I PARADOSSI DELLA CRESCITA NELL’ERA DEL TURBOCAPITALISMO

di Giorgio Ruffolo |

L’organizzazione fordista del lavoro assicurava, al costo di una alienazione disumanizzante, un alto grado di sicurezza del posto di lavoro e facilitava la contrattazione collettiva, rafforzando i sindacati. È proprio questo paradigma sociale che oggi la rivoluzione informatica, sostituendo al modello della standardizzazione quello della differenziazione, ha mandato in pezzi. La vecchia alienazione si è dissolta in un’alienazione di grado superiore.

La riduzione della società a mercato comporta una destrutturazione sociale devastante. In un mondo civile il mercato va contenuto in un contesto di relazioni non mercantili, e questo non può che essere prima di tutto rappresentato dalla politica. Oggi viceversa l’equilibrio tra mercato e politica – il vero segreto della superiorità dell’Occidente – si sta rompendo e corrompendo sotto i nostri occhi.
Tutti i grandi economisti classici, da Smith a Marx a Keynes, hanno considerato la ricchezza e la sua crescita come un mezzo e non come un fine. Prima di essere economisti erano umanisti. Il segreto della crescita, e il solo modo concreto per perseguire il sogno dell’abbondanza, secondo loro, era il progresso tecnico. Sostanzialmente, si tratta di sostituire le macchine agli uomini: una possibilità che anche gli antichi greci e romani prospettavano, considerandola però o utopistica o dannosa.
“Se ogni attrezzo potesse eseguire su ordinazione, o per suo proprio conto, il compito che gli è assegnato, l’architetto non avrebbe più bisogno di manovali, né il padrone di schiavi. Se la spola potesse correre da sola sulla trama, l’industria non avrebbe bisogno di operai” scriveva Aristotele.
E l’imperatore Diocleziano comandava all’inventore di un marchingegno che permetteva di sollevare meccanicamente le immani colonne dei suoi templi, di bruciare quel suo progetto, che avrebbe provocato disoccupazione e fame “per i suoi poveri proletari”. Più recentemente l’economista Sismonde de Sismondi configurò l’esito estremo dell’automazione in una metafora settecentesca: il re d’Inghilterra che, girando una manovella, produce tutto quanto è necessario ai suoi sudditi. E si domandava: che ne sarà dei sudditi? Ai nostri tempi, John Maynard Keynes formulò invece una profezia ottimistica. Il progresso tecnico era andato ormai tanto avanti da far prevedere che assai presto gli uomini avrebbero potuto procurarsi tutti i beni necessari alla loro sopravvivenza e al loro comfort con due o tre ore di lavoro al giorno, dedicando il resto al riposo e a cose più serie, come l’amore e la cultura.

Breve storia di un secolo

In effetti, se c’è un secolo nel quale ci si è più avvicinati a quel sogno, è proprio il nostro, quello di cui abbiamo appena doppiato il capo: il Novecento.
Nell’insieme del Novecento la produzione complessiva di beni e servizi nel mondo è cresciuta del 2,9 per cento all’anno e il prodotto pro-capite dell’ 1,4%, rispetto all’1,3 e allo 0,8 % rispettivamente nell’Ottocento; e a cifre molto vicine al niente per cento nella media dei secoli precedenti. Se come indice sintetico della “felicità pubblica” si assumesse quello della durata media dell’esistenza ( per la ricchezza quello del prodotto nazionale è altrettanto grossolano) constateremmo che essa è aumentata da meno di 40 anni nel 1820 a circa 50 nel 1900 e a 77 nell’ultimo decennio del XX secolo nei paesi industriali (60 nei paesi arretrati).
Naturalmente, parlare del Novecento come di un periodo omogeneo sarebbe del tutto fuorviante. Il “secolo lungo” che abbiamo alle spalle deve essere diviso, per quanto riguarda lo sviluppo economico e il benessere sociale dei paesi capitalisti più avanzati, in quattro fasi distinte: una prima belle époque di prosperità economica e di aumento generale medio del benessere, dal 1880 al 1914; un’età dei torbidi, di guerre, crisi, disoccupazione, stragi e conflitti sociali e ideologici, fino al 1945; una seconda belle époque di grande prosperità economica di relativa pace mondiale e di parallelo miglioramento del benessere sociale, nonostante l’incombente minaccia della catastrofe nucleare, fino agli anni Settanta; e una quarta fase, che è quella nella quale viviamo, e alla quale non sappiamo ancora dare un nome. Si tratta di una nuova età dei torbidi? O di una rinnovata belle époque?
Il quadro che ci si presenta non è né catastrofico, né rassicurante. Certo: non c’è stata alcuna catastrofe, né alcuna depressione paragonabile a quella tragica che segnò gli anni Trenta. Negli anni Settanta l’inflazione e la crisi petrolifera avevano fatto temere che il sistema capitalistico potesse precipitare in una nuova crisi verticale. Ma già verso la fine del decennio l’economia riprendeva il cammino della crescita. Tuttavia, a un ritmo sensibilmente e progressivamente più lento: 5% negli anni Sessanta, 3,6% nei Settanta, 2,8% negli Ottanta, 2% nei primi cinque anni dei Novanta.
Inoltre è emerso per la prima volta nella storia lo spettro dei limiti della crescita nel senso della sua sostenibilità ecologica. Infine, mente la crescita ha continuato ad aumentare, si sono fatti sempre più evidenti i segni di un peggioramento della qualità sociale.
Molti sono gli indizi di aumento del disagio sociale. Nella prima belle époque era stridente, tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX, il contrasto tra la relativa soddisfazione della maggioranza della popolazione e l’inquietudine talvolta disperata dei suoi intellettuali. Se si può avanzare una opinione azzardata, oggi si ha la sensazione di una inquietudine delle masse cui fa riscontro un narcisistico e soddisfatto compiacimento degli “intellettuali”.

Lo spartiacque degli anni Settanta

Comunque sia, è sempre più evidente che il quinquennio 1970-75 ha segnato uno spartiacque, tra una epoca di convergenza della crescita economica e del benessere sociale e una della quale il meno che si possa dire è che la intensità e la direzione delle due grandezze si è fatta incerta.
Che cosa salta agli occhi, nel gettare uno sguardo al mondo immediatamente precedente quel quinquennio e a quello immediatamente successivo? Io direi, la “convergenza” e rispettivamente la “divergenza”. Nel primo quinquennio – beninteso, nei paesi del capitalismo avanzato – si assisteva a una felice convergenza delle grandezze più significative della prosperità e del benessere sociale. Procedevano monotonicamente, nello stesso senso e grosso modo allo stesso ritmo, la produzione globale, la produttività, l’occupazione, i profitti, i salari, nella media generale. Tendenze divergenti nei vari settori, come per esempio, nell’agricoltura e nell’industria, si compensavano. Gli squilibri che attiravano maggiormente l’attenzione e le preoccupazioni erano quelli regionali: che erano assunti nella categoria dei “ritardi” e affidati alle politiche compensatrici degli Stati nazionali. Anche le quote di reddito prelevate per le spese sociali, per alimentare il nuovo Stato del benessere, aumentavano, dove più, dove meno, parallelamente all’aumento della ricchezza nazionale.
A partire dalla metà degli anni Settanta il quadro è cambiato. In Europa, la crescita si è accompagnata a una disoccupazione di massa. Negli Stati Uniti, a una esplosione della diseguaglianza. Sia in Europa che negli Stati Uniti si è avuta una degradazione della qualità sociale: infrastrutture pubbliche, condizioni ambientali e urbanistiche, livello e qualità dell’istruzione.
Che cosa è avvenuto perché si verificasse questo brusco cambiamento di scena?
Per capirlo dobbiamo cominciare dalle ragioni della crescita “felice” nel mondo di ieri.
Penso che la ragione essenziale, scandalosa per il pensiero liberista oggi dominante, stia nel fatto che il capitalismo della seconda belle époque era guidato e orientato dalla politica.
Quella convergenza non era il risultato di un processo “naturale”, ma dell’azione consapevole delle istituzioni pubbliche. Sul piano internazionale, esso nasceva dalle istituzioni e dalle regole stabilite a Bretton Woods, subito dopo la guerra, grazie a una saggezza che era totalmente mancata dopo la prima guerra mondiale. A livello nazionale, era il prodotto della consapevole azione della politica economica degli Stati. A livello sociale, era il frutto di un compromesso, implicito e talvolta esplicito tra lavoratori e imprese: un compromesso reso possibile dall’organizzazione “fordista” del lavoro da una parte; e dall’organizzazione “manageriale” dell’impresa dall’altra.
Ebbene, sono proprio questi tre sistemi istituzionali che vengono a mancare, più o meno nello stesso periodo, nel corso degli anni Settanta. Le ragioni sono complesse, ma in uno sforzo eroico possiamo provarci a sintetizzarle.

L’abdicazione della politica

Il regime dei cambi fissi, anzitutto. Sono gli Stati Uniti stessi, che ne erano il pivot, ad affondarlo. Si tratta di un caso classico di sfruttamento di una posizione dominante, di passaggio da una egemonia a una supremazia. Nei primi decenni del dopoguerra gli Stati Uniti avevano gestito molto responsabilmente la loro posizione di gran lunga dominante nell’economia mondiale, pagandone i costi. Avevano contribuito decisamente a ricostituire le forze del capitalismo europeo e di quello giapponese, che progressivamente diventavano sempre più loro rivali. Assicurando il dollaro a un rapporto fisso con l’oro, avevano dato al sistema mondiale dei cambi un fulcro che garantiva stabilità al sistema mondiale degli scambi. Venne però il momento in cui le grandi imprese multinazionali americane, che soffrivano la concorrenza europea e giapponese, a furia di mordere il freno, lo ruppero. La loro pressione, durante la crisi del dollaro, all’inizio degli anni Settanta, indusse un Presidente “imperiale” ad abbandonare i vincoli della responsabilità mondiale per fare valere in pieno, rispetto alle altre economie, la superiorità del dollaro. I profeti del neoliberismo, come Milton Friedman, salutarono l’avvento del regime dei cambi flessibili come l’apertura di una fase di stabilità mondiale, assicurata dall’autoregolazione dei mercati valutari. In realtà, i venti anni seguenti hanno visto 120 crisi valutarie maggiori: intendendo per tali quelle nelle quali una moneta si svaluta di una quota superiore al 25 per cento del suo valore.
Le imprese multinazionali americane si erano intanto create, per conto proprio, un mercato finanziario sciolto dai legami della politica monetaria nazionale. La creazione del mercato dell’eurodollaro fu la prima fatale breccia nella diga che si opponeva alla libertà dei movimenti di capitale internazionali. La diga crollò, progressivamente, dappertutto.

Si innesta qui il secondo aspetto. Con la deregolazione dei movimenti di capitale si spalanca un campo aperto di competitività mondiale, che mette tutte le economie nazionali “a disposizione” del capitale, senza barriere. Da un regime di scambi mondiali basato sulla veneranda teoria dei costi comparati, che presuppone libertà di scambio dei prodotti, ma non dei fattori produttivi (capitale e lavoro) e assicura quindi una competitività relativa a una data distribuzione internazionale di quei fattori, ci si muove verso un regime basato sui costi e sui vantaggi comparati assoluti, che mette in diretta e immediata concorrenza i lavoratori e i capitalisti di tutto il mondo. In questo campo spalancato a tutti i venti ingigantisce il potere “apolitico” e anonimo dei mercati finanziari e si riducono drasticamente i margini di manovra economica del potere “politico” degli Stati nazionali. Le politiche monetarie nazionali devono tener conto dei movimenti dei cambi e dei tassi d’interesse, che sono ormai largamente sottratti al loro controllo e dipendono in larga misura dalle aspettative degli “operatori” dei grandi mercati finanziari. Aspettative di che cosa? Dei profitti di breve e di brevissimo termine, influenzate dalle concrete vicende dell’economia reale ma anche, e sempre più, da correnti emotive: paure, interpretazioni distorte, informazioni imperfette, malumori, euforie, speranze, errori. In questi casi, la funzione stabilizzatrice (il feed back positivo) attribuita dai testi scolastici alla saggezza intrinseca dei “mercati” nella valutazione oggettiva dell’efficienza delle economie, diventa una funzione destabilizzatrice (un feed back negativo) promossa dagli effetti cumulativi delle emozioni. I governi rinunciano a una influenza attiva sulla politica monetaria, lasciandola nelle mani “neutrali” delle banche centrali.
Quanto alla politica fiscale intesa nel senso lato, della manovra complessiva del bilancio statale: è naturale che, nel clima di competitività a tutto campo aperto dalla globalizzazione, il mondo delle imprese resista accanitamente a una pressione fiscale della spesa pubblica che pone limiti alle risorse “private” necessarie a sostenere le sempre crescenti esigenze di competitività.

