di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |

Questa nuova parola indica un fatto che ha cominciato a presentarsi negli anni ’70 e che consiste nello scostamento tra due indici la cui coincidenza costituisce una “golden rule” nell’economia contemporanea. Mi riferisco a quella regola che vorrebbe che il tasso di incremento dei salari corrispondesse al tasso di incremento della produttività del lavoro. Osservando tale legge si può registrare un aumento del reddito del lavoro senza che si registrino temuti effetti sul profitto, ma, soprattutto, si registra un aumento nei consumi, generato dall’aumento della massa salariale, senza effetti inflattivi, di modo che l’aumento salariale sia non solo nominale bensì reale. Ma al di là dell’effetto salariale, l’incremento della produttività costituisce elemento fondamentale per la competitività del sistema economico in sede europea e mondiale.

Si tratta quindi di una regola insita nella logica economica capitalista, senza componenti sociali o men che meno socialisti, il cui mancato rispetto si traduce in un danno per l’economia globale minando il meccanismo che sta alla base della crescita. Non aumentare i salari nella stessa misura dell’incremento della produttività del lavoro comporta una difficoltà nel trovare uno sbocco alla maggior produzione dei beni, effetto della incrementata produttività, che non sia una ricerca mercantile sui mercati esteri o, peggio, un mantenimento degli stessi volumi di produzione comportante una diminuzione dell’occupazione. Inoltre il decoupling comporta un effetto nella distribuzione del reddito a favore del capitale peggiorando gli indici di disuguaglianza che, come stiamo assistendo, fanno registrare un progressivo peggioramento dell’indice Gini.

Quantitativamente il fenomeno nelle economie mature dell’OECD dopo gli anni ’70 fa registrare in media, al di là del ciclo, che solo il 50% dell’incrementata produttività si traduce in aumento dei salari e tale scostamento si è incrementato nelle ultime due decadi.

Le teorie economico-sociali che cercano di interpretare questo fenomeno si possono concentrare in tre filoni:

● quello del mutamento tecnico che svaluta i lavori poco qualificati senza avere effetti compensativi sui lavori più specialistici. Tale tesi pare essere empiricamente inconsistente osservando che le variazioni nella diffusione degli strumenti ICT non sono correlati con i mutamenti nella distribuzione dei redditi; praticamente si tenderebbe a insinuare che la produttività del lavoro è generata dall’innovazione tecnologica figlia, più che del lavoro, del capitale.

● quello del mutamento di orientamento nella politica economica; questo filone fa registrare una sua consistenza in alcune dimensioni macroeconomiche, rappresentate da numerose variabili. Il clima politico maturatosi storicamente dopo il crollo del muro di Berlino e dopo la finanziarizzazione dell’economia occidentale, ha riscontri nei rapporti di forza delle parti sociali.

● quello che considera il gap salari-produttività la variabile dipendente da una serie di variabili selezionate stimando i coefficienti dipendenti dallo Stato.

 

I risultati di queste analisi empiriche indicano che la debolezza ed il deperimento delle istituzioni pro-lavoro paiono aver giocato un ruolo più rilevante: tutte le variabili prese in considerazione indicano nell’aumento della disoccupazione e nel declino dei sindacati le cause del maggior impatto sul decoupling produttività-salari.

Il processo dell’incremento della globalizzazione commerciale e finanziaria ha pure contribuito sul declino del salario medio, mentre non pare avere un significativo effetto l’aumentato livello di dividendi distribuiti né l’incrementata finaziarizzazione del mercato dei capitali.

Nel nostro paese poi, il nanismo della struttura produttiva comporta che la stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti è esclusa dalla contrattazione sindacale di secondo livello che, secondo il protocollo Ciampi, coniuga gli aumenti del salario agli aumenti della produttività.

Nulla da stupirsi se il nostro paese, con una produttività che negli ultimi trent’anni si è migliorata ad un tasso ben al di sotto di quello fatto registrare nei paesi più a noi vicini (Francia e Germania) e dove l’amento della produttività si riflette al 50% sugli aumenti salariali dobbiamo registrare l’ormai famoso declino del livello dei salari reali.

La recente esplosione dell’inflazione esogena, collegata ad una conseguente inflazione da profitti non ha di certo migliorato la situazione, tenendo conto che la contrattazione collettiva di primo livello, incide nella determinazione dei minimi sindacali in funzione dell’inflazione da cui però siano espunti gli effetti inflattivi generati dall’incremento dei costi dell’energia.

E’ su questa contraddizione, ovvero su questo non rispetto di una golden rule capitalista che dovremmo basare la nostra lotta politica, cogliendo l’occasione di questo ossimoro comportamentale per combattere e sconfiggere la concezione egemone oggi predominante.  

Le considerazioni fatte sul decoupling, hanno sì una rilevanza di tipo sindacale e retributivo, inquadrando il fenomeno come “il nuovo sfruttamento”, ma rimandano ad un concetto più generale che consiste certamente nel pluslavoro fornito dalla forza-lavoro in eccesso al lavoro necessario al compenso effettivo, ma, come ci ricorda Marx nella critica al programma di Gotha, lo sfruttamento consiste soprattutto nell’escludere la classe subalterna dalle decisioni di impiego del surplus prodotto dall’economia.

E l’esclusione della classe subalterna dalla scelta dell’impiego del surplus, ci porta ad un livello più alto, ovvero alla scelta berlingueriana sul “cosa e come produrre” che rimanda all’incipit del Capitale all’alternatività tra “valori d’uso e valori di scambio”.

 In termini semplicistici il tema si può sintetizzare nell’alternativa: il sistema produttivo deve produrre beni che producono il massimo profitto (valori di scambio) o i beni che servono maggiormente per soddisfare i bisogni o, meglio, i beni che, in prospettiva sono i più indicati per sostenere lo sviluppo economico (valori d’uso). Mentre la prima scelta è sostenuta dalla logica capitalista che, per sua natura, dovrebbe beneficiare tutti nella ricerca del profitto, la seconda scelta, quella che antepone la produzione di valori d’uso, presuppone che a scegliere “cosa e come produrre” sia la razionalità, ovvero quell’entità superiore che la rivoluzione francese sostituì alle divinità religiose con la “dea ragione”, una divinità tutta umana che umanizza il soprannaturale inglobandola nella naturalità della ragione umana.