DAL PUNTO DI VISTA DEL FRONTE POPOLARE: LE ELEZIONI DEL 18 APRILE 1948, UNA SCONFITTA PER IL MOVIMENTO OPERAIO

di Franco Astengo

18 aprile 1948, settant’anni fa, si svolsero le elezioni per la Prima legislatura Repubblicana.

In questi giorni saranno molteplici i ricordi, le analisi, le rievocazioni di quel passaggio fondamentale nella storia d’Italia ed è facile prevederne il tono complessivo: l’Italia scelse l’Occidente e il cosiddetto “mondo libero”, la lungimiranza di De Gasperi permise la formazione di un governo di coalizione nonostante la DC disponesse della maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, si poté così avviare felicemente la ricostruzione dal disastro bellico.

Con questo intervento l’intenzione è quella di fornire un minimo contributo alla ricostruzione di ciò che accadde in quei giorni da un altro punto di vista: quello degli sconfitti rappresentati dal Fronte Democratico Popolare.

In questo senso si può affermare che il 18 aprile del 1948 fu battuto il movimento operaio italiano.

Per eseguire quest’operazione che sicuramente (e volutamente) rappresenta una parziale ricostruzione della memoria si è seguito il “file rouge” di un testo, del quale si ritroveranno testualmente qua e là affermazioni e analisi: si tratta del volume “Il voto degli Italiani”, di Celso Ghini.

Celso Ghini fu per lungo tempo responsabile dell’ufficio elettorale del PCI a Botteghe Oscure, quell’ufficio elettorale che, in tempi nei quali l’informatica era di là da venire, era considerato più attendibile dello stesso Ministero nel fornire i risultati delle consultazioni, anticipandone anche l’esito.

Un testo edito dagli Editori Riuniti del quale conserviamo la prima edizione, uscita nel febbraio 1975.

La traccia che quel testo ci fornisce nel ricostruire le vicende culminate nelle elezioni del 18 aprile 1948, inizia dal mutamento del quadro internazionale e l’avvento della guerra fredda.

Si può dunque partire nella nostra ricostruzione citando il famoso discorso tenuto da Churchill a Fulton, negli Stati Uniti, il 5 marzo 1946.

In esso il vecchio leader conservatore, appena sconfitto alle elezioni, aveva lanciato in forma drammatica l’espressione “cortina di ferro da Stettino a Trieste” per simboleggiare la separazione invalicabile che si era venuta a creare fra gli stati ex alleati dell’est europeo e il resto del mondo.

Il trattato di pace non era ancora stato concluso e il processo di Norimberga in corso, ma Churchill sosteneva già la necessità di condurre nei confronti dell’URSS una politica di forza, usando il possesso – in quel momento esclusivo – della bomba atomica da parte degli USA quale minaccia potenziale.

Il discorso di Fulton viene indicato come il punto di partenza effettivo della guerra fredda, anche se l’adozione ufficiale del termine viene fatta risalire al 12 marzo 1947 con l’annuncio della cosiddetta “dottrina Truman” con l’impegno di intervento nella guerra civile greca.

La guerra fredda, ovverosia il rovesciamento delle alleanze per mutare i rapporti di forza e i risultati della guerra covava dal 1944 da quando apparve chiaro che la disfatta della Germania hitleriana era prossima e inevitabile.

All’interno di questo quadro sotto la pressione ideologica, politica ed economica degli Stati Uniti i partiti liberali, democratici, cristiani, cattolici, radicali, repubblicani, socialdemocratici europei ruppero l’unità antifascista dei fronti di liberazione nazionale che erano stati creati durante la guerra e la Resistenza nei paesi vittime dell’aggressione e dell’occupazione nazista e fascista, allontanando dai governi occidentali i rappresentanti comunisti e socialisti.


Manifesto del Partito Socialista Italiano per le elezioni del 1948

In Italia ciò avvenne a seguito del viaggio di De Gasperi negli USA avvenuto nel gennaio 1947.