Anche i sindacati vedono ridursi progressivamente il loro potere negoziale. Ciò sia a causa della globalizzazione, che li sottopone al ricatto indiretto del basso costo del lavoro nei paesi più poveri; sia, soprattutto, al radicale mutamento dell’organizzazione produttiva: alla crisi dell’organizzazione industriale pesante, fordista, e all’emergenza di una nuova organizzazione flessibile, che rivoluziona la natura del lavoro. Come la globalizzazione dell’economia, innescata dalla deregolazione dei movimenti di capitale, comprime lo spazio; così la nuova rivoluzione tecnologica, innescata dallo sviluppo dell’informatica elettronica, comprime il tempo. L’essenza della produzione just-in-time è, appunto, l’immediatezza. Ciò permette di comprimere una enorme quantità di informazioni rendendo possibile la loro gestione da parte di un solo soggetto. Di qui alcune importanti conseguenze. Là dove occorrevano molti uomini per produrre pochi beni – al limite uno, come il famoso modello T – in grandi concentrazioni produttive, occorrono oggi pochi uomini per produrne molti e diversi in una rete di centri più o meno autonomi, interni o esterni all’impresa principale. Là dove a ciascun lavoratore era assegnato un solo compito, gli sono affidati oggi compiti diversi e complessi. E dunque, a una produzione molto differenziata corrisponde un numero di lavoratori ridotto con qualifiche e competenze diverse. Parallelamente al mercato dei beni e dei servizi, anche il mercato del lavoro si diversifica: nelle mansioni, nei tempi, nei luoghi. Diventa sempre più difficile applicare a situazioni eterogenee forme contrattuali omogenee e costringere entro una organizzazione di massa forme organizzative articolate. Tutto ciò aumenta oggettivamente il potere contrattuale dell’imprenditore e riduce quello del sindacato. Negli ultimi decenni la quota dei lavoratori iscritti ai sindacati si è ridotta dappertutto. Il mercato del lavoro, che nei primi decenni del dopoguerra era diventato un seller’s market, un mercato del venditore della forza di lavoro è ridiventato un buyer’s market, un mercato del compratore (capitalista). Un rapporto di forza che aveva assunto spiccate caratteristiche “politiche” è ridiventato un rapporto di forza largamente abbandonato alle relazioni di mercato: un mercato rimercificato.
Dunque, la deregolazione spiega il paradosso del nostro tempo: una crescita economica che genera malessere sociale. Quali sono le caratteristiche principali del malessere sociale? Ne esamineremo tre: la mala occupazione, la diseguaglianza, la disqualità sociale.

Il mito della distruzione creatrice

Torniamo alla spola di Aristotele e alla manovella del re d’Inghilterra. E ai sostenitori della fine del lavoro, che fanno lo stesso errore dell’imperatore Diocleziano. Sì, certo, le macchine risparmiano lavoro. Permettono di fare le stesse cose con tanto lavoro in meno. Ma permettono anche di fare tante cose diverse in più. E tante cose in più, significa tanto lavoro in più. Se si perde lavoro da una parte, insomma, lo si riguadagna dall’altra.
Prendiamo la spoletta volante dell’operaio John Kay, mezzo tessitore, mezzo meccanico A metà del Settecento, John Kay realizza il sogno di Aristotele, un’invenzione che aumenta del 20-30 per cento la produttività della tessitura. I suoi compagni disoccupati si infuriano, lui deve scappare, ma la sua invenzione si diffonde e la filatura del cotone non riesce a tener dietro agli ordinativi dei tessitori. Si forma una strozzatura della produzione, i prezzi dei tessuti salgono, le consegne si allungano. Ed ecco che Heargraves inventa la spinning Jenny, che centuplica il prodotto. Però la Jenny è azionata a mano, dipende interamente dall’energia motrice dell’uomo. Provvede Archwright con la water frame, una macchina a energia idraulica azionata da una coppia di cavalli. Ma il marchingegno è ancora grossolano. Ci vuole James Watt, chiamato da Archwright, per sostituire l’energia idraulica con la prima macchina a vapore. Così ingigantisce la produzione tessile, e la storia continua. Si determinano nuove strozzature nell’imbiancamento delle stoffe. Ci vuole troppo latte, troppe mucche, troppi prati. Provvede la nuova industria chimica, con il cloro prima, al posto del latte, e poi con i coloranti sintetici che i tedeschi producono sintetizzando l’alizarina, come base di un bel colore rosso. Esplode la produzione e con quella i profitti, fino a che i ricercatori (non si tratta più di modesti artigiani, ma di signori in camice bianco) operano la sintesi dell’indaco; e di passaggio, nel solco delle loro ricerche, inventano l’aspirina, che apre le nuove grandi strade dell’industria farmaceutica. Così si sgrana la logica della rivoluzione industriale: le distruzioni creatrici si succedono l’una all’altra, lungo una linea sempre più avanzata, sempre più lontana dal luogo d’origine. La crescita si svolge attraverso squilibri successivi.

