SULL’ORLO DEL BARATRO NUCLEARE (PARTE SECONDA)



Prof. Giuseppe Scanni – Già Vicepresidente di Socialismo XXI |

Nel mondo iperconnesso non si trova lo spazio per uscire dalla analisi superficiale, dicotomica e demonizzante del conflitto alle soglie del disastro nucleare.

Il sistema russo è molto complesso e sarebbe sbagliato semplificarlo definendolo in modo sintetico “dittatoriale”; anche la sottolineatura del carattere “autocratico” che anima alcuni comportamenti del presidente Putin devono essere interpretati sotto due aspetti:

a) le conseguenze interpretative del mondo prevalentemente occidentale che ha superato schemi e metodi operativi del novecento, grazie anche al mutato sistema informativo universale ed immediato, ed alla oramai maturata convinzione del dovere in capo ai governi di rispondere alle nuove necessità individuali, che per il gran numero di richiedenti diventano di massa;

b) gli interessi generali della cultura e dei bisogni del popolo russo.

È emblematica l’asserzione del 23 marzo 2023 di Dmitrij Anatol’evič Medvedev, effettivo numero due del potere moscovita, in risposta alla dichiarazione del ministro della Giustizia tedesco Marco Bushmann dell’obbligazione giuridica della Germania Federale ad arrestare Vladimir Putin, se mettesse piede nel suo stato, a seguito del mandato di arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale sita a L’Aia: “Le nostre relazioni con l’Occidente sono al punto più basso di sempre. Provate ad immaginare il leader di una potenza nucleare che visiti la Germania e venga arrestato. In quel caso, i nostri mezzi voleranno a colpire Bundestag, ufficio del Cancelliere e così via. Grazie a Dio, abbiamo la parità e persino la superiorità nelle forze nucleari strategiche, altrimenti saremmo stati fatti a pezzi”.
Dopo aver assicurato che non soltanto negli armamenti nucleari, ma anche in quelli convenzionali la Russia primeggia, al punto che l’industria bellica sta producendo altri 1500 carri armati, così continua il vicepresidente del Comitato di Sicurezza (presieduto da Putin):” l’Ucraina, onestamente parlando è parte della Russia, solo per ragioni geopolitiche e storiche noi abbiamo tollerato di vivere separati, costretti molto tempo fa a riconoscere quei confini inventati”.

Il vice presidente Medvedev non è certamente uno squilibrato (è stato il terzo Presidente della Federazione Russa- dal 2008 al 2012-, Primo ministro dal 2012 al 2020, vice presidente del Consiglio di Sicurezza dal 2020 a tutt’oggi- né un goffo ventriloquo: nato in una famiglia di docenti universitari, ha conseguito un dottorato di ricerca in diritto privato ed una docenza all’Università statale di San Pietroburgo) e quindi è plausibile sostenere che le sue dichiarazioni sono il frutto di una concertazione dei vari centri di potere, guidati dal Presidente Putin, finora maggioritariamente sostenuto dai russi.

Medvedev ha quindi, ancora una volta, minacciato l’uso di armi nucleari; sostenuto che il diritto della forza è superiore a quello dell’ordinamento giuridico; che la Russia non riconosce l’Ucraina nella sua identità di nazione, ma esclusivamente di regione della Russia e disconosce i Trattati internazionali.

Sui due primi punti (minaccia nucleare e diritto prioritario della forza) molta parte dell’opinione pubblica italiana e tanta italica “intelligencija” (in russo: интеллигенция) è per diversi motivi o d’accordo o manifesta timori. Lucio Caracciolo, Domenico Quirico, entrambi seri giornalisti esperti conoscitori del sistema internazionale- non sospettabili neppur lontanamente di “intese “con la Russia, sono giunti la scorsa settimana alla stessa conclusione che da un anno a questa parte, con alti e bassi, loro stessi rappresentano, assieme ad altri, in forme diverse ma univoche sulle rispettive testate: nella guerra ucraina si imporrebbe, seppur con dispiacere, l’alternativa diabolica: la scelta per l’Occidente tra il conflitto nucleare e l’abbandono dell’Ucraina al suo destino di servaggio.