Al suo ritorno, il 17 gennaio, De Gasperi di sua iniziativa aprì la crisi di governo: la crisi si risolse con la formazione di un tripartito DC-PSI-PCI ma con l’esclusione dei socialdemocratici che, proprio nei giorni del viaggio del Presidente del Consiglio, avevano attuato la scissione del Partito Socialista creando un proprio soggetto politico in origine denominato Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI).

I passaggi immediatamente successivi possono essere così riassunti.

Nelle trattative per la formazione del nuovo governo erano stati formalmente accettati i 14 punti presentati dal socialista Morandi attraverso la realizzazione dei quali si prevedeva di arrestare l’inflazione e difendere il tenore di vita dei lavoratori tenendo conto che la produzione industriale aveva, in quel momento, raggiunto l’80% di quella di anteguerra mentre i salari non superavano il 45-50%.

Tutte le proposte avanzate dai ministri socialisti e comunisti tendenti a riequilibrare quel divario furono in prima istanza respinte dai ministri democristiani, nonostante l’accordo di governo realizzato attorno ai già citati 14 punti.

Nello stesso tempo si tentò di bloccare il grande movimento dei contadini per il blocco delle disdette di mezzadria, la revisione dei patti di colonia, la riduzione degli affitti.

Il 20 Aprile 1947 si votò per le elezioni regionali siciliane e si registrò un successo del Blocco del Popolo formato da comunisti e socialisti con il 29,13% mentre la DC (che nelle elezioni dell’Assemblea Costituente aveva raggiunto il 33,62%) si fermò al 20,52% mentre il PSLI conseguì il 4,2%.

La risposta a questo risultato elettorale si ebbe il 1° Maggio con la strage di Portella della Ginestra.

Il 13 maggio 1947, all’indomani della firma del Trattato di Pace e della votazione all’Assemblea Costituente sull’articolo 7 che regolava i rapporti tra Stato e Chiesa (votato anche dai comunisti e non dai socialisti) la DC aprì nuovamente la crisi di governo.

La conclusione della crisi si ebbe il 19 giugno: De Gasperi aveva formato il nuovo Governo estromettendo comunisti e socialisti e inserendo come vice presidente e ministro del bilancio il liberale Einaudi.

L’Assemblea Costituente concesse la fiducia con 274 voti contro 231.

Intanto la situazione internazionale stava davvero precipitando nella guerra fredda, con l’intervento diretto degli inglesi in Grecia contro i partigiani comunisti e l’apertura di una “guerra delle monete” in Germania dove gli americani introdussero forzatamente un “marco occidentale” con la reazione sovietica di imporre restrizioni nel passaggio delle merci tra le diverse zone d’occupazione di Berlino, cui gli occidentali risposero con il famoso “ponte aereo”.

L’esito fu quello di allontanare la possibilità di riunificazione della Germania, puntando americani e inglesi alla formazione – come, in effetti, avvenne – di uno stato occidentale, cui l’URSS rispose in seguito con la creazione della Repubblica Democratica Tedesca.

La conseguenza di questo inasprimento della guerra fredda fu visibile nel giro di pochi mesi in Polonia e in Cecoslovacchia dove i comunisti e i loro alleati non permisero, con ogni mezzo violando le stesse regola democratiche, di essere emarginati e che, in quel modo, venisse restaurato il vecchio ordine cedendo la posizione preminente che avevano ottenuto grazie alla lotta di Liberazione dal nazismo.

I nodi di fondo dell’esplodere della guerra fredda furono identificati dagli occidentali nella necessità di attuare una “politica di contenimento” dell’espansione del cosiddetto “pericolo comunista”.

Il risultato di questa politica fu il manifestarsi di una lotta di una eccezionale asprezza fra gli Stati e le forze politiche all’interno.