Questo processo, Alfred Sauvy lo ha icasticamente rappresentato nel suo modello del travaso (déversement). Fino a due secoli fa l’80% della popolazione era occupata nell’agricoltura. Quando l’agricoltura è stata investita da una poderosa accelerazione della produttività, i prezzi dei prodotti agricoli sono crollati, i contadini hanno abbandonato le campagne e sono affluiti nelle città dove hanno affollato le fabbriche dell’industria. Ma anche l’industria è stata investita dall’aumento della produttività che ha spopolato le fabbriche, facendo rifluire il lavoro nel vasto campo dei servizi, dove gli impiegati si sostituivano agli operai. Ma che succederà se anche quei servizi verranno automatizzati?
La risposta degli economisti è lì, pronta: si produrranno nuovi beni e nuovi servizi, oggi sconosciuti, per soddisfare nuovi bisogni. La fabbrica dei bisogni umani è inesauribile. E dunque, purchè la domanda sia sostenuta dalla politica economica (secondo i keynesiani) o purchè ai prezzi e ai salari sia lasciata la flessibilità necessaria per adeguarsi alla domanda e all’offerta (secondo i monetaristi), il sistema tenderà sempre alla piena occupazione. In altri termini: la disoccupazione tecnologica non esiste.
E invece esiste, e come. Primo, perché “tendere” è una parola-trappola. Si può tendere verso qualche cosa che non si raggiunge mai. Una cosa che tende ad esserci, ma non c’è, non è rassicurante. C’è chi resta disoccupato, mentre la disoccupazione “tende” a sparire, per tutta la vita. Qual è il costo di quelle frustrazioni “temporanee”? Chi lo paga? Chi ne risponde? Il processo della distruzione creatrice non è un fiume che scorre tranquillo tra argini sicuri. È un torrente precipitoso, che può gonfiarsi o restare a secco, tracimare o impaludarsi. Quando poi arriva la compensazione, non compensa di solito chi ha perduto il posto, ma, se tutto va bene, e se esistono, i suoi figli.
Secondo. È proprio vero che i bisogni sono inesauribili? La verità è che ci sono bisogni soggetti a saturazione che, man mano che sono soddisfatti, diminuiscono d’intensità, seguendo il sacrosanto principio dell’utilità marginale decrescente. Sono quelli che Keynes ha chiamato bisogni assoluti, e Harrod, più elegantemente, bisogni democratici, perché tutti li hanno più o meno in egual misura, e per tutti possono essere soddisfatti, più o meno, in egual misura. Questi non sono inesauribili: una volta che ha mangiato e bevuto, anche Lazzarillo da Tormes si sazia. Ma poi ci sono i bisogni relativi e competitivi, quelli che non sono indipendenti dai bisogni degli altri, ma consistono proprio nel mantenere o nell’accorciare le distanze dagli altri: to keep up with the Jones, si dice in America, con lo sguardo rivolto ansiosamente al giardinetto, all’auto e alla macchina rasa-prati del vicino. Questi, davvero, sono inesauribili: ma sono anche frustranti, perché determinano una condizione permanente di ansia insoddisfatta. La crescita dei beni inventati per soddisfarli genera malessere.
Terzo (ed è l’aspetto più importante). Lo stesso Sauvy spiega che, per svolgersi in modo accettabilmente fluido, il flusso dei lavoratori “travasati” deve affluire in settori dove produttività, salari e produzione sono più alti che nei settori di provenienza. Queste condizioni si sono realizzate nel passaggio dall’agricoltura all’industria; ma non si realizzano affatto in quello successivo, dall’industria ai servizi. Nella media di questo settore estremamente eterogeneo, produttività e salari risultano inferiori. E ciò pone ai lavoratori una sgradevole alternativa, tra l’accettare remunerazioni più basse per ottenere un posto di lavoro, o rifiutarle, restando disoccupati. Il primo di questi esiti ha prevalso in America, il secondo in Europa. Insomma: il travaso può assicurare, alla lunga, la piena occupazione, non necessariamente la buona occupazione. La cosa più probabile, anzi, è che la crescita, in una società abbondante di merci e colma di rifiuti, apra vaste zone di occupazione mal pagata. Quarto: il concetto stesso di piena occupazione – che presuppone una certa omogeneità del lavoro – perde significato. Esso si adatta bene a un tipo d rapporto di lavoro dipendente, di durata e caratteristiche predeterminate; e sempre meno bene a forme di lavoro a tempo variabile, con retribuzione flessibile e con modalità differenziate.

L’impatto della rivoluzione informatica

Riprendiamo qui il discorso sulla rivoluzione informatica di fine secolo. L’organizzazione fordista del lavoro assicurava, al costo di una disumanizzante alienazione – il lavoro sbriciolato, meccanizzato e trasognato della catena di montaggio – un alto grado di sicurezza del posto di lavoro e di progressione del reddito dei lavoratori. La produzione di massa, inoltre, facilitava la contrattazione collettiva, rafforzando il potere contrattuale dei sindacati (proprio il contrario di quel che gli inventori del fordismo-taylorismo si erano attesi). Il consumo di massa integrava i lavoratori in una sempre più vasta e sempre meno discontinua classe media: una classe un po’ filistea, ma fiduciosa nel futuro suo e soprattutto dei suoi figli: la classe del grande consenso. Ora, è proprio questo paradigma sociale che la rivoluzione informatica, sostituendo al modello della standardizzazione il modello della differenziazione, ha mandato in pezzi. A una dinamica sociale di convergenza ne è subentrata una di diffrazione.
Alla frammentazione delle operazioni nello spazio si è sostituita la loro compressione nel tempo. Al lavoro spersonalizzato dell’uomo-macchina ridotto a una operazione ripetitiva, il lavoro coinvolto dell’uomo integrato nel gruppo, che gestisce più operazioni con un certo grado di discrezionalità. Alla monotonia del primo, lo stress del secondo. Alla sicurezza del lavoro, la precarietà.
Al lavoratore semiqualificato di massa gli operatori distribuiti lungo una gamma estesa di qualifiche, dalle più alte alle più basse. A un sistema di salari gravitante verso la produttività media dell’impresa, un sistema di retribuzioni che riflette una vasta gamma di competenze e di “scarsità” individuali. Dunque, il lavoro non è più quello del giovane Charlot. È meno monotono e spersonalizzante. Ma è anche meno protetto. Si è “riqualificato”. Ma si è anche “rimercatizzato”. Ci si può anche spingere, come hanno fatto alcuni ad affermare che la vecchia alienazione si è dissolta in un’alienazione di grado superiore. Se l’epoca fordista aveva compiutamente realizzato la separazione marxiana della forza di lavoro dal lavoratore, mettendola a disposizione del capitalista, oggi il capitalista ha a disposizione un lavoratore che ha introiettato, come un computer, la logica della produzione e che, come un computer, è capace di azioni correttive autonome. Dunque, un lavoratore intero, corpo e anima, azione e pensieri, e non più una grezza forza di lavoro.
Un lavoratore? Dobbiamo ormai abbandonare questa immagine individuata in un personaggio-simbolo, come era raffigurata nei vecchi manifesti socialisti. La rivoluzione informatica ha distrutto il proletariato. E ha distrutto il mercato del lavoro. Non c’è propriamente più un mercato del lavoro. C’è una gamma di mercati del lavoro corrispondenti a qualifiche e a figure diverse, che si dispongono lungo una gamma interrotta da grandi discontinuità. C’è un mercato del lavoro simbolico (usiamo qui la felice espressione di Reich) di privilegiati, costituito da un’offerta scarsa e “posizionale”, che dà luogo a remunerazioni più assimilabili al concetto di “rendita” che di “salario”: le star manageriali, mondane, sportive, professionali, l’èlite dei campioni rappresentativi, remunerati molto di più per ciò che rappresentano nell’immaginario collettivo, che per ciò che realmente sono e fanno. Le remunerazioni di questi “attori” si determinano su un mercato molto più simile a quello degli oggetti d’arte che a quello dei beni riproducibili. Essi costituiscono una nuova classe agiata, nel senso vebleniano, che si distacca dai comuni mortali per vivere in un olimpo di privilegi quasi-divini. Quando si guadagnano redditi personali equivalenti a quelli di milioni di uomini messi assieme; vuol dire che si è persa ogni connessione tra la prestazione e la sua valorizzazione, e che il rapporto di lavoro non ha più niente di lavorativo, nel senso di un do ut des. È diventato un appannaggio principesco, un beneficio feudale, una rendita mandarinesca. Si dice ancora “mercato”. Ma si tratta di una lotteria.