Io penso che, disgraziatamente a causa dei lutti che il popolo ucraino e l’esercito russo subiscono da questa guerra infame e anacronistica, essa durerà ancora sulla soglia del disastro. Comunque, per tornare al discorso, la grande maggioranza dei russi, compreso il Patriarcato della Chiesa ortodossa moscovita, si dice convinta che la Storia abbia ratificato un verdetto inappellabile: non esiste una nazione Ucraina e per questo motivo “l’operazione speciale” che ha le fattezze di una guerra è necessaria e legittima. Cerchiamo di capire se è proprio così come viene come viene quotidianamente comunicato dal governo russo.

La scorsa settimana i nostri lettori sono stati preavvisati che poco è stato scritto, detto, informato sulla storia dell’Ucraina, e ci siamo presi assieme il tempo di sottolineare e cercare di comprendere nella loro portata passaggi tanto poco dibattuti quanto importanti.

Cominciamo col grimaldello dialettico sinora usato per aprire le orecchie all’attenzione. Un pochino per sapiente propaganda russa, anche della Chiesa ortodossa, è stato per esempio accettato, senza effettiva contestazione, o per lo meno precisazione del suo significato, che l’unita comunità russo-ucraina trarrebbe origine dalla Rus’ di Kiyv, una entità monarchica la cui fondazione si fa risalire all’882 d.C.. Osserviamo che si tratta di un periodo sostanzialmente coevo alla fondazione dell’impero carolingio, decretata da Carlo Magno, che fu incoronato nella notte di Natale dell’800 Imperator Augustus del Sacro Romano Impero da papa Leone III.

Al di là della facile e sfiziosa e inesatta considerazione che sin dall’800/900 d.C. si era costituita un’alternativa geo politica tra Occidente ed Oriente, quello che importa sottolineare è che anche etnie diverse abitanti il lontano est europeo avevano sentito il bisogno, per meglio difendersi ed anche per sviluppare migliori commerci, dare vita ad un potere coinvolgente più popoli, così che la Rus’ di Kiyv occupava un bacino geografico comprendente l’Ucraina, la Russia occidentale, la Bielorussia, la Moldavia, la Polonia, la Lituania l’Estonia orientale. La Rus’ di Kiyv era, diremmo oggi, un importante centro di commercio estero per il suo import-export con la Scandinavia, l’Impero di Bisanzio, il Medio Oriente, l’Europa centrale ed orientale.

La frammentazione della Rus’ in numerosi principati iniziò nel 1139 e già un secolo dopo , tra il 1237 e il 1241, in cinque difficili anni di sanguinosi scontri i territori furono ridotti al vassallaggio dai Tatari che li invase e li dominò completamente sino al 1362 , quando il granduca di Lituania, Algirdas, liberò tutta la terrà di Kiyv e la annesse alla Lituania; nel 1386 Polonia e Lituania decisero l’unione dinastica dei due stati ed i polacchi iniziarono una avanzata verso Est in territori di confine (ukraina); la pressione polacca indusse la popolazione “rutena” a spostarsi nella grande regione che si protende nel medio Dpner.

La storia della Rutenia è esemplificativa della dinamicità liquida dei confini di quella parte di Europa.

Rutenia è il nome medioevale della Rus’ di Kiyv e fu ripreso dalla monarchia austroungarica per definire quel grande territorio carpatico di NE popolato da Ucraini diviso tra numerose “nazioni” come la Bucovina, la Galizia, l’Ungheria e che indicò anche la provincia orientale della Cecoslovacchia (sino al 1945), col nome in questo caso di Russia Carpatica o Russia Subcarpatica. C’è anche chi ricorda che il nome latino Ruthenia sia all’origine del nome di un elemento chimico, il rutenio, simbolo Ru, scoperto dal chimico russo G.W. Osann nel 1824, che lo avrebbe così battezzato perché la Rutenia, considerata “russa”, era una terra lucente, come l’elemento chimico scoperto che era composto con un metallo presente in natura copiosamente presente sul territorio.

Se quest’ultima appare una interpretazione piuttosto forzata della appartenenza russa della Rutenia, è certo che quella grande distesa, abitata all’80% da ucraini dal 12% di ungheresi, con minoranze russe, romene, slovacche, tedesche e rom, è in qualche modo un mondo a sé stante , nel quale confinano tanti confini che fanno venire il mal di testa ai doganieri , una specie di posto che non esiste “definitivamente”, quasi che non siano state le popolazioni in movimento ad abitarlo ma i confini in movimento a determinare le popolazioni.