Frutto della guerra fredda furono il maccartismo, la caccia alle streghe, la persecuzione dei partigiani, lo sterminio dei comunisti in paesi come la Grecia, l’Indonesia, l’Iraq, il ripristino di associazioni naziste e fasciste da una parte, mentre dall’altra parte (al riparo dalla “cortina di ferro”) si verificarono gli arresti di massa di oppositori veri o presunti con processi sommari e condanne capitali a Budapest, Praga, Sofia contro uomini quasi sempre innocenti.

In Italia, nel corso di questo periodo intercorrente tra l’adozione della Costituzione Repubblicana e le elezioni del 18 aprile passò quasi inosservata la costituzione del MSI, erede del fascismo repubblichino che già alle elezioni comunali di Roma del 12 ottobre 1947 avevano potuto presentare una propria lista per poi prendere parte alle elezioni politiche.

Intanto si era ripristinato in tutta la sua soffocante efficienza l’apparato esecutivo dello Stato (in particolare quello della Polizia con una continuità assoluta nei quadri e nella dirigenza con il regime fascista). Apparato esecutivo dello Stato immediatamente impegnato a stroncare anche con la forza tutte le iniziative di rivendicazione sindacale nell’industria e nelle campagne.

Dal 1946 al 1948 si verificarono sul piano politico fatti rilevanti che mutarono i rapporti tra i partiti.

Il Partito d’azione si era auto sciolto. I suoi quadri erano confluiti a seconda delle inclinazioni e della maggiore affinità politica e ideologica principalmente nei partiti repubblicano e socialista.

Con il Partito d’Azione spariva una forza politica di sinistra laica, autonoma, la cui funzione era stata e poteva essere, per le elevate doti intellettuali dei suoi quadri, molto superiore alla sua modesta forza elettorale.

Altro fatto di grande rilievo fu la scissione del partito socialista, quando Saragat e i componenti della sua corrente diedero vita a un nuovo partito socialdemocratico autonomo.

In quindici anni il partito socialista aveva riassorbito le precedenti scissioni e i gruppi staccatisi da destra e da sinistra tra il 1922 e il 1937.

Con la riunificazione il partito socialista era tornato a essere un grande partito di massa che raccolse nell’elezione per l’Assemblea Costituente più voti del Partito Comunista.

Ma questo era avvenuto a scapito della coesione interna al partito.

Ai residui gruppi contrastanti del riformismo e del massimalismo si erano aggiunte le nuove formazioni che volevano fare del partito una forza moderna, unitaria, combattiva e di classe.

Alla prova dei fatti la coabitazione in un solo partito di correnti ideologiche e politiche eterogenee non resse.

Il fenomeno si sarebbe poi puntualmente ripetuto dopo la “rifusione” delle forze socialiste e socialdemocratiche nel 1966 – 67 e l’esito negativo delle elezioni del 1968.

Non fu facile per il grande pubblico e le masse lavoratrici capire i veri motivi e il significato della scissione del 1947, che si presentava inizialmente come l’esclusiva conseguenza e poco giustificabile di una incompatibilità tra i dirigenti.

In realtà l’obiettivo immediato si mostrò palese il 31 maggio del 1947 quando il gruppo del PSLI all’Assemblea Costituente votò la fiducia al nuovo governo De Gasperi dal quale erano stati esclusi comunisti e socialisti.

Altre grosse novità erano maturate nello schieramento della destra.

Alla fine del 1946 si costituiva, infatti, il Movimento Sociale Italiano, un partito dichiaratamente fascista erede della Repubblica di Salò.

Alle elezioni comunali di Roma nell’ottobre 1947 il MSI raccolse 25.000 voti eleggendo 3 consiglieri.

Si avviò così al declino il Fronte dell’Uomo Qualunque dopo aver svolto la sua funzione di rottura nell’immediato dopo guerra.