Dalla piena occupazione alla mala occupazione

All’estremo opposto, c’è un mercato – questo sì che lo è, nel senso classico – di servizi dequalificati, i cui salari non sono commisurabili alla “produttività”, ma alla pressione dell’offerta, rappresentata da una massa di disoccupati potenziali, costantemente alimentata dai “rifiuti” del processo produttivo – quelli che non ce la fanno a reggersi sul tapis roulant della competizione – e dall’ormai costante afflusso degli immigrati (Marx avrebbe detto semplicemente, un’armata di riserva).
Questo è un nuovo proletariato: ma, si badi, non un proletariato marxiano, integrato nella produzione, di cui rappresenta il cuore pulsante. Piuttosto, un proletariato tardo-romano, disponibile e ondeggiante, tendenzialmente turbolento, passivo, border line tra la società e la secessione sociale.
E naturalmente, in mezzo, c’è ancora il mercato del lavoro formale, organizzato, coi suoi contratti ma sempre meno collettivi e omogenei, con i suoi sindacati dei datori e dei lavoratori, sempre meno incisivi e decisivi; con i suoi riti, liberisti o socialdemocratici, sempre più rituali. In quello, il punto di riferimento gravitazionale resta la “produttività” del lavoro, intesa come il rapporto aritmetico tra il risultato economico globale dell’impresa e il numero dei suoi addetti. Ma i lavoratori faticano sempre più a tenervi dietro con i salari a causa dell’inasprimento della concorrenza mondiale, che obbliga le imprese a comprimere al massimo i costi del lavoro e della pressione indiretta dei lavoratori dei paesi più poveri, gettati dalla globalizzazione nella mischia: e costituita dalla minaccia costante del trasferimento delle attività produttive verso quei paesi.
Non stupisce che l’effetto combinato di questa diffrazione del lavoro e dei suoi mercati sia una tendenza a contenere, se non a deprimere, il livello medio dei salari, e una tendenza, molto più marcata, alla loro diseguaglianza.
Alla fine di questo discorso, ci si può chiedere: il travaso ha funzionato, o no? E si può rispondere che sì, ha funzionato là dove, come negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, lo si è pagato con un aumento della diseguaglianza, mentre non ha funzionato, o ha funzionato molto peggio nell’Europa continentale, dove i lavoratori sono riusciti a frenare le due tendenze, alla compressione dei salari e all’aumento dei loro differenziali, al costo della disoccupazione. Insomma, se intendiamo per mala occupazione una condizione generale di precarietà, di diseguaglianza e di compressione dei salari, dobbiamo concludere che questa è il costo della piena occupazione. Piena, non buona.
Dunque, dobbiamo ribadire che i teorici catastrofisti della “fine del lavoro” hanno torto. Il travaso funziona, ma “in salita”: con alti costi sociali.
Hanno avuto però, e purtroppo, torto anche coloro che si attendevano dal progresso tecnico una felice fine del lavoro, come Keynes, con la sua predizione radiosa. Del lavoro, inteso come merce da vendere e da comprare, non si vede proprio la fine. La verità è che l’ideale keynesiano comporta che si lavori di meno per il mercato, lasciando sempre più spazio “all’amore e alla cultura”, alle “grazia della vita”, come diceva Stuart Mill. Non è certo questo il dono della rivoluzione informatica. Essa libera energie, ma per reinvestirle, in forma più raffinata, nel mercato. Alla grossolana zampogna di Pan è subentrato l’armonioso flauto di Apollo. Ma si suona sempre a pagamento.

