, ammesso che possano esser misurati, nella vita di una persona si apprezzano anche a distanza di decenni. Un lavoro che, proprio per questo motivo, in alcun modo può venir equiparato a moltissime altre professioni i cui risultati (in termini di oggetti prodotti, di contratti stipulati, di merce venduta, ecc.) possono invece venir misurati velocemente, periodicamente, oggettivamente. Propongo di mettere in piedi una scuola che sappia farsi da parte, che si concretizzi in un autentico servizio alla persona e che non si imponga con orari quotidiani interminabili senza lasciar più tempo libero ai nostri giovani. Anzi, che insegni loro ad amministrare, a gestire consapevolmente e saggiamente questo loro vissuto pomeridiano, al fine di imparare sempre più a riflettere, a meditare sul senso che la loro vita, per piccoli ma significativi aggiustamenti, continuamente prende. Un tempo in cui riabilitare le relazioni sociali vere, lontano da smartphone e altre sciocchezze, che esercitano la sola, dissennata funzione di mantenerli deconcentrati. Un tempo che imparino anche “metter da parte“, privilegiando l’Adesso al passato e al futuro. L’Attenzione, al rimorso e all’ansia. A questo proposito, propongo una scuola che torni a puntare sul docente – quello stesso docente di cui deve ricominciare a fidarsi avendolo accuratamente selezionato proprio per le sue doti umane oltre che per le sue qualità culturali – che sappia, appunto, dare (e diffondere) fiducia nei confronti dei suoi Maestri. Un sistema scolastico che si affidi alle parole dei suoi #Maestri, al loro amore per una disciplina di cui sono appassionati, al loro carisma comunicativo, invece che cercare in tutti i modi di sostituirli con sistemi automatici, incoraggiando così usi – sempre più invadenti e intromissivi – di quella tecnologia che sta drammaticamente prendendo il sopravvento sulla nostra Vita e sulla nostra Libertà.” SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

L’EPICEDIO

I funerali di Filippo Turati a Parigi nel marzo del 1932 di Claudio Treves Discorso pronunciato due mesi dopo la morte di Turati. Pubblicato a cura di Alessandro Schiavi sul libro “Esilio e morte di Filippo Turati (1926-32)” per le edizioni Opere Nuove, Roma – 1956 Spettava al discepolo, amico e collaboratore proscritto anch’egli, Claudio Treves, dire di Filippo Turati, due mesi dopo la sua morte, nella manifestazione indetta e organizzata il 21 maggio dalla Concentrazione antifascista, quello che egli fu, quello che fece, quello che insegnò e che si deve ricordare di lui, suscitando, scrive “La Libertà” del 23 di maggio 1932, col fascino della sua nobile eloquenza, fremiti di commozione e una prolungata ovazione attestante l’ammirazione e la riconoscenza dei convenuti. Una sensazione strana: mi pare che non io, ma lui stia per salire alla tribuna: ispido in volto, le spalle aperte, agitate come quelle del buon artiere che si accinge a una difficile bisogna, il profilo adusto, gli occhi fosforici di fauno buono, dove l’ironia sprizzava, pieni di pathos, pieni del tragico umano, così, appunto, come tante volte lo vedemmo salire per commemorare Cavallotti o Bissolati, Amendola o Matteotti. Di dove veniva a lui quella potenza di evocazione che dava luce e spasimo? Eloquenza enorme: voglio dire fuori di ogni consueta norma letteraria. Eloquenza che trattava il dolore, il sangue, l’eroismo, il sacrificio come materia solida e ne faceva zampillare tutto lo spirituale, plasmandola in pura bellezza, lirica e demonica, che penetrava nei cuori urgendo come anelito, come ansia di azione morale, come volontà decisa, armata, pronta per l’esempio, pronta per il combattimento. Direi questo assurdo. Lui era l’unico oratore per questo rito per questa commemorazione. Non noi che pieghiamo sotto l’onere tremendo, sotto il dovere, più alto delle nostre forze. Il nostro necrologio e in troppa gran parte il necrologio nostro, un autonecrologio. Non noi, che siamo vissuti in lui, di lui, per lui; che abbiamo agonizzato e siamo in gran parte morti della sua agonia, della sua morte. Quando ciò avvenne, la sera del 29 marzo, in quel letto bianco, in quella camera al quinto piano di Boulevard Ornano – umile come la cella di un certosino, riempita tutta, dietro il capezzale, della grande immagine viva di Colei – come egli scrisse.