SULL’ORLO DEL BARATRO NUCLEARE (PARTE TERZA)


Prof. Giuseppe Scanni – Già Vicepresidente di Socialismo XXI |

Nel mondo iperconnesso non si trova lo spazio per uscire dalla analisi superficiale, dicotomica e demonizzante del conflitto alle soglie del disastro nucleare.

È invalsa una ripetuta opinione sulla supposta irresolutezza e mancanza di determinazione degli Stati Uniti, della UE, genericamente della NATO, a comprendere i messaggi diplomatici e le azioni che hanno condotto il mondo sull’orlo del baratro nucleare, riducendo ai minimi termini la possibilità di iniziativa politica della organizzazione multilaterale per eccellenza le Nazioni Unite, mentre la folle guerra che si combatte in Ucraina spazza quotidianamente vite, offendendo crudelmente l’umanità, il creato, in definitiva il Creatore.

È proprio vero, totalmente vero? Offro una cronaca, frutto anche di una vissuta esperienza.

Nel 1989 all’ONU si studiava il mondo post-guerra fredda

La formazione in Stato della nazione ucraina si è sviluppata tormentatamente nel ‘900, anche per i vincoli della satellizzazione imposta dal PCUS fino alla frattura choccante del comunismo evidenziata il 9 novembre del 1989 dal crollo del Muro di Berlino.

Ricordo che in quel periodo lavoravo a New York alle Nazioni Unite per preparare la visita dell’onorevole Craxi al segretario generale Perez de Cuellar il successivo 8 dicembre, assieme al direttore generale dell’Onu, l’ambasciatore francese Antoine Blanca, espressione “diretta” e non mediata di François Mitterrand, ed al direttore dell’UNDP, l’italiano Aldo Aiello, già senatore socialista, valente internazionalista ed esperto dello sviluppo Nord-Sud, che aveva maturato interesse alla proposta di Pannella e Bonino per il partito radicale transazionale.

L’incontro – su invito dell’Onu- si concluse con l’affidamento all’ex Presidente del Consiglio, segretario del Partito socialista italiano e vicepresidente dell’Internazionale Socialista, dell’incarico di “Rappresentante personale sui problemi del debito estero dei Paesi in via di sviluppo”, nella lingua onusiana traducibile nella delega per le questioni connesse al debito ai poteri di un vicesegretario generale.

In quel giovedì 9 novembre ed il successivo venerdì mattina, prima dello svuotamento del fine settimana, i grandi corridoi, i saloni, addirittura le mense del simbolico Palazzo ideato da Niemeyer, Le Corbusier ed Harrison, furono avvolte dal silenzio, in parte si svuotarono come nei giorni dedicati alle ferie.

La sensazione di un cambiamento epocale, i rischi connessi ma anche le prospettive che s’aprivano, in parte inaspettate, invitavano la diplomazia internazionale alla riflessione.

L’amministrazione americana era assai prudente. Il presidente Bush (senior ovviamente) ricevette a Washington Bettino Craxi prima del conferimento dell’incarico ONU. L’incontro, che ricordo lungo e cordiale, era stato preparato in modo eccellente da Rinaldo Petrignani, il più longevo ambasciatore italiano (10 anni consecutivi!) a Washington ed era il riconoscimento statunitense del decisivo ruolo nazionale ed internazionale del segretario del Partito socialista, ma anche, ovviamente, il segnale dell’attenzione della Casa Bianca alla questione debito, che dal 10 marzo del 1989 aveva trovato a Washington un interesse politico col piano Nicholas Brady, dal nome dell’allora Segretario al Tesoro che lo aveva presentato al Bretton Wood Committee, e che per la sua valenza politica era da novembre chiamato a dover tenere conto della voragine aperta dal fallimento del comunismo mondiale nei rapporti con tanti paesi africani, sud americani e in parte minore asiatici.