Il luogo indeterminato per eccellenza è comunemente identificato con il territorio che ha come capoluogo Uzhgorod (ma anche Leopoli e Kosice). Uzhgorod, per esempio, fu conquistata dai magiari nell’XI secolo e, attraverso le vicende ungheresi, restò nel regno ungherese e nell’impero austroungarico fino al 1918, quando assieme alla maggior parte della Rutenia passò alla Cecoslovacchia, dalla quale si rese indipendente alla deflagrazione del secondo conflitto mondiale, perdendo l’indipendenza alla fine della guerra essendo annessa all’Unione Sovietica. L’identità rutena è quindi assai liquida ed ha nella religione un tratto unificante tramite la Chiesa ortodossa uniate che dal 1646 accettò l’unione con la chiesa di Roma usando il rito bizantino.

È stata qui spesa qualche parola sulla Rutenia perché nel XVI secolo per aggiungere un altro ingrediente al corposo cocktail dell’identità ucraina, si iniziò a definire genericamente ruteni gli abitanti del Granducato di Lituania (l’attuale Lituania e Bielorussia), l’uso comune ratificato dalla burocrazia asburgica definì rutena, in aggiunta, l’attuale Ucraina occidentale, sovrapponendola anche alla Galizia, che ha come capoluogo Leopoli.

Una chiave di lettura sulla identità autonoma dell’Ucraina o sulla sua sostanziale storica estensione territoriale della Russia è, evidentemente, la corretta interpretazione del termine Rus’. Appellativo che origina il nome alla Russia, non il contrario. Rus’ di Kiev non va intesa semplicisticamente come terra dei Rus’ discendenti dagli slavi orientali. Rus’ è il termine generico con il quale gli antichi dialetti scandinavi definivano le popolazioni medievali scandinave che vivevano nelle regioni che attualmente fanno parte di Ucraina, Bielorussia e Russia occidentale. In quei dialetti Rus’ significava “uomini che remano”.

Quei Rus’ (in russo: Русь, /rusʲ/, Русичи, Русь) furono commisti da diverse migrazioni, alcune assolutamente rilevanti come quella cosacca, che ha lasciato una impronta rimarcabile nella formazione della identità ucraina.

I cosacchi erano tatari, appartenenti a popolazioni nomadi delle steppe comprese tra la Russia meridionale e l’Ucraina orientale, lungo il basso corso del Dnepr e del Don. Il termine cosacco appare alla fine del 1300 secondo chi cita le cronache della Repubblica di Novgorod (1395), secondo altri si deve far riferimento al 1445, perché un manoscritto russo, descrivendo l’attività di mercenari nomadi liberi dall’assoggettamento agli oneri fiscali, a questi li identificava. È un fatto che quei cosacchi dimisero il loro status nomade insediandosi nel XVI secolo oltre le cateratte del basso Dnepr, sulle isole del fiume, costituendo la Zaporozskaja Seč, un sistema politico guidato da un etmano eletto dalla rada (assemblea) dei Cosacchi. Nel 1569 il territorio colonizzato dai Cosacchi fu separato dalla Lituania e incorporato nella Polonia. I polacchi cercarono di acquietare le proteste cosacche assumendone una parte come mercenari ed imponendo ai restanti di dedicarsi ad attività agricole. L’operazione riuscì male. I Cosacchi non gradirono, anche per le differenze religiose che agitavano il composito territorio ucraino: cattolici di rito latino, in maggioranza polacchi, cattolici uniati, ruteni ed ortodossi, in maggioranza Cosacchi.

I Polacchi capirono presto che i Cosacchi erano ribelli e combattenti valorosi, una gente che si dichiarava orgogliosa della propria etnia, storia, cultura, capace anche di organizzare politiche di alleanze.