La generosa amnistia politica concessa con la proclamazione della repubblica, l’interpretazione ancor più generosa datane da parte di molti magistrati a favore dei fascisti, alla quale non corrispose un’interpretazione altrettanto benigna a favore dei partigiani, il rientro dall’epurazione e la reintegrazione nei loro incarichi di tutti i funzionari fascisti allontanati con in più il premio per il rimborso dei danni subiti e del mancato stipendio contribuirono ad alimentare l’euforica ripresa del movimento fascista e ai fornire quadri piazzati in posti di potere e di responsabilità in tutti i rami dell’apparato dello Stato, comprese la magistratura , la polizia e le forze armate.

Questi fatti deprimevano la classe operaia, i lavoratori e tutti i sinceri democratici e accrescevano la presa sugli incerti da parte delle forze moderate.

Si arrivò così alle elezioni con una geografia politica sconvolta rispetto a quella del 2 giugno 1946.

Dall’estero si erano fatte sempre più pesanti e scoperte le pressioni per influire sulle elezioni politiche italiane.
La Casa Bianca comunicava che “ se nel corso degli eventi la libertà e l’indipendenza dell’Italia dovessero essere minacciate direttamente o indirettamente gli Stati Uniti come potenza firmataria del trattato di pace e membro delle Nazioni Unite, si riterranno obbligati ad adottare misure appropriate per il mantenimento della pace e della sicurezza”.

La Chiesa e il Vaticano intervennero in modo massiccio con anatemi e scomuniche.

Sorsero per ispirazione dei circoli clericali più retrivi i Comitati Civici, rendendo celebre il loro capo Gedda sino ad allora sconosciuto, onde mobilitare a favore della DC tutti i potenti strumenti organizzativi e di pressione morale delle associazioni cattoliche.

La tattica seguita dai vari partiti nella campagna elettorale si inserì dunque in questo contesto.

La sinistra si presentò alle elezioni unita con la lista del Fronte Democratico Popolare per la libertà, la pace, il lavoro, o semplicemente Fronte Democratico Popolare (FDP) .una federazione costituita ufficialmente il 28 dicembre 1947 e formata da: Partito Comunista Italiano (PCI), con segretario Palmiro Togliatti; Partito Socialista Italiano (PSI), con segretario Pietro Nenni;e a cui aderirono altre formazioni minori come: Alleanza Femminile; Alleanza Repubblicana Popolare; Costituente della Terra; Movimento Rurale; Movimento Cristiano per la Pace di Guido Miglioli con Ada Alessandrini; Movimento di Unità Socialista di Livio Maitan.

Alla luce dell’esito delle elezioni possiamo considerare la formazione del Fronte come un errore politico.

La decisione presa dai partiti e dalle altre forze di sinistra era partita, infatti, da una valutazione non esatta degli effettivi orientamenti delle elettrici e degli elettori, della incidenza della scissione socialdemocratica e della possibilità di funzionamento di moltiplicatore elettorale da parte di uno schieramento unitario.

Il sistema elettorale proporzionale che era stato scelto in sede di Assemblea Costituente , poi confermato fino alle elezioni del 1992, favoriva la partecipazione elettorale di una pluralità di liste presentando a elettrici ed elettori una gamma maggiore di scelte ,come poi sarebbe accaduto con le elezioni successive svoltesi nel 1953 quando fu necessario sbarrare la strada alla coalizione di governo che puntava al 50% dei voti per accaparrarsi il premio di maggioranza previsto da quella che era stata denominata “Legge truffa”.

Si verificarono quindi, da parte dei dirigenti comunisti e socialisti, una somma di errori di valutazione.

Prima di tutto errori posti sul piano delle valutazioni politiche complessive al riguardo della situazione interna: le elezioni del 18 aprile 1948 erano le prime che si svolgevano dopo la rottura tra le forze politiche di sinistra e quelle cattoliche, dopo la scissione socialdemocratica e il passaggio dei repubblicani all’area centrista di governo.