L’esplosione delle disuguaglianze

È molto probabile che l’ultimo quarto del secolo appena chiuso sarà ricordata come quella nella quale è riesplosa la diseguaglianza. Le grandi ristrutturazioni del mercato del lavoro e del mercato dei capitali, compiute sotto il segno della deregolazione, hanno liberato forze dirompenti. Ciò, sia alla scala mondiale, sia nell’ambito dei paesi capitalistici più avanzati, e specialmente in quello più avanzato di tutti: gli Stati Uniti d’America.
La diseguaglianza mondiale è rozzamente ma significativamente indicata dal rapporto tra il “quintile” della popolazione più ricco e il quintile più povero. Nel 1960 il rapporto era di 30 a 1. Nel 1991 era salito a 61. Nel 1997, a 86.
Negli Stati Uniti, “all’improvviso nel 1968, come una scossa in un ghiacciaio rimasto a lungo immobile, l’ineguaglianza ha cominciato ad aumentare” e nel corso dei due decenni successivi si è diffusa e intensificata in modo drammatico e sorprendente. I salari reali sono diminuiti: tra il 1973 e il 1993 dell’11% per i lavoratori maschi adulti a tempo pieno, mentre il prodotto reale pro capite del paese aumentava del 29%. Non era mai accaduto nella storia documentabile dell’economia americana.
Nel 1961 il Presidente Kennedy parlava “di un’onda che sale sollevando tutte le barche”; Ma dal 1973 in poi, mentre l’onda del prodotto pro capite medio saliva, le barche dei salariati scendevano precipitosamente e incessantemente. Solo l’ingresso in massa delle loro mogli nel mercato del lavoro, a salari ancor più bassi, riusciva a frenare, non ad arrestare, la contrazione del reddito familiare. In effetti, in venti anni, l’ineguaglianza tra i due poli della distribuzione del reddito familiare è aumentata di un terzo. Se dal reddito ci si sposta a considerare la ricchezza, si constatano tendenze ancor più evidenti alla divaricazione. All’inizio degli anni Novanta la quota di ricchezza detenuta dall’1% della popolazione era raddoppiata, rispetto agli anni Settanta, passando dal 20 al 40%. Non parliamo poi dei divari di reddito tra i signori del business, i CEO (Chief Executive Officers) e i comuni mortali, operai o impiegati. A metà degli anni Novanta il rapporto aveva raggiunto il livello 187 a 1. Dall’insieme dei dati disponibili emerge chiaramente che l’America ha imboccato, a partire dagli anni Settanta, una svolta a U su tutte le piste indicative della distribuzione del reddito: redditi di lavoro orari settimanali e annuali, personali e familiari, divari di reddito tra bianchi e neri, distribuzione personale della ricchezza.
“Nessuna altra economia di mercato, neppure nel mondo dei paesi in via di sviluppo, ha realizzato un così drammatico salto nell’ineguaglianza”.
Il paese europeo più vicino all’esperienza americana nell’ultimo quarto di secolo è la Gran Bretagna. Investito anch’esso in pieno dalla “controrivoluzione liberista”, esso ha visto in venti anni, dal 1970 al 1990 diminuire del 10% i redditi della fascia più debole della popolazione, mentre quelli della fascia più forte aumentavano del 65%. Secondo l’OCSE nel Regno Unito “l’ineguaglianza dei redditi era, nel 1990, più accentuata di quanto mai fosse stato dopo la seconda guerra mondiale”.
Negli altri paesi dell’Europa occidentale, lo Stato sociale è riuscito a frenare l’aumento delle diseguaglianze, che tuttavia si sono accentuate un po’ dappertutto. Nelle nuove condizioni di un mercato del lavoro diventato sfavorevole ai lavoratori, l’Europa ha pagato questa frenata con una disoccupazione di massa che le restrizioni monetarie e fiscali rese necessarie dai vincoli di Maastricht hanno contribuito a determinare, e che solo oggi comincia ad essere riassorbita con la ripresa della crescita. Ma anche in Europa si sono diffuse condizioni di esclusione, di “fragilità sociale” delle fasce più deboli, di povertà. Le cifre – ad esempio i 600 mila “adulti senza casa che vivono sulla strada” nella ricca Francia – non sono più eloquenti dello sguardo che ciascuno di noi può rivolgere alle strade delle nostre città: alla ricomparsa dell’accattonaggio nelle strade rutilanti del centro (come nei romanzi di Zola); dei barboni, dei mendicanti, dei drop-out, e, naturalmente, degli immigrati e dei rifugiati: un esercito che ha cambiato il volto delle nostre città in pochi anni.
È evidente che la prosecuzione di tendenze come quelle che hanno prevalso negli ultimi decenni, all’aumento delle diseguaglianze economiche, minaccia di corrodere le giunture, i nodi della coesione sociale. Nessuno ha mai potuto misurare quale quota di egualitarismo, da una parte, e di ineguaglianza, dall’altra, una società possa sopportare, senza reagire in modo esplosivo e incontrollato. Ma certo esistono, nelle nostre società complesse, limiti di sostenibilità sociale, nell’uno e nell’altro senso. I limiti di sostenibilità delle diseguaglianze sono certamente molto più stringenti che nelle società precapitalistiche, che potevano sopportarne di ben più stridenti delle nostre. Ma è appunto la complessità che, a un certo punto, entra in gioco: e cioè la capacità che le società capitalistiche e democratiche hanno conquistato, di crescere di potenza, conservando la coerenza: di garantire la fitta rete delle interdipendenze che ne costituisce il sistema nervoso. È la lacerazione di questa rete che costituisce oggi, insieme con la minaccia ecologica, il rischio più grave e più imminente. Non a caso si è cominciato a parlare, da tempo, a proposito delle tendenze disegualitarie che hanno investito le società del capitalismo avanzato, di “frattura sociale”, di “secessione sociale”: del pericolo, cioè, che pezzi interi di società si stacchino verso l’alto o verso il basso, in un processo di “semplificazione” che somiglierebbe molto all’imbarbarimento.
Non manchiamo di segni inquietanti. Da una parte si manifestano tendenze alla secessione della ricchezza, in forme estreme, di tipo medievale. Thurow riferisce dati sorprendenti di questo tipo di secessione negli Stati Uniti. Circa 30 mila comunità di americani vivono ormai in vere e proprie cittadelle, circondati da mura e protette da polizie private (il numero di vigilantes privati eccede ormai quello dei poliziotti statali e federali) e da armi speciali di difesa. In California, una di queste fortezze è munita di congegni di artiglieria, una specie di balestra (si chiama bollard) che scocca proiettili lunghi quasi un metro contro veicoli non autorizzati.
Dalla parte opposta, c’è la secessione forzata delle prigioni (sempre negli Stati Uniti, più di ottocentomila persone) o quella volontaria della criminalità organizzata, diventata ormai – anche grazie al gigantesco movimento di capitali “sregolati”, una potenza economica mondiale.