A New York, in quell’osservatorio privilegiato sull’East River che è la sede delle Nazioni Unite, la situazione degli stati e delle nazionalità incorporate nell’URSS era analizzata ora per ora. Le valutazioni italiane erano non soltanto ascoltate, ma richieste per la solida reputazione che l’Italia aveva consolidato in politica estera nel secondo dopoguerra, traversando nel gruppo delle navi pilota occidentali le burrascose acque della Guerra Fredda; nell’incontro privato con Perez de Cuellar, che seguì quello ufficiale con la delegazione ONU (il segretario generale, Blanca, Aiello) e l’onorevole Craxi da me accompagnato, il neo “Rappresentate personale” mi confermò che era stata svolta anche una analisi della crisi sovietica, alla luce della interpretazione italiana dopo l’incontro alla Casa Bianca.

Ebbi nelle settimane a seguire modo di appurare che se per il popolo italiano erano maggiormente interessanti le vicissitudini della Germania, l’allora Cecoslovacchia, l’Ungheria e la Polonia- anche grazie al Papa, il Santo Giovanni Paolo II-, esperti e diplomatici studiavano già all’epoca la complicata situazione ucraina, anche per l’insito pericolo che già s’intravvedeva per lo sbocco al mar Nero dell’impero russo offerto dalla Crimea, altra terra cruciale nella continua mobilità dei confini spesso, come ho già scritto, ignorante della nazionalità delle popolazioni residenti.

La Russia, figurata dall’Orso, che fa paura ai Russi

Medved’, in russo Медведь, è il nome con il quale cautelativamente i russi indicano l’Orso, simbolo della sterminata Russia. Medved significa il mangiatore di miele, secondo pochi altri etimologi quello che cerca il miele. Sembra quasi che gli stessi russi preferiscano usare il nomignolo per esorcizzare la fosca violenza accreditata al carnivoro mammifero, secondo una credenza probabilmente ereditata dai tabù dei protogermanici che preferivano definire l’orso con un soprannome, in svedese björn, in inglese antico bear ed angloamericano bear.

Sia come sia di Medved’ che fanno paura ce ne sono almeno 120.000 sparsi tra gli undici fusi orari che configurano i 17 milioni di chilometri quadrati dello sterminato territorio russo, lo stato più esteso del mondo, compreso tra la Russia europea ad ovest degli Urali e ad est la Siberia, che si allarga fino al mare di Bering ed all’Oceano Pacifico. Degno di attenzione è il contrasto tra l’enormità del territorio, abitato da “appena” 145 milioni e 600 mila abitanti, ed il PIL di 1776 miliardi di dollari (significativamente inferiore a quello italiano, più vicino a quello spagnolo per intendersi).

Ho già scritto che la Russia, come nocciolo dal quale si dirama un germoglio di identità nazionale, si sviluppa a partire dalla prima base di federazione delle tribù scandinave identificata a Kyiv come Rus’ (popolo di navigatori). La Russia embrionale, frutto della forzata emigrazione di tribù mongole che avevano attaccato la regione compresa tra Kyiv e gli insediamenti sul Dpner (l’attuale Ucraina), si sviluppò a partire dal ‘900 a nord-est in un territorio dove attualmente si trova Mosca. Il territorio prescelto, che prenderà nel tempo il nome di Gran Principato di Moscovia, era totalmente pianeggiante, indifeso perché privo di alture e di deserti, ed in più scarseggiante d’acqua, perché traversato da pochi fiumi.

Dare definitiva soluzione alla fragilità difensiva del Gran Principato fu il primo obbiettivo, a metà del 1500, di Ivan IV Vasil’evič, noto anche come Ivan il Terribile (nato il 25 agosto del 1531 e morto a Mosca il 28 marzo del 1584) che assunse per primo il titolo di zar (Cesare) di tutte le Russie, titolo che nel 1561 fu approvato per decreto dal patriarca di Costantinopoli, origine del rapporto intrinseco tra potere statale e Chiesa ortodossa ed esordio della teoria di “Mosca Terza Roma”.

Ivan il Terribile, in russo Иван Грозный -secondo alcuni studiosi Grozni, in lettere latine, dovrebbe essere tradotto Temibile– non terrorizzava affatto il suo popolo, perché Ivan era terrificante e minaccioso nei confronti dei boiardi, che il popolo lo sfruttavano e preferivano disgregare lo Stato piuttosto che rinunciare ad accrescere potere e ricchezza.

Ivan il Terribile, che è ancora oggi un mito russo meritevole di citazioni ed è chiamato ad esempio da governanti, fu il primo a definire la dottrina dell’attacco come difesa, ovvero l’imprescindibile necessità di consolidare il potere domestico e di espandere il territorio all’esterno.

Dopo cinque secoli, appare evidente che è stata la visione strategica di Ivan, la sua risolutezza, a modificare la storia della Russia influendo su quella del mondo.

Ammettere quanto il primo zar sia stato basilare per l’edificazione dell’attuale Russia è certamente difficile perché si è costretti a dover anche, per conseguenza, sostenere che nella storia esiste la prova che singoli individui possano cambiarne il corso; il che apre la porta a dittature e/o autoritarismi. Tema questo interessante ma forzatamente da discutere in altra sede.

Dicembre 1991, un altro fine d’anno fatidico per la Russia e il mondo

Il dicembre del 1991 era l’ultimo mese di attività del Segretario generale dell’Onu, Pérez de Cuéllar. La transizione ordinata col suo successore Boutros Boutros-Ghali pretendeva che tutti gli uffici fossero pronti alla necessità di fornire documentazione, chiarimenti, quanto fosse necessario per un’immediata attività della nuova segreteria generale.

All’onorevole Craxi era stato richiesto, dopo il successo ottenuto col voto dell’Assemblea sul suo Rapporto, per la prima volta sull’argomento unanime!, di continuare nel 1991 la sua attività di Rappresentante personale per la ricostruzione del Libano distrutto dalla guerra (anche quel lavoro giunse a positiva conclusione). Mi trovai quindi ancora una volta a New York ad ascoltare, vedere, colloquiare direttamente e in prima persona sulle prime enormi conseguenze del crollo del comunismo, la dissoluzione dell’Unione Sovietica.

La fase finale del collasso dell’Unione Sovietica iniziò il 1º dicembre 1991 col referendum in Ucraina: il 90% dei votanti votò per l’indipendenza.

Le valutazioni sul numero dei partecipanti al voto e la stragrande maggioranza dei favorevoli all’indipendenza fu immediatamente compresa dalle diplomazie, che suggerivano alla Russia per evitare crisi indesiderate di accelerare un inquadramento politico-istituzionale del desiderio di sovranità di tante nazionalità. I leader delle tre repubbliche slave (Russia, Ucraina e Bielorussia) decisero di incontrarsi per discutere quali potessero essere le possibili forme di istituzionalizzata autonomia. I più importanti Stati erano molto interessati perché appariva evidente che occorreva stabilire anche un ordinato sistema di controllo sugli armamenti, soprattutto nucleari che con un nuovo status rischiavano di sfuggire ai controlli previsti dai Trattati.

Fu così che l’8 dicembre 1991 i capi di Russia, Ucraina e Bielorussia si incontrarono al confine polacco con la Bielorussia, nella foresta di Bialowiez, dove firmarono l’accordo che dichiarava dissolta l’Unione Sovietica e la sostituiva con la Comunità degli Stati Indipendenti.  

Il 12 dicembre 1991 fu completata la secessione della Russia dall’Unione.

Alle 18,35 del 25 dicembre, ora di Mosca, dal pennone del Cremlino fu ammainata la bandiera sovietica ed issata quella russa. Mezz’ora prima Gorbačëv si era dimesso da presidente dell’URSS ed aveva trasmesso tutti i poteri nonché l’archivio presidenziale dell’Unione al presidente della Russia, Boris El ’cin.

Il 26 dicembre il Soviet Supremo ratificò formalmente la dissoluzione, definitivamente operativa nella notte di Capodanno tra il 31 dicembre 1991 ed il primo gennaio 1992.

Dello smarrimento di quei giorni ricordo il particolare di una chiacchierata confidenziale che mi colpì. Nella pausa pranzo, a mensa, chiacchierando con una funzionaria russa, mi sentii dire, con parole molto accorate, che era assai addolorata per la scomparsa, il giorno prima, di un uomo molto conosciuto nel suo paese: interpretava quella morte dovuta all’età come il segno del precipitare negativo degli avvenimenti; non pronunciò una parola sulla frantumazione dall’URSS. Tornato in ufficio passai un po’ di tempo, per mia grande ignoranza, a cercare di capire chi fosse, meglio, chi era stato Zaicev. Alla fine, il collega Lorenzo Attolico, che aveva una rubrica straordinaria, scovò la strada giusta e seppi che Vasilij Grigor’evič Zaicev, scomparso il 15 dicembre del 1991 era un cecchino patentato, celebre per aver ucciso a Stalingrado in un paio di mesi più di duecento soldati della Wehrmacht e quindi simbolo della Russia indomita e combattente. Ricordo l’inquietudine che mi sorse nell’animo per il supponibile inconscio rifiuto della nuova realtà, che imponeva regole sconosciute nel mondo mutato, anche in chi era, professionalmente, “formato” a gestire complesse evoluzioni di sistema.

La fatal Crimea

Ci soffermeremo prossimamente sulle conseguenze interne ed estere provocate dalla, obbligatoria, incompiutezza della democratizzazione dopo la definizione dell’indipendenza ucraina nel 1991.

In questa puntata spenderò alcune riflessioni sulla Crimea.

Anzitutto perché la questione dello sbocco in un mare caldo è un tema essenziale, da secoli, per i governi ed il popolo russo, ed anche un poco perché quella grande penisola affacciata sul Mar Nero è certamente parte non secondaria della storia italiana.

Il punto debole militare ed economico della Russia è la mancanza di un porto in acque temperate, agibile tutto l’anno e non per pochi mesi come accade con i porti del Nord bloccati dal ghiaccio. Lo svantaggio della Russia era talmente chiaro nei tempi passati, specialmente a partire dai primi anni del 1800, che i russofobi furono assai contenti di diffondere la colossale bufala secondo la quale lo zar Pietro il Grande nel suo testamento avrebbe, nel 1725, suggerito alla sua discendenza di appropinquarsi il più possibile a Costantinopoli, al Golfo Persico ed all’India, perché soltanto con la presenza stabile in mari caldi della flotta militare la Russia sarebbe divenuta una potenza. Anche i falsi hanno qualche riscontro nei bisogni, nelle necessità di una nazione. È il caso del falso in quattordici punti scritto del generale polacco Sokolnicki, che lo aveva trasmesso nel 1797 al diffidente, a giusta causa, Direttorio al governo della Francia prenapoleonica francese. Il falso divenne una sorta di grande verità lapalissiana perché Charles Louis Lesur nel 1812 ne fece il perno di un suo opuscolo, “Progresso della potenza russa dalle sue origini fino all’inizio del XIX secolo”, che ebbe tanto successo da essere molto citato fino agli anni Venti dello scorso secolo.

D’altronde era stata l’ambizione russa a uno sbocco sul Mar Nero ad indurre la zarina Caterina II ad occupare la Crimea, annessa all’Impero l’8 gennaio 1784 con l’occupazione del Khanato di Crimea, vassallo dell’impero ottomano. Quest’ultimo era stato poi costretto a riconoscere l’annessione con il Trattato di Iasi dell’8 gennaio 1792, a conclusione della guerra russo-turca. Un’altra guerra eterna, che si riaccese col conflitto combattuto in Crimea dal 4 ottobre 1853 al 1º febbraio 1856 tra l’Impero russo opposto all’alleanza composta da Impero Ottomano, Francia, Gran Bretagna, Regno di Sardegna. L’Impero d’Austria appoggiò politicamente la coalizione guidata da Francia e Gran Bretagna e Cavour temette che Francia ed Austria stringessero accordi che potessero danneggiare il tentativo di unificazione nazionale; inoltre il primo ministro sabaudo aveva prima degli altri compreso la necessità, per sostenere il processo di unificazione, di conseguire quella legittimità internazionale che Vienna impediva, soprattutto dopo la sconfitta subita dall’Esercito piemontese nella Prima guerra di Indipendenza. Il presidente del Consiglio dei ministri sabaudo chiese ed ottenne dal Re e dal Parlamento l’invio nel gennaio 1855 di un contingente militare a fianco dell’esercito anglo-francese e la dichiarazione di guerra alla Russia.

Origine prima della guerra di Crimea era stata una disputa tra Francia e Russia sul controllo dei luoghi santi della cristianità in territorio ottomano. Quando la Turchia accettò le proposte francesi, la Russia nel luglio 1853 la attaccò. La Gran Bretagna, intravvedendo i rischi dell’espansione russa verso il Mediterraneo, si unì alla Francia ed entrambe si mossero per difendere la Turchia, dichiarando guerra alla Russia nel marzo del 1854.

Le truppe alleate misero sotto assedio la città di Sebastopoli, principale base navale russa del mar Nero. Dopo vari tentativi dei russi di rompere l’assedio (battaglie di Balaklava, Inkerman e Cernaia) a seguito di un attacco finale, i russi furono costretti ad abbandonare Sebastopoli il 9 settembre 1855. La Russia sconfitta accettò le condizioni di pace stabilite dal Congresso di Parigi nel 1856, al quale sedette tra i vincitori il Regno di Sardegna e Piemonte. Crimea, Cernaia, i Bersaglieri, La Marmora, entrarono nel mito risorgimentale italiano perché a Parigi si erano aperte le porte a quel processo di intese che avrebbe portato alla seconda guerra di Indipendenza. 

Molti altri avvenimenti seguirono. Cito, per necessaria sintesi, che la Crimea si era dichiarata indipendente nel 1918 e che s’era federata alla Repubblica popolare Ucraina e, dopo l’annessione russa seguita all’entrata dell’Ucraina nell’URSS, la penisola era stata annessa dalla Russia negli anni Trenta e che agli inizi degli anni ’50 tornò a far parte dei territori della Repubblica “sovietica” Ucraina.

La cessione della Crimea fu ratificata definitivamente nel 1954 durante il biennio del co-governo Chruščëv- Malenkov e fu decisa – si scrisse- per festeggiare i 300 anni dal Trattato di Perejaslav, firmato dai Cosacchi dell’Etmano cosacco con il regno russo, che trasformò l’Etmanato in un vassallaggio russo legando la storia di Russia e Ucraina.  

Nikita Chruščëv, all’epoca primo segretario del PCUS (e perciò dal 1953 al 1964 presidente dell’URSS) era nato in Russia nei pressi del confine con l’Ucraina, vivendo la sua gioventù nel Donbass. A presiedere la riunione con all’ordine del giorno il trasferimento “di regione” della Crimea non fu, Chruščëv ma Georgij Maksimilianovič Malenkov.

Malenkov è una figura molto interessante del comunismo sovietico. Alla morte di Stalin, nel 1953, con l’appoggio di Berija divenne Presidente del Consiglio dei ministri, riuscendo, per un breve periodo, a controllare l’apparato del partito, fino al 13 marzo del 1953, quando l’opposizione del Presidium del PCUS lo costrinse a farsi da parte. Nel settembre dello stesso anno Nikita Sergeevjč Chruščëv assunse l’incarico di segretario generale e si aprì per un biennio il duumvirato “Malenkov-Chruščёv “.

Durante il suo mandato Malenkov espresse la sua opposizione all’armamento nucleare, sostenendo che il suo uso avrebbe potuto portare alla distruzione globale; ancora, in politica economica sostenne la conversione dell’economia verso la produzione di beni di consumo a scapito dell’industria pesante. Fu costretto alle dimissioni nel febbraio del 1955 a causa dei suoi legami con Berija (che era stato giustiziato come traditore nel dicembre 1953) e per il fallimento delle sue politiche di governo. Neanche il decreto del 19 febbraio e la relativa legge del 26 aprile 1954 fu firmata da Chruščëv, ma dal presidente del Presidium del Soviet Supremo dell’URSS, Kliment Efremovič Vorošilov.

L’opinione comune e popolare attribuisce al solo Chruščëv la responsabilità di aver ceduto la Crimea alla Russia. La stessa nipote di Chruščëv, commentando la crisi del 2014 e la ri-annessione della penisola, dopo un referendum farsa, condannata a stragrande maggioranza dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite (100 voti a favore e 11 contrari, Risoluzione 68/ 262 adottata il 27 marzo 2014 concernente la Violazione del diritto Internazionale e della Carta delle Nazioni Unite) definì Putin “ un piccolo Napoleone” e sostenne che: <<Mio nonno cercava di decentralizzare l’URSS e cedere la Crimea all’Ucraina andava in questa direzione. A quel tempo, eravamo un solo popolo: la Crimea rimaneva in ambito sovietico. Pensava anche che le caratteristiche economiche della Crimea, regione agricola e agiata, la legassero all’Ucraina, all’epoca granaio dell’URSS. Aveva un forte legame con questo paese, dove aveva lavorato. Voleva ricompensare questa regione, il cui frumento aveva nutrito l’Unione Sovietica dopo la Seconda guerra mondiale e scusarsi per l’Holodomor la grande carestia degli anni Trenta>>.

Penso che questo capitolo vada ancora studiato più approfonditamente. I dati che ho riportato evidenziano per lo meno una co-responsabilizzazione nella decisione e che soltanto a partire dal 1955 Chruščëv ha assunto un solidificato e diretto potere nel PCUS. Il presidente russo Vladimir Putin che durante l’ annessione della Crimea alla Federazione dichiarò che fu la decisione di Chruščёv a violare la Costituzione sovietica e che “la Crimea rimane una parte “inalienabile” della Russia, ha scientemente dichiarato il falso, come Michael Gorbačëv quando affermò che la decisione di Putin di annettere la Crimea correggeva un “errore storico” commesso in violazione della Costituzione sovietica, sottolineando inoltre che “il referendum” si era concluso con successo corrispondendo alle aspirazioni degli abitanti della Crimea.

In realtà, come visto sopra, la procedura seguì correttamente le norme costituzionali sovietiche. La cessione avvenne nelle fasi previste dalla Costituzione russa e come era già avvenuto per diversi casi simili: il Soviet Supremo della RSS Russa ricevuto il decreto governativo lo discusse ed approvò; successivamente il Soviet Supremo della Rss Ucraina lo discusse e lo legittimò definitivamente il 17 giugno del 1954.

É la correttezza del referendum del 2014 che lascia perplessi pensando agli esodi forzati degli ucraini ed al trasferimento obbligatorio di milioni di russi nei territori ucraini perpetrata, abbiamo già letto con quanto efferatezza, da Stalin. Per di più nel 1944 Stalin aveva costretto forzatamente la deportazione dalla penisola dell’etnia più numerosa ed autoctona della Crimea, i Tatari.

La Crimea, sbocco a mare della Russia, non aveva e non ha collegamenti territoriali, idrici o energetici con la Russia; dipendeva e dipende strettamente, dal punto di vista economico e infrastrutturale, dall’Ucraina ( si pensi che ancora oggi la Crimea dipende dagli acquedotti ucraini per il proprio sostentamento idrico), così che secondo il decreto, costituzionalmente firmato e reso operativo per la parte russa il 5 febbraio 1954 ( in attesa della accettazione ucraina) la regione della Crimea fu trasferita all’Ucraina con questa formula: “Tenendo conto della comunanza dell’economia, della prossimità territoriale e degli stretti legami economici e culturali tra la regione della Crimea e la RSS Ucraina”.

Il decreto stampato sulla Pravda del 27 febbraio infatti così disponeva:

RUSSO «Протокол № 41 заседания Президиума Верховного Совета РСФСР 5 февраля 1954 г. Учитывая общность экономики, территориальную близость и тесные хозяйственные и культурные связи между Крымской областью и Украинской ССР, Президиум Верховного Совета РСФСР постановляет: Передать Крымскую область из состава РСФСР в состав Украинской ССР. Настоящее постановление внести на утверждение Президиума Верховного Совета СССР.»ITALIANO «Protocollo № 41 della riunione del Presidium del Soviet Supremo della Unione Sovietica 5 febbraio 1954. Data la comunanza dell’economia, la prossimità e gli stretti legami economici e culturali tra l’oblast’ di Crimea e la RSS Ucraina il Presidium del Soviet Supremo della RSFSR: Decide di far passare l’oblast’ di Crimea della RSS Russa nella RSS Ucraina. Il presente decreto è sottoposto all’approvazione da parte del Presidium del Soviet Supremo dell’URSS.»

Tornando ai nostri giorni è oramai convinzione generale che la guerra guerreggiata determinerà i momentanei vincitori e vinti in Crimea. È questo il fronte decisivo. Se Kiyv non lo conquisterà USA e NATO dovranno riconoscere alla Russia il controllo di tutti i territori occupati. Se Kiyv conquisterà la Crimea la saggezza dovrà imporre una Conferenza di Pace a fronte degli enormi costi di ricostruzione, più di 425 miliardi la cifra stimata.

La folle guerra ha ridotto politicamente all’angolo Medvedev, che, infuriato, è ancora più pericoloso. Putin e l’80% del popolo russo che lo sostiene sono diventati a diversa intensità i paria del mondo civilizzato, hanno perso credibilità bellica e sono costretti a rifugiarsi, per ora, nella retorica del disastro nucleare. Ma l’ombra della morte ha sembianze più consistenti di quelle con cui sono forgiati gli incubi. La protesta interna, nonostante censure e repressioni, comincia a crescere assieme alla crisi economica provocata dalle sanzioni. Dopo mesi di discreti dati economici russi, la svolta impressa da Mario Draghi con l’approvazione europea del Price cap del gas ha impedito a Mosca di superare la crisi col ricavo maggiorato delle entrate energetiche.
La tabella qui di seguito disegna la variazione dei ricavi che sono oramai gli unici su cui può contare la Russia. L’enorme crisi economica, maggiorata dalla non disponibilità di mezzi sufficienti per acquistare beni essenziali, anche attraverso Arabia Saudita, Turchia, India, e l’obbligata necessità a vendere gas per non bruciarlo, fa lucrare soltanto Cina ed India, acquirenti sottoprezzo.

La guerra ibrida e tradizionale è però molto costosa. Il disagio sociale cresce. Il sacrificio di un numero enorme di poveri ragazzi che di guerra non sanno proprio niente e la fame che comincia a mordere soprattutto fuori dalle grandi città inizia ad impensierire il falsamente tetragono governo. Ma non è con i bluff che si troveranno le urgenti soluzioni.

Tutti argomenti, assieme agli altri suaccennati, che tratterò nelle prossime puntate.

(3-continua)