La presentazione elettorale autonoma della componente socialdemocratica (che prese le vesti di “Unità Socialista”) rivelò l’esistenza nella società italiana di una realtà oggettiva nuova: una base sociale discretamente ampia per una socialdemocrazia saldamente arroccata sulle posizioni delle grandi potenze occidentali presente soprattutto nei centri e nelle zone industriali del Settentrione.

E’ il caso anche di soffermarsi sui fenomeni collegati con la situazione internazionale con lo scatenamento della guerra fredda e l’esasperazione dell’anticomunismo.

Mentre il programma del Fronte Popolare fu presentato con una forma riformistica incentrato sulla necessità di attuare le riforme economiche e sociali sancite dalla Costituzione e come difesa delle libertà popolari contro la minaccia di ritorni monarchici, reazionari e fascisti, la DC impostò una campagna elettorale di natura essenzialmente politica, con marcati accenti ideologici e puntando sul timore che si mirasse, da parte delle sinistre, a rovesciare la situazione governativa creatasi nel maggio 1947 con l’allontanamento dall’esecutivo di socialisti e comunisti.

Veniamo allora al giorno delle elezioni e ai risultati.

Le liste in competizione furono 42, 9 in meno rispetto al 1946.

Riassumiamo a questo punto le principali novità:

a) La formazione del Fronte Democratico Popolare

b) Le liste del nuovo partito socialdemocratico sotto la sigla “unità Socialista”

c) I liberali che, come nel 1946, si presentarono come Blocco Nazionale inglobando i residui dell’Uomo Qualunque

d) Le liste dell’SVP in rappresentanza delle popolazioni di lingua tedesca dell’Alto Adige

e) I monarchici che, presentatisi nel 1946 come Blocco Nazionale, adesso si divisero in due liste: PNM (Partito Nazionale Monarchico) e Alleanza Democratica del Lavoro

f) Le liste del Movimento Sociale Italiano

g) L’assenza delle liste del Partito d’Azione

Risultò molto elevata la partecipazione al voto superando il 92% degli aventi diritto.

I risultati elettorali qualificanti del 18 aprile furono soprattutto due: il 31% dei voti per il Fronte Popolare (poco più di 8 milioni di voti) rispetto al 40% dei voti socialisti e comunisti del 1946); il 48, 5% dei voti raccolti dalla DC (12.700.000) rispetto al 35,2% dell’elezione precedente.

Uno spostamento di tale entità su una massa di decine di milioni di elettrici ed elettori (nell’analisi non bisogna mai dimenticare che era soltanto la seconda occasione di voto nella storia per l’elettorato femminile) fu indice di profondi mutamenti negli orientamenti politici fra tutti gli strati di cittadini.

Il “terremoto” coinvolse tutti i partiti a tal punto che si può ben scrivere di quelle elezioni come di “elezioni critiche” e di generale “riallineamento”: crollarono i repubblicani e i liberali e il MSI ottenne meno di metà dei voti che due anni prima erano andati all’Uomo Qualunque.

I socialdemocratici, invece, contrariamente a quanto ci si poteva aspettare dopo i risultati delle elezioni regionali in Sicilia e di quelle comunali a Roma arrivarono alla media nazionale del 7.09%(1.858.000 voti): una cifra sicuramente elevata ma inferiore a quella dei voti perduti da socialisti e comunisti senza contare quelli lasciati liberi dall’assenza del Partito D’Azione e della Concentrazione democratica repubblicana.

Il 18 aprile registrò, in sostanza, un netto spostamento a destra: i voti a sinistra della DC che il 2 giugno del 1946 erano stati il 47,48% scesero nell’occasione al 41,65% con l’aggiunta che quasi il 10% di questi voti erano andati al PRI e ai socialdemocratici, alleati con la DC e in posizione di aspra polemica verso il Fronte Popolare.

Nel 1948 fu eletto anche il primo Senato della Repubblica.