- con la cui vita fu sua grande ventura intrecciare la sua vita, la consigliera, la consolatrice, Anna Kuliscioff e lo vedemmo a poco a poco sparire nel rantolo alla fine taciuto, nel polso svanito, nello sguardo fatto vitreo, nella soffusa serenità dei lineamenti, come se, alfine, tutta la sua intrinseca gentilezza, tutta la sua infinita tenerezza si fossero liberate dall’armatura del combattente, che non aveva mai conosciuto ne tregua ne riposo – e le donne pie ed i fedeli amici che l’avevano assistito scoppiarono in un tumulto di singhiozzi infrenabili – quando ciò avvenne, quella sera in un solo momento due cose percepimmo insieme: la voragine che si era scavata nei nostri cuori, per non colmarsi più, la rivelazione, balenata improvvisa come una luce nella notte di ciò che veramente Egli era, di ciò che Egli era stato, di ciò che Egli sarà – per noi – sempre. “Morire è divenire” – ha detto Hegel. Egli era il nostro socialismo; Egli era l’Italia, Egli era tutto l’anelito del nostro Paese, ad essere buono, giusto, grande, libero in una umanità giusta, buona, grande, e liberata. Come l’Antico poteva dire: ” ho amato la giustizia; ho odiato l’iniquità. Per questo muoio in esilio“. Propterea morior in exilium. Tragedia, ho già detto di un uomo, di un popolo, di un secolo. Chi sarà l’Eschilo che la tramanderà ai venturi? Che cosa era il socialismo per Filippo Turati? Che cosa spinse questo figlio del XIX secolo, di cui la culla era stata legata col nastro tricolore, ed era stata ricevuta nel palazzo ufficiale di una Prefettura; che cosa spinse questo nato sulle soglie del privilegio, agiato di censo, vivido di intelligenza baciato dal fuoco della poesia per il quale la vita spiegava tutte le seduzioni allettatrici, che incantavano il dott. Faust che cosa lo spinse a darsi al socialismo, quando il socialismo non era che una oscura dottrina straniera e assurda, anzi il pretesto ad una torva ribellione di schiavi, ebbri di violenza e di crimine, che la “giustizia” in solenni sentenze bollava come malfattori associati? Che cosa? Un giovanile trasporto romantico? Un bisogno di viaggiare nelle terre esotiche dello spirito? Ma come questo romanticismo, questo gusto dell’avventura intellettuale si conciliano con la fedeltà assoluta, incontaminata di tutta la vita alla scelta giovanile, fino a suggellarla con la morte in esilio? Noi osserviamo umilmente questo soltanto: che ogni uomo ha una sua sigla personale. Al modo che ha un volto suo, ha un cuore suo. Respingiamo l’adulterazione della dottrina determinista per cui ogni individuo non sarebbe altro che l’unità di un gregge. Sgombra delle esagerazioni scolastiche, la dottrina classica della storia è tanto più vera quanto più si esercita sopra grandi numeri, su vaste collettività, e molto perde del suo valori quando si voglia applicarli a frazioni ridotte fino al singolo. L’uomo è, con tutte le forze che lo influenzano, ma è anche con quella della sua originalità personale, onde egli reagisce alla nascita, alla tradizione, all’automa, alla classe. Filippo Turati – perché era lui, con la sua sensibilità, la sua etica, il suo genio – fu un disertore della borghesia; il più inclito dei disertori della borghesia e tale rimase senza pentimenti, fino all’ultimo respiro in esilio. Il più inclito, non il solo. Tra il 1880 e il 1890 tutta una gioventù intellettuale, ansiosa e scontenta, si chiedeva che cosa era nata a fare, che valeva la sua vita. Il “Risorgimento” era compiuto. Ma a che serviva, oltre che alla retorica dei discorsi ufficiali? La sua patria era territorialmente, una. Solo territorialmente. La patria unita non era che la “cosa” di certe consorterie. Il popolo non ci entrava. C’erano i latifondisti nel sud e i primi industriali nel nord. E c’erano plebi. Plebi agricole oppresse …

L’ESPERIENZA SOCIALDEMOCRATICA DI OLOF PALME

L’utopia possibile di Olof Palme di Lia Fubini In libreria la raccolta di scritti e discorsi di uno dei più grandi protagonisti della socialdemocrazia europea. Un lettura di stretta attualità Stato sociale e crescita economica sono alla base del successo della socialdemocrazia svedese, un successo legato al nome di Olof Palme dagli anni ’60 fino alla sua tragica morte nel 1986. Palme è stato uno dei grandi rinnovatori della tradizione socialdemocratica europea ed è senza dubbio un riferimento importante per la definizione di un socialismo riformista e di respiro internazionale. Una riflessione sulla socialdemocrazia, sui suoi obbiettivi e sui risultati raggiunti offre spunti e suggerimenti per un’uscita dalla crisi e per la costruzione di un mondo migliore. Per questo non si può accogliere che con estremo interesse la raccolta degli scritti e dei discorsi più significativi di Palme curato da Monica Quirico Tra utopia e realtà: Olof Palme e il socialismo democratico (Editori Riuniti university press, 2009). Molti e attualissimi i temi trattati: democrazia, stato sociale, ruolo del sindacato, equità, integrazione degli immigrati, questione femminile, solidarietà internazionale. La competitività del sistema svedese è stata in grado di garantire ed estendere un sistema di welfare universalistico, in cui vengono forniti servizi indiscriminatamente a tutti i cittadini, dunque non solamente assistenza ai bisognosi o servizi selettivi. Il tema del welfare è stato inserito in una visione complessiva della politica, della società e dell’economia. Il primo insegnamento che possiamo trarne è che i problemi sociali ed economici non possono e non devono essere affrontati separatamente e in modo parziale. Un modello che oggi merita