La crisi della coesione sociale

Quella che abbiamo definito la controffensiva capitalistica di fine secolo ha dunque profondamente alterato la distribuzione del lavoro e quella dei redditi, nel senso della diseguaglianza.
Ma essa ha alterato anche la bilancia tra beni pubblici e beni privati nell’allocazione delle risorse, e tra settore privato e settore pubblico nell’organizzazione sociale.
Già alla fine degli anni Sessanta Galbraith aveva individuato, nel capitalismo delle grandi Tecnostrutture, la tendenza a gonfiare una domanda opulenta di beni privati a scapito di una offerta “squallida” di beni pubblici. Allora, però, questa tendenza era controbilanciata, non solo nell’Europa del welfare State, ma anche nell’America della great Society, da una forte corrente di domanda democratica di diritti sociali, di beni pubblici, di servizi collettivi, che gonfiava la spesa pubblica ed elevava la pressione fiscale. La prima salì, tra il 195O e il 1975, dal 20 al 27% del Pil. La seconda, dal 22 al 27%.
Oggi, in piena controffensiva capitalistica, la tendenza galbraithiana si sta dispiegando, di fronte a resistenze democratiche indebolite. Perché?
Anzitutto, lo spazio della spesa sociale, nella nuova fase del “turbocapitalismo” finanziario e mondializzato, si é drasticamente ristretta. Le politiche economiche degli Stati sono oggi sottoposte a un giudizio severo dei “mercati” che castiga ogni comportamento eterodosso rispetto ai canoni della buona condotta: stabilità monetaria, equilibrio del bilancio, allentamento della pressione fiscale. Ciò pone limiti rigidi agli impieghi sociali del reddito: ai consumi e agli investimenti pubblici.
A questi limiti esterni fa riscontro una forte ripresa delle spinte “galbraithiane” alla promozione della domanda privata, di beni e di servizi, necessaria per assorbire le immense potenzialità produttive aperte dalle nuove tecniche dell’informazione e della comunicazione.
Per converso, nel settore pubblico emerge con sempre maggiore evidenza la “malattia dei costi” diagnosticata a suo tempo da Baumol: il divario tra l’aumento dei costi del lavoro e l’aumento della “produttività”: concetto, questo, privo di senso per gran parte di beni, come quelli pubblici, che si esprimono qualitativamente e non quantitativamente.
Accade così che nel tempo stesso si accresca la pressione verso l’aumento della domanda privata, e si restringano gli spazi e aumentino i costi di quella pubblica. E dunque, l’equilibrio tra beni privati e beni pubblici si sposta a vantaggio dei primi.
Le conseguenze di questo squilibrio sono devastanti. Negli Stati Uniti, negli ultimi venticinque anni, gli investimenti pubblici sono stati dimezzati, e si investe oggi nelle infrastrutture pubbliche meno che in qualsiasi altro paese del gruppo dei G 7 (per esempio, un terzo di quanto si investe in Giappone). Ciò è tanto più sconcertante in quanto si tratta del paese leader della Nuova Economia, in un periodo in cui investimenti e soprattutto consumi privati hanno segnato un ritmo trionfale. In Europa, dove pure vi sono state severe contrazioni della spesa pubblica, il fenomeno della pubblica taccagneria può essere addebitato alle politiche restrittive della domanda, praticate per garantire la stabilità finanziaria. Ma in America non c’è stata alcuna politica restrittiva della domanda che anzi, grazie a un afflusso di capitali da tutto il resto del mondo, ha potuto espandersi senza riguardo a un deficit commerciale mostruoso.
Questa contrazione degli impieghi pubblici, relativamente alle risorse totali e agli impieghi privati, spiega il degrado delle grandi infrastrutture denunciato quasi in tutti i paesi del capitalismo avanzato: un degrado che si manifesta proprio quando, in un’economia sempre più opulenta e complessa, si fanno più pressanti i bisogni collettivi di reti di trasporto, di strutture urbane non congestionate; e, soprattutto, di istruzione e di ricerca. Un solo esempio: tra il 1973 e il 1993 le spese per ricerche sviluppo e formazione nel settore privato dell’economia americana sono scese dal 14 al 12% del PIL; e quelle pubbliche, addirittura dall’11 al 6%. Non deve stupire che in America, ma anche in Europa e anche da noi, si manifesti con preoccupante evidenza il ritorno in massa dell’analfabetismo.
Questa divaricazione tra produzione privata e produzione pubblica è destinata, prima o poi, a provocare effetti negativi di grande portata sulla stessa produttività del settore privato. Non si deve dimenticare la funzione fondamentale svolta dagli investimenti pubblici in infrastrutture (l’esempio è quello delle ferrovie) nello sviluppo storico del capitalismo americano; o delle spese pubbliche, purtroppo per fini militari, nella ricerca e sviluppo (esempi ovvii, l’elettronica e Internet) nella più recente fase di espansione dell’economia americana e mondiale. Venute meno queste spinte, una economia sempre più “privatistica” tende a rinchiudersi in un orizzonte temporale sempre più ristretto. L’indice più significativo di questo rattrappimento è il dimezzamento del tasso di risparmio nella media dei paesi OCSE: tra la metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta, dal 15 al 7%; e oltre la metà di questo declino è dovuto alla contrazione del risparmio pubblico. Un capitalismo senza risparmio!
Un capitalismo tutto basato sul debito! È sostenibile?
La risposta ovvia è no. E l’ovvia conseguenza dovrebbe essere quella di un riequilibrio da perseguire attraverso la ricostituzione di margini di risparmio e di investimento nel settore dei beni pubblici.
Accade invece proprio il contrario. Il “turbocapitalismo” non si limita a comprimere il settore pubblico. Lo invade. La controffensiva capitalistica, verso la fine degli anni Settanta, si annuncia sotto il segno non solo dello Stato minimo, ma di un settore pubblico radicalmente mercatizzato. Com’è ovvio, le prime trincee ad essere investite dalle “privatizzazioni” sono le imprese pubbliche operanti in forma monopolistica o concorrenziale, sul mercato. Più che di una conquista, si tratta qui di una riconquista. Ma l’offensiva va molto più in là. Dopo aver smantellato le strutture dello Stato dirigista, essa investe direttamente le roccaforti dello Stato del benessere: la previdenza sociale, la sanità, l’istruzione pubblica.
Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta l’assalto è stato particolarmente virulento sulle due sponde dell’Atlantico, sotto la guida di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan. Ma non si trattava di un’offensiva improvvisa e impreparata.
Sul piano teorico, anzitutto, essa era stata preceduta da un lavoro scientifico e culturale di alta classe. I nomi più noti sono quelli di Frederik von Hayek e di Milton Friedman. Ma forse la più significativa e radicale avanguardia della nuova destra è stata la scuola americana delle scelte collettive. La sua culla è l’Università di Blackburg, in Virginia. Sulla traccia di precursori come Down e Olson, un gruppo di giovani e meno giovani economisti americani vi ha sviluppato una ricca, coerente e rigorosa rivalutazione dell’individualismo economico. I suoi presupposti sono: una concezione secondo la quale la società non esiste come soggetto (la signora Thatcher espresse poi questo concetto nei suoi consueti termini icastici: “la società? non esiste”), ma solo come aggregato di individui e come somma di interessi individuali; e un radicale economicismo, secondo il quale il comportamento degli uomini è regolato dal principio della massimizzazione: l’uomo è un essere economico e massimizzante.

L’offensiva contro il welfare state

Qui non è il caso di ripercorrerne, neppure brevemente i lineamenti. Ma solo di rilevare come dai semi di quelle premesse “riduzionistiche” sia nata una ideologia combattiva, rigorosa e pericolosa: il privatismo. Rigorosa, perché essa muove da una critica serrata dei fallimenti dello Stato (in particolare, della non neutralità della burocrazia e della classe politica democratica, portatrici entrambe di conflitti di interesse) e da un brillante tentativo di correggere i fallimenti del mercato, onestamente riconosciuti, non con la sua limitazione, ma con la sua estensione. Gli squilibri tra produzione di beni pubblici e produzione di beni privati infatti, secondo questa concezione, non si riducono restringendo l’area del mercato, ma allargandola. Le diseconomie esterne, i costi sociali causati dal mercato, il mercato stesso può assorbirli. Se si vuole esprimere il concetto in una forma caricaturale ma non disonesta si può dire che i guasti del mercato possono essere comprati e venduti (i rifiuti, per esempio, possono essere smaltiti in un mercato dei rifiuti).
Si tratta però di una concezione pericolosa perché, come molti hanno argomentato (Hirschman, soprattutto) essa ignora la fondamentale differenza tra la logica del mercato – una logica negativa, fondata sulla libertà della defezione, dell’exit – che non permette di cogliere le interdipendenze delle relazioni sociali – e la logica politica, che sa gestirle attraverso la partecipazione democratica. Il pericolo sta appunto nella perdita dell’interdipendenza, che costituisce la vera ricchezza della società. Questa perdita disorganizza la società, pretendendo di ridurre a preferenze individuali sommabili quelle preferenze collettive che si formano solo attraverso il confronto pubblico, la discussione aperta e – solo in ultima analisi – la votazione. Ora, proprio dalle preferenze collettive (e sempre più man mano che le società diventano più complesse) dipende la loro capacità di fronteggiare i rischi e di vincere le sfide. Ci torneremo tra poco.
Questa ideologia però – ed è il punto più importante – non era soltanto il frutto di un astratto lavoro teorico. Lo stesso lavoro teorico esprimeva, razionalizzandole, ragioni e passioni che andavano maturando rapidamente e concretamente nel corpo della società. Il privatismo è infatti una corrente di massa, alimentata dalla dissoluzione dei vecchi blocchi sociali formatisi nella società industriale, sotto le nuove spinte della mondializzazione e della ristrutturazione produttiva. Allentatisi i vincoli determinati dalle tecniche (come l’organizzazione fordista), dalle strutture di classe (come il proletariato), dalle obbedienze ideologiche (come il comunismo) una società in crescita economica ha generato una poderosa domanda di promozione, di autonomia, di “libertà di scegliere” individualmente. L’esplosione delle diseguaglianze ha scompigliato la classe media del grande consenso, una parte consistente della quale ha cominciato a cercare fuori della protezione dello Stato le occasioni della sua promozione sociale. Il mercato era l’istituzione più vicina e disponibile ad intercettare questa formidabile domanda. Il privatismo si è dunque identificato con il mercatismo ed è subito diventato antistatalista. Lo Stato, indebolito dalla mondializzazione e pressato dalle esigenze di equilibrio finanziario, è apparso sempre più come “prenditore” che come “erogatore”: dunque, come ostacolo alle istanze di promozione. La sinistra riformista e socialdemocratica, legata tradizionalmente alla funzione regolatrice e redistributrice dello Stato, ha subìto il primo contraccolpo politico di questa nuova “grande trasformazione” sociale.

L’attacco allo Stato sociale portato con particolare veemenza in America e in Gran Bretagna negli anni Ottanta dalla destra liberista si è scontrato negli anni Novanta con la resistenza democratica negli Stati Uniti e socialdemocratica in Europa. Le vittorie socialdemocratiche in Europa, e i “pareggi” negli Stati Uniti, indicano certamente la forza di questa resistenza opposta da ampi strati della società al programma massimo di smantellamento dello Stato sociale e di instaurazione di una società di mercato. Ma la spinta propulsiva del privatismo non è affatto esaurita. Dappertutto, la nuova destra privatista e liberista è all’offensiva. E dappertutto la sinistra è sulla difensiva. Essa non dispone infatti di una sua visione autentica, di una sua alternativa costruttiva al privatismo, se per alternativa non si intendono le esortazioni a non esagerare, ma un concreto modello di organizzazione sociale. Per ora, le sue “terze vie” somigliano più agli ospedali da campo per riparare ai guasti del capitalismo ruggente che a una proposta di sviluppo che consenta davvero di rendere la crescita compatibile con la sostenibilità ecologica e con la coesione sociale. Anche dal punto di vista culturale, la sinistra riformista gioca di rimessa, accettando talvolta, con patetico mimetismo manageriale, le filosofie privatistiche in salsa sociale, e rinunciando a una propria iniziativa progettuale fondata sui suoi valori e sui suoi principi.
Ora, una resistenza essenzialmente passiva non dura a lungo. Senza un’alternativa che dia una risposta positiva ed efficace alle nuove istanze di autonomia individuale, ristabilendo però nuove regole di coesione sociale, quella offensiva riprenderà con rinnovata forza, portando in avanti un processo di dissoluzione.