La composizione del senato non corrispondeva alla ripartizione percentuale del voto tra i partiti che ricalcò, grosso modo, quella della Camera con la DC al 48,09%, il Fronte Popolare al 30,82% e i socialdemocratici divisi in due liste complessivamente al 6,86%.

Questa mancata corresponsione diretta aveva due motivi: la formula elettorale basata sui collegi uninominali e l’applicazione della III norma transitoria della Costituzione valevole per una sola Prima legislatura che stabiliva la nomina a senatori di diritto dei deputati dichiarati decaduti dal fascismo nella seduta del 9 novembre 1926 in ossequio alle leggi “fascistissime” e di chi avesse scontato non meno di 5 anni di reclusione in seguito a condanna da parte del Tribunale Speciale. I senatori di diritto risultarono così suddivisi: 31 PCI, 11 PSI (i due partiti formarono subito gruppi parlamentari separati), 13 socialdemocratici, 6 repubblicani, 4 democratici di sinistra, 18 democristiani, 5 liberali, 19 nel gruppo misto per un totale di 107.

In conclusione si può cercare di giustificare il titolo di partenza “Una sconfitta per il movimento operaio”: perché?

Il governo disponeva nei due rami del Parlamento di una netta maggioranza, con gli alleati della DC che non avevano nessuna possibilità (né volontà) di assumere una posizione autonoma verso la DC, mentre la situazione economica generale andava gradualmente migliorando.

La DC però non seguì la strada dell’applicazione della Costituzione compiendo tutte le riforme necessarie allo svecchiamento della società, sviluppando una politica internazionale di cooperazione, senza discriminazioni e senza alimentare i blocchi militari contrapposti.

Invece i democristiani si curarono di gretti interessi particolaristici e corporativi rinunciando a portare una avanti una politica economica e sociale di effettivo cambiamento.

La Dc finì con il trasferire la guerra fredda dai rapporti internazionali a quelli interni economici, sociali, politici. Un clima nel quale nacquero pericolose avventure come quella che portò all’attentato a Togliatti.

Attentato a Togliatti generato dall’atmosfera di odio e di vero e proprio sanfedismo volutamente alimentata durante la campagna elettorale e imperante in tutto il cosiddetto “mondo libero”.

Nel campo del lavoro fu sottratta ai sindacati (all’interno dei quali nel frattempo fu operata un’ulteriore operazione di scissione) la gestione del collocamento, furono distrutti i consigli di gestione, fu concessa mano libera ai padroni nella riduzione dei tempi, nell’intensificazione esasperata dei ritmi di lavoro.

Alla fine del 1949 la Montecatini poteva realizzare 1.620.000 lire di profitti per ogni dipendente, la Pirelli 1.900.000, la Snia Viscosa 2.220.000 e così via.

Nel 1948 – 49 si svolsero grandiose lotte di massa, nel 1950 scioperarono 3.706.000 lavoratori.

Tutta la prima legislatura fu seminata da spietati eccidi di lavoratori, di repressioni sanguinose delle lotte realizzate dai corpi speciali della “Celere”, di persecuzioni contro i sindacalisti, verso i cittadini che chiedevano di usare le libertà sancite della Costituzione in difesa dei propri diritti.

Per questa repressione continua che raggiunse il suo culmine nel gennaio del 1950 con l’eccidio di Modena fu instaurato, essenzialmente contro il movimento dei lavoratori, un regime di polizia imperniato su di una legislazione fascista dell’ordine pubblico rimasta ancora intatta.

Appaiono queste, ancor oggi a distanza di tanti anni, ragioni più che sufficienti per definire il risultato elettorale del 18 aprile 1948 come una sconfitta per il movimento operaio italiano.

Sarà bene, allora, nel fornire una valutazione storica di quel passaggio fondamentale nella storia d’Italia tener ben conto di questi fatti e non limitarci a chiosare l’agiografia corrente tendente a presentare soltanto una parte della memoria che invece è necessaria per ricordare la complessità dei fatti attraverso l’esposizione della loro verità.