L’etmano Bogdan Chmel’nickij, infatti, riuscì ad ottenere la protezione russa nel 1654 dopo alterne vicende belliche seguite alla occupazione polacca di un importante territorio, sulle cataratte del Dnepr, dove l’esercito di Varsavia aveva costruito la fortezza di Kodak. La protezione durò più di dieci anni finché i russi trovarono più utile accordarsi con i polacchi (trattato di Andrusovo del 1667) e spartire i territori, cedendo a loro quelli alla destra del Dnepr e appropriandosi di quelli sulla riva sinistra del fiume e la città di Kiyv. Come è noto la Storia narra eventi dinamici e così anche questi avvenimenti, così importanti nel destino futuro dell’Ucraina, non si esauriscono col Trattato di Andrusovo. Il nuovo etmano Pëtr Dorošenko riuscì a coinvolgere il sultano Maometto IV che, nel 1672, impose con le armi la pace di Buczacz, che affidò l’Ucraina alla protezione turca. Anche questa pace si rilevò una tregua; il polacco Giovanni Sobieski nel 1684 riprese il controllo del territorio designato dal trattato di Andrusovo. Ancora una volta il popolo Cosacco tentò una nuova sortita nel 1708, questa volta con l’ausilio di Carlo XII di Svezia, ma la brillante iniziativa dell’etmano Ivan Mazepa non riuscì e lo stato cosacco rimase russo, privo d’ogni autonomia e infine ufficialmente annesso come provincia russa; nel 1793 a seguito della spartizione della Polonia anche lo stato cosacco della riva destra del Dpner fu annesso alla Russia.

Contro l’annessione russa si sviluppò una forte resistenza guidata da generazioni di combattenti cosacchi, il cui comando strategico era posizionato a Kiyv, e raggiunse una conflittualità così elevata che, nel 1840, una dura repressione russa colpì impietosamente i nazionalisti ucraini ed il governo russo arrivò perfino a dichiarare fuori legge l’uso della lingua ucraina. A seguito della repressione il centro nodale del comando dei patrioti si spostò da Kiyv a Leopoli, all’epoca territorio austriaco.

Quel popolo che veniva da lontano, dalla Scandinavia, meticciato con altre etnie e innervato dai tatari cosacchi, continuò a non demordere dal conseguimento dell’obbiettivo di ricomposizione in uno stato autonomo ed indipendente, sinché non si presentò l’occasione generata dalla Rivoluzione russa e dalla sconfitta nella Prima guerra mondiale dell’impero austroungarico. Tra il 1918 ed il 1919 gli Ucraini coronarono il loro sogno di indipendenza. Era stato necessario ottenere l’aiuto russo per raggiungere lo scopo e l’adesione nel 1922 alla nascente Unione Sovietica ne fu il prezzo. Non dovettero attendere molto gli ucraini per comprendere quanto esoso fosse quel prezzo, Durante tutto il lungo periodo che va dal 1922 alla fine degli anni’80, con l’esclusione della crudele occupazione nazista tra il 1941-1944, i sovietici esercitarono un variegato diverso potere oppressivo ed imperiale sulle Repubbliche dell’Unione Sovietica: in Ucraina la morte per fame decretata da Stalin per milioni di cittadini dal 1932 al 1933. Quella strage fu definita nel 2008 dal Parlamento ucraino “Holomodor”, secondo l’espressione ucraina moryty holodom (Морити голодом), combinando le parole ucraine holod (fame, carestia) e moryty, (uccidere affamare, esaurire); la strage viene ufficialmente commemorata ogni anno il quarto sabato del mese di Novembre. Sempre nel 2008 fu aperto il Museo nazionale del Genocidio dell’Holomodor.

Anche in Ucraina il crollo del comunismo simboleggiato dall’abbattimento del muro di Berlino ebbe notevoli conseguenze. Le mai sopite aspirazioni nazionaliste ripresero vigore e nel 1991- sulla base di una trattativa non semplice il cui contenuto sarà descritto nel prossimo articolo- l’Ucraina tornò ad essere uno stato indipendente ed internazionalmente riconosciuto.

Uno Stato, quello ucraino, con problemi molto più complessi da risolvere che in altri stati di nuova indipendenza dell’Europa dell’Est per rendere compiuta ed efficace l’acquisita indipendenza; era necessario infatti fare i conti con la complessa storia che ha segnato nei secoli i rapporti con la Russia (che naturalmente non si esauriscono nello scritto esemplificativo che è stato qui redatto) aggiunti alla moltiplicazione di situazioni da risolvere per guadare le turbolenti acque che occorre traversare per superare la transizione democratica. Inoltre, la grande superfice dello Stato, l’alto numero di abitanti rendevano e rendono più complesso il passaggio ad una economia di mercato, e la stabilità delle istituzioni perché la comunità nazionale deve obbligatoriamente tenere conto dalla molteplicità dei gruppi etnici e linguistici che la compongono.

Siccome, come sosteneva Sofocle, il tempo è un dio benigno, fiduciosi nella sua bonarietà, attendiamo assieme la prossima settimana per concludere la prima parte della nostra “storia”.

(2-continua)