L’INTERVISTA DI MARIO DRAGHI

di Renato Costanza Gatti – Socialismo XXI Lazio |

«Le strategie che nel passato hanno assicurato la prosperità e la sicurezza dell’Europa, affidandosi all’America per la sicurezza, alla Cina per l’export e alla Russia per l’energia, sono diventate insufficienti, incerte o inaccettabili»

L’intervista di Mario Draghi ha decisamente un valore politico dagli ampi orizzonti, cosa della quale non siamo abituati, che si contrappone ad un clima politico europeo, e nazionale, dominato da uno sterile pragmatismo di breve respiro.

In un mondo che si sta polarizzando in aggregazioni di dimensioni continentali e in cui gli attriti commerciali ma soprattutto militari rischiano di ritrovare una attualità che si sperava cancellata, pare evidente che le strategie del passato dimostrano la loro insufficienza e richiedono l’elaborazione di nuove strategie, cosa di cui i politici europei attuali non paiono all’altezza.

Mi ha colpito il seguente passaggio che fa riferimento agli investimenti necessari per affrontare le nuove tematiche di portata strategica: «l’Europa non dispone di una strategia federale per finanziarli, né le politiche nazionali possono assumerne il ruolo, poiché le norme europee in materia di bilancio e aiuti di Stato limitano la capacità dei Paesi di agire in modo indipendente».

Sembra di leggere, nelle parole di Draghi, la posizione di Mariana Mazzucato sostenitrice dell’”entreprenurial state” che cessa di essere estraneo alla guida della strategia dei paesi, tutore del libero mercato e della concorrenza, garante delle regole e interventista solo nel momento in cui si determinano i fallimenti del mercato. Questa visione lascia il posto ad uno stato che si fa protagonista nell’investire in progetti generalmente di lunga prospettiva bisognosa di capitali pazienti e di una propensione al rischio assente nell’imprenditoria privata. Peraltro gli sviluppi tecnologici, perno della modernizzazione del modo produttivo, richiedono investimenti in ricerca di base e applicata che le imprese non possono (e quelle che potrebbero preferiscono delegare allo stato per appropriarsene poi al momento dell’impiego commerciale) sostenere. Ebbene con quelle parole che ho sopra ricordate, Draghi riconosce l’impossibilità per i singoli stati di programmare simili investimenti, e l’assenza della UE di una strategia che imbocchi una strada che affronti questi temi.

“Quindi c’è il «ser rischio» che l’Europa non raggiunga i suoi «obiettivi climatici, non riesca a garantire la sicurezza richiesta dai suoi cittadini e perda la sua base industriale a vantaggio di regioni che si impongono meno vincoli”.

C’è il serio rischio che, sia per la mancanza di quelle terre rare fondamentali per le nuove tecnologie (ricordo l’accerchiamento evocato da Aldo Potenza in un suo recente post), sia per la dimensione dei finanziamenti della ricerca, sia per il ritardo nei computer quantistici, nell’intelligenza artificiale, l’unione europea “perda la sua base industriale a vantaggio di regioni che si impongono meno vincoli”.

Pare chiaro il messaggio: o l’Europa cambia marcia (e con il NGUE ha iniziato e sarebbe folle tornare al miopismo passato) o rischia di scomparire assorbita dal gorgo di un mondo polarizzato.

Draghi, nel corso della sua intervista, indica tre fattori primari e li associa a tre aggettivi meticolosamente scelti:

► l’insufficienza di un sistema di sicurezza affidata agli USA;

► l’incertezza dei rapporti commerciali con la Cina;

► l’inaccettabilità dell’uso del gas russo.

Il primo punto comporta la necessità di pensare ad un esercito unico europeo con una politica estera unitaria e non delegata a 27 paesi; è un obiettivo finale che da sempre era il logico sbocco del progetto europeo; il più difficile da raggiungere per i più o meno evidenti sovranismi dei singoli stati, ma che la situazione odierna rende di pressante urgenza. Chiaramente questo passaggio comporterà una revisione del nostro stare all’interno della NATO (e penso in particolare alle pressioni che ci potranno essere imposte per la situazione di Taiwan); ma, in particolare, una nuova soggettività comporterà maggior assunzioni di responsabilità, quali ricercatori di sbocchi di pace, nella questione ucraina. (Penso sempre all’art. 11 della nostra Costituzione che nel perentorio ripudio della guerra, indica come unica strada la ricerca di azioni pacificatorie).

Il secondo punto pone un problema di sostanziale portata; perché dovremmo giudicare i nostri rapporti commerciali con la Cina con un metro diverso da quello dell’interesse? In sintesi perché dovremmo rivedere i nostri rapporti commerciali con la Cina sol perché quel paese ha una posizione politica diversa dalla nostra; perché è la maggior concorrente degli USA (ma ha con quel paese un enorme flusso commerciale). Da quando è nata quella repubblica, salvo marginali conflitti locali, non ha mai fatto una guerra, ha fatto uscire dalla fame un miliardo di persone, ed in questo momento diventa strategica per le materie prime fondamentali per l’innovazione. Certo dovremo evitare di costruire una dipendenza paralizzante nelle importazioni da quel paese, ma commerciando con quel paese potremmo evitare di crearci una dipendenza paralizzante da un’altra parte. La decisione del nostro governo di cancellare la prospettiva di una via della seta mi pare succube di un malinteso atlantismo.

Il terzo punto riguarda l’inaccettabilità della nostra dipendenza dall’energia russa. Da un punto di vista storico, quando negli anni 70 subimmo i contraccolpi della nostra dipendenza dal petrolio, la prima repubblica seppe impostare un programma che prevedeva fino a 60 centrali nucleari che ci avrebbero resi autonomi in campo energetico. La fine referendaria dell’avventura dele centrali nucleari, non è stata capace di impostare una programmazione atta ad evitare la dipendenza estera del nostro fabbisogno energetico. L’economia tedesca ha goduto, come fattore determinante, del sistema energetico russo al punto di renderlo quasi esclusivo con la costruzione di non uno, ma ben due Nord Streams. Il colpo più grosso all’economia tedesca e a cascata alla nostra economia, è stata l’interruzione della fornitura di gas russo non solo per decisione politica, ma addirittura con la distruzione dei due gasdotti simbolo di un rapporto economico di rilevantissimo valore. Mi auguro che l’inaccettabilità non sia elaborata con un risentimento irragionevole e sordo, visto che il secondo cliente dei prodotti petroliferi russi riciclati da paesi non allineati sono gli USA. Una inaccettabilità quindi non di sostanza ma di ipocrita forma.