di essere approfondito in una prospettiva di uscita dalla crisi è quello del compromesso socialdemocratico, il cui obiettivo è favorire lo sviluppo del sistema, la sicurezza sociale e una equa redistribuzione del reddito, elementi che, a dispetto del pensiero economico mainstream, vanno di pari passo, come mirabilmente illustra Palme in numerosi discorsi riportati nel volume. Il compromesso sociale è stato il frutto della necessità di uscire dalla profonda recessione degli anni trenta. La crisi del ‘29 era, come quella attuale, una crisi del modello liberista, una crisi da disuguaglianze e da deregolamentazione dei movimenti finanziari. La risposta sono state le politiche keynesiane che hanno favorito la crescita e la tendenza a una maggiore equità distributiva. Nei paesi del nord Europa tale modello ha raggiunto gli standard più alti: la spesa pubblica, la creazione di nuova occupazione, l’aumento del potere d’acquisto dei lavoratori non si collocano solo in uno schema keynesiano di stimolo alla domanda effettiva, ma sono il risultato di una politica in grado di coniugare sviluppo e integrazione sociale. Ma, negli anni settanta si è inceppato il meccanismo virtuoso di crescita stabile e sostenuta. In parallelo il compromesso socialdemocratico è entrato in crisi; è rimasto così incompiuto il processo di costruzione di una società socialista auspicato da Palme. Documento esportato da: www.sbilanciamoci.info Olof Palme si rende conto dei cambiamenti in atto, coglie il pericolo di una crisi di lunga durata del capitalismo, di forti correnti reazionarie scatenate dalla recessione degli anni settanta, di un’offensiva neoliberista sul piano ideologico e pratico. La soluzione – dice Palme – non è: più capitalismo, ma una trasformazione della società che aumenta il potere dei lavoratori e un intervento sistematico sui principali nodi dell’economia. Per superare la crisi non si deve lasciare più spazio al mercato, ma è necessario avanzare verso il socialismo. “Il rischio, tuttavia – dice profeticamente Palme nel 1977 – è che il capitalismo, trovandosi sulla difensiva, diventi duro, brutale e repressivo, finendo così per diventare pericoloso”. Di fronte ai rischi di un capitalismo sempre più aggressivo vede la necessità di una gestione programmata dell’economia, di un progresso verso uno stadio più avanzato della democrazia, la democrazia economica che nella sua concezione rappresenta il seguito e il complemento della democrazia sociale, che costituisce a sua volta il prolungamento della democrazia politica. Oggi – molti sottolineano – incombe il problema dell’inquinamento e del degrado dell’ambiente, non si può più pensare a una crescita continuativa in grado di sostenere un sistema di welfare universalistico. Palme è cosciente di problemi che col tempo si riveleranno ben più pressanti e propone soluzioni adeguate ad affrontare le nuove sfide poste dalle tematiche ambientalistiche: la crescita si deve concentrare nel sociale, nell’ambiente, nella formazione, nella tecnologia. Muovendosi nella direzione indicata da Palme uno stato sociale degno di questo nome potrebbe essere costruito, anche in Italia, e costituirebbe la premessa e il complemento di un nuovo modello di sviluppo sostenibile. Naturalmente un sistema di tassazione elevata e fortemente progressiva è condizione necessaria e deve accompagnarsi a una svolta profonda nelle politiche economiche. In questa fase di insicurezza generalizzata deve essere ripensata la spesa sociale, si devono ridurre drasticamente le disuguaglianze, il dualismo del mercato del lavoro, si deve tornare a puntare sulla piena occupazione, magari rispolverando l’idea oggi fuori moda della diminuzione dell’orario di lavoro. Dalla democrazia dei diritti civili e politici si deve avanzare verso la democrazia sociale e la democrazia economica, è necessario un intervento diretto delle forze sociali e dei lavoratori nel processo di accumulazione. Può sembrare un’utopia, proprio quell’utopia abbandonata dai partiti socialdemocratici che sempre più hanno conosciuto derive moderate e liberiste. Eppure, – come ci insegna Palme – “il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile” . Questo è tanto più vero oggi con questa crisi che, a dispetto degli ottimisti, è ben lungi dall’essere superata non solo e non tanto per i problemi finanziari, che comunque sono tutt’altro che risolti, ma per gli effetti devastanti sull’occupazione e sul tessuto produttivo. L’incapacità di una riflessione complessiva da parte di partiti e governi e consiglieri del principe rende problematica l’uscita dalle recessione. In questo contesto i partiti cosiddetti socialdemocratici di oggi non sono in grado di dare risposte e si sono adagiati supinamente sul pensiero dominante. La crisi offre la possibilità di un ripensamento sui rapporti sociali, sulla democrazia e sul modo di produzione. Non a caso le grandi crisi, con la loro forza destabilizzante, costituiscono un …