RINO FORMICA “REVISIONISMO E POPOLO”

Vieste 21 settembre 2008 a cura di Elio Ceglie direttore di Socialismo è Libertà |

L’autunno della Costituzione ha inizio quando l’unità dell’atto fondativo della Repubblica, la Costituzione, viene spezzata: da un lato la prima parte, considerata nobile e intoccabile; dall’altro lato una seconda parte catalogata come superata, ingombrante perché causa dell’ingovernabilità e dell’instabilità politica ed istituzionale. Ed è così che la Carta costituzionale diventò per una metà “mito e storia leggendaria” e per l’altra metà “realtà scaduta e storia deperita”. Questa arbitraria divisione soddisfa conservatori e innovatori: si cambia il contenitore che diventa “valore” e si lascia marcire il contenuto in attesa che si riduca in residuo secco.

L’oblio della storia

Ha avuto ragione Giovanni Spadolini quando, agli inizi degli anni ’90, denunciò prima l’oblio della storia risorgimentale durante gli anni ruggenti del Sessantotto e, successivamente, l’opera di corrosione dell’intera esperienza del Risorgimento nella nascita e nello sviluppo dell’Italia democratica, come il presupposto teorico, la ragione pseudo-storica e l’atto di nascita del leghismo, del disegno di disgregazione nazionale, di disarticolazione dei fondamenti dell’unità civile e politica del Paese. Citiamo Giovanni Spadolini in un passaggio significativo e appassionato della sua riflessione. Al suo tempo era giustificato il punto di domanda sulla consapevolezza delle classi dirigenti dei pericoli della deriva leghista, sul legame stretto che i vari leghismi emergenti stringevano tra l’attacco al Risorgimento e l’attacco conservatore alla crescita democratica e unitaria. Oggi quell’interrogativo è una conferma. Scriveva Spadolini:

“Dobbiamo domandarci: questo processo al Risorgimento, questo rifiuto del Risorgimento ha qualche radice profonda nell’anima italiana? O nasce da un movimento politico improvvisato e contraddittorio, il quale raccoglie fermenti di scontentezza e di protesta dalle più varie parti e si fa forte del maggiore livello economico delle province lombarde quasi per aprire un processo nei riguardi delle dispersioni e delle dilapidazioni nel Sud? Oppure c’è una stanchezza dell’unità nazionale proprio nel momento in cui essa dovrebbe essere più solida che mai di fronte ai doveri dell’integrazione economica europea, che non potrà essere soltanto economica ma diventerà certamente politica?”

Il nemico alle porte

Oggi sappiamo quanto cammino hanno fatto gli umori dell’anti-Risorgimento. Ha dismesso i panni del negazionismo storico per indossare la divisa politica del federalismo e per alzare surrettiziamente la bandiera della riforma dello Stato. Si tenta in questo modo di trascinare con sé l’intero moto riformatore, si rischia invece di precipitarlo in un processo inarrestabile e sciagurato di regressione civile. Attenti però al pericolo opposto, al quieta non movere, infaticabile guardiano dell’antiriformismo nazionale.

Il nemico è alle porte. Oppure, come variante del primo allarme, v’è un’altra versione: la Destra è in agguato. Sono le grida che si sono levate nel nostro paese e continuano a levarsi ad ogni batter di volontà revisionistiche della Costituzione. Se si escludono le grandi discussioni istituzionali che nel corso di un intero trentennio si sono svolte nelle varie commissioni bilaterali (ben quattro: dalla Buozzi alla D’Alema, passando per quella presieduta da De Mita e poi dalla Iotti), pensate e volute più che da menti riformatrici da una classe politica incline al gattopardismo o, ad esser più precisi, a fuggire davanti alle contraddizioni sistemiche accumulatesi via via che il paese cresceva senza i necessari adeguamenti costituzionali; se si escludono, dicevamo, i momenti ufficiali dedicati alla riflessione (che si colloca sulla sponda opposta della decisione), restano i toni allarmistici sui progetti di scardinamento ed eversione dei principi democratici della Carta e degli equilibri delicati in questa incardinati quando si è solo accennato a riscritture.

Chi insidia la Costituzione?

Non è il caso qui di riprendere la storia di una particolare guerra dei Trent’anni nazionale giocata sul fronte rispettivamente della difesa e della revisione, che è stata al contempo guerra di trincea e di movimento seconda della congiuntura politica e che ha avuto come unico risultato la formazione per stratificazioni successive di prassi, procedure e principi che hanno interpretato, modificato e a volte anche stravolto pezzi non secondari della Costituzione. Questo movimento di revisionismo a bassa intensità (riformatrice) è stato denominato e ha determinato la cosiddetta Costituzione materiale. Ma se non è opportuno rifare la storia dei tentativi mai riusciti di riforma e di quelli sempre ben approdati di blocco delle riforme, è utile dire che ancora oggi, nel presente anno e legislatura, s’è mosso un Comitato di esperti e di politici (primo tra tutti l’ex presidente della Repubblica Scalfaro in compagnia di ben noti costituzionalisti) intenzionato a “mettere in sicurezza” la Carta costituzionale presidiando opportunamente l’articolo 138.

Così come va ricordato, sempre per memoria storica, che tentativi di revisionismo costituzionale, intesi non come mera razionalizzazione tecnica delle parti andate obsolete della Carta, ma come operazione di ridiscussione dei principi e dei compromessi politici che la alimentarono e la disegnarono con le culture politiche e i condizionamenti del dopoguerra (a partire dalla distinzione di valore tra la prima e la seconda parte), furono prima snervati e poi battuti anche quando gli animatori di tale opera furono partiti di provata fede democratica (nonché originari sottoscrittori del patto costituzionale) come il PSI della Grande riforma degli anni ’80 e un presidente della Repubblica (Cossiga) con il suo messaggio alle Camere degli inizi del ’90. Della Grande riforma socialista si disse, soprattutto a Sinistra, che era il tentativo malpensato di spostare l’asse democratico su un piano autoritario e cesarista, per Cossiga si fece ricorso addirittura all’ingiuria.

Il Sessantotto e i primi colpi all’unità antifascista

Ma andiamo per ordine. Quando si intravvedono i primi segni di invecchiamento della Carta? Il primo segnale di affievolimento delle ragioni nazionali della Costituzione unitaria, unitaria perché scaturita dal compromesso delle ideologie contrapposte che diedero vita alla lotta di Liberazione e alla forma di Stato post-fascista, proviene dall’interno della società, dall’evoluzione dei rapporti sociali, dei costumi, delle culture, delle convenzioni e delle convinzioni. Quel movimento che fu impetuoso, che coinvolse tutto l’occidente è il Sessantotto.

Il Sessantotto italiano, ai fini delle tematiche che qui vogliamo discutere e che si riferiscono alle vicende del (mancato) revisionismo costituzionale, aprì il primo varco alla ridiscussione, dal punