C’E’ UN FUTURO PER IL SOCIALISMO?

di Renato Costanzo Gatti – Socialismo XXI Lazio |

Da anni il P.S.I. ha percentuali di voto irrilevanti, il P.C.I. è scomparso nella melassa del PD, gruppuscoli di movimenti socialisti, tra cui quello cui aderisco ovvero Socialismo XXI secolo, balbettano auspicando una riunificazione che non potrà attuarsi se non si approfondiscono le ragioni sottostanti; in Francia il partito socialista scompare mentre in Germania sta al governo così come in Spagna e in Portogallo mentre nell’est la fallimentare gestione del socialismo reale ha creato un deserto; rimane l’esperienza cinese più capitalismo di stato con forte guida autocratica che dimostra determinazione e obiettivi di alta rilevanza di contenuti.

Restando nel nostro paese occorre, a mio parere una analisi economica e sociale (struttura e sovrastruttura) per poter dare una risposta alla domanda che mi sono posto nel titolo di questo articolo. Denuncio la mia insufficienza per questo compito cui darò il mio contributo, convinto che solo una riflessione allargata a tutti i compagni che vorranno intervenire riuscirà ad affrontare degnamente il tema.

Il mio contributo toccherà i seguenti punti:

● Modo di produzione e sovrastruttura sociale

● La classe operaia

● Logica del profitto e della science based economy

Modo di produzione e sovrastruttura sociale

La grande stagione del socialismo era basata su un modo di produzione tayloristico dove la mano d’opera era schematicamente sottomessa al “padrone” ed era spinta ad operare come un “gorilla ammaestrato”, ma si riconosceva come operaio-massa. Si trattava di un capitalismo primitivo fondato su un esercito di forza-lavoro di riserva che tuttavia trovava grande solidarietà negli occupati sul cui basso salario si fondava la creazione di profitto per il capitale. In Italia abbiamo avuto anche una grande presenza, più elevata che negli altri paesi europei, di piccola e media impresa dove dominava un paternalismo complice tra datore di lavoro e lavoratore.

Sociologicamente c’era una chiara divisione tra detentori dei mezzi di produzione e venditori di forza-lavoro come mezzo per sopravvivere, diciamo che c’era una grossa consapevolezza di appartenere a classi diverse, contrapposte anche se questa coscienza assumeva in certi strati una rassegnazione religiosa mentre nella stragrande maggioranza si traduceva in coscienza di classe che spingeva all’adesione al sindacato o ai partiti della sinistra.

La composizione del PIL vedeva (anno 1960) l’agricoltura al 2,5%, l’industria (edilizia inclusa) al 31% ed i servizi (commercio, alberghi, turismo, intermediazione immobiliare, finanza e vari) al 66.5%.

Negli anni successivi si assiste alla scomparsa del taylorismo, sostituito dal toyotismo, con un maggior coinvolgimento degli operai; continua la forte presenza di PMI; le partecipazioni statali costituiscono una modalità di produzione che si differenzia da quella tipicamente padronale

La catena di montaggio, una catena umana di decine di uomini, frutto di una oggettiva solidarietà, viene sostituita dai robots dove è sufficiente il controllo di pochi addetti; c’è un attacco al lavoro sindacalizzato con la creazione di figure anomale di un finto lavoro autonomo classificabile come lavoro non sindacalizzato, non tutelato, precarizzato; dai co.co.co ai voucher al trionfo del lavoro a tempo determinato e del part time. L’area dell’operaio-mass viene marginalizzata, trionfa il “sii imprenditore di te stesso” fino all’esplosione della gig economy accompagnato da una scomparsa dello stare insieme sostituito dallo smart-working, una individualizzazione che reintroduce il lavoro a cottimo mettendo in relazione il datore di lavoro con il singolo dipendente vanificando la solidarietà di classe.

E il periodo del neo-capitalismo che trasforma la classe operaia in consumatori e membri della domanda aggregata; si perde una identità di classe ed aumenta l’imborghesimento che polarizza nei decili bassi della distribuzione del reddito ex-operai-massa insieme ai ceti medi. La dispersione fisica, contrattuale e sociale dissolve la potenzialità supportata dall’unione e dalla solidarietà; le comunicazioni di massa omogeneizzano le sensibilità e le involgariscono facendo perdere la genuinità delle riunioni organizzate dai partiti e dai sindacati; si rischia un brodo di omologazione senza costrutto, senza cultura, afono.

La composizione del PIL vede l’agricoltura al 2,9%, l’industria scesa (in particolare con riferimento all’edilizia) al 25.2% ed i servizi saliti al 72,6%.

La classe operaia

Essa era vista come il soggetto principale della rivoluzione, certo non quella romantica del 1917, ma quella di un cambiamento della classe dirigente che, opponendosi al capitalismo, assumesse un ruolo egemone nella costruzione del socialismo. Effettivamente la classe operaia, in quanto tale, era quella che più di ogni altra aveva interessi ed obiettivi antagonistici rispetto al capitalismo (non è certo un soggetto con tali caratteristiche la categoria degli “ultimi”, spesso indicati come target del socialismo ma, a mio avviso, troppo vicino ad un pur apprezzabile francescanesimo), ma oltre a questo elemento strutturale occorreva anche la presa di coscienza di questo ruolo e la crescita culturale da subalterno a dirigente. Il pensiero corre necessariamente a Gramsci ed alla sua idea di un rapporto intellettuali-subalterni chiamati ad una crescita di entrambi fino alla conquista dell’egemonia sul senso comune.

Questo processo non si è verificata nei paesi del socialismo reale ed ha avuto momenti promettenti di alto profilo quando si trattò sulla prima parte dei contratti. Culturalmente e grazie all’eredità della resistenza le idee del socialismo furono egemoni nella letteratura, nella pittura nel neorealismo cinematografico. I partiti contribuivano in modo determinante in questo processo di crescita culturale della classe operaia, le discussioni in sezione erano una formazione continua nel percorso di formazione. Addirittura, talora la figura dell’operaio veniva “santificata” come nel Deserto Rosso di Antonioni.

Negli anni del neo-capitalismo dilagante tutta questa costruzione ha iniziato a sgretolarsi; i partiti operai si sono squagliati come neve al sole, è crollata la formazione continua delle discussioni nelle sezioni; il sindacato da una parte è stato marginalizzato dal capitale, dall’altra ha cominciato a perdere consensi da chi rivendicava obiettivi più corporativi. Il soggettivismo si è diffuso anche nella ricerca di una soluzione neo-capitalista al bilancio familiare. In modo sintetico si può dire che la volontà della classe divenuta soggetto consumatore si sia rivolta ai temi redistributivi senza affrontare a monte il più ambizioso tema della funzione produttiva.

Il voto operaio nel 2018 premia i 5stelle, la Lega, Forza Italia con percentuali superiori a quelle date a PD e LEU. Si può ritenere che questo risultato indichi la rinuncia della classe operaia a porsi come il soggetto guida nella costruzione di un paese ispirato al socialismo, od occorre un nuovo sinergico incontro/scontro dialettico con quell’intellettuale collettivo che i partiti rappresentano.

Logica del profitto e della science based economy

Sia o meno possibile ricostruire una sana dialettica tra intellettuali e classe operaia, rimane il tema dell’oggetto del socialismo. Emancipazione, uguaglianza, solidarietà, fraternità, superamento delle classi sono tutti valori condivisibili, io ne vedrei, tuttavia una interpretazione strutturale piuttosto che valoriale.

Il mondo dell’economia è quello che determina i rapporti sociali tra le persone condizionando in modo dialettico (nel senso che ne è pure condizionato) il mondo dei valori che guidano il civile convivere. Stiamo parlando di reciproco condizionamento dialettico tra struttura e sovrastruttura.

La struttura si articola in produzione e distribuzione, e nel loro funzionamento si riscontra la differenza tra capitalismo e socialismo. Si tratta di un diverso modo in cui i due sistemi danno una risposta alle domande:

a) cosa produrre, come produrre

b) come redistribuire il prodotto.

Alla prima domanda il capitalismo risponde con la sua logica che consiste nel lasciare che sia il capitale, detentore dei mezzi di produzione, a scegliere cosa e come produrre, ed il capitale sceglie di produrre quei beni e servizi che danno maggior profitto.

Scrive Marx nel Capitale: “La semplice circolazione delle merci – vendere al fine di comperare – è un mezzo per realizzare una finalità distinta dalla circolazione, precisamente l’appropriazione di valori d’uso, la soddisfazione di bisogni.” Per il capitale, al contrario, la circolazione trasformata da M-D-M in D-M-D’, “diventa il suo scopo soggettivo, ed è soltanto in quanto l’appropriazione in astratto di sempre maggiori ricchezze diventa l’unico motivo delle sue operazioni che egli opera in veste di capitalista, cioè come capitale personificato e dotato di consapevolezza e volontà.

Perciò i valori d’uso non debbono mai essere considerati come lo scopo reale del capitalista, e nemmeno il profitto inerente a ogni singola operazione. Ciò che il capitalista ha di mira è solo il processo senza requie e senza fine della creazione di profitto”.

Quindi non sono i bisogni a guidare la scelta del “cosa produrre”, ma è il profitto ad orientare quella scelta. Ed è solo lasciando al capitale la piena discrezionalità del come produrre ciò che produce più profitto che si dà una risposta alla seconda domanda. Ed i prodotti e servizi prodotti saranno redistribuiti in completa subordinazione alle esigenze produttive sovrastanti.

Non è azzardato chiedersi se quella scelta del “cosa produrre” sia la più opportuna ed efficace per la sopravvivenza e lo sviluppo della società.

La risposta del socialismo, invece, consiste nello scegliere il “cosa produrre” in base ai bisogni della popolazione e in base agli obiettivi consapevolmente individuati che si vogliono raggiungere nel futuro. Consci delle leggi produttive e degli equilibri necessari per evitare crisi di sistema, le scelte dei bisogni da soddisfare e degli obiettivi da perseguire sono basate sulla scienza (science based choices) affidate cioè a ricerche consapevoli, programmazione delle attività e dei quantitativi da produrre con l’utilizzo di computers (anche quantistici), verificando i risultati, correggendoli laddove necessiti adottando cioè il metodo scientifico.

Va da sé che una scelta del genere, una scelta basata sulla scienza, richiede che i mezzi di produzione non siano posseduti dal capitale, ma siano socializzati, siano cioè svincolati dalla legge del profitto per imboccare le leggi della scienza. Ecco che allora si rende necessaria una politica che metta la produzione, il modo di produrre, al primo posto mutando la politica attuale che punta solo sulla fase redistributiva. Tutti gli strumenti della socialdemocrazia e del riformismo sono incentrati sul momento della distribuzione del prodotto, il socialismo deve puntare al momento che sta a monte della distribuzione, deve puntare al momento della produzione.

E ciò è tanto più valido se pensiamo ad un futuro non molto lontano in cui nella società robotizzata il possessore dei robots, dei mezzi di produzione, avrà il monopolio del “cosa produrre”. In quella fase si prospetterà l’alternativa tra una società neo-schiavistica in cui il possessore dei robots deciderà il “cosa produrre, quanto produrre e come redistribuire” guidato dalla legge del profitto, ed una società liberata dal lavoro, dalla necessità di vendere la propria forza-lavoro per sopravvivere, che possedendo i mezzi di produzione potrà gestire il suo domani con la logica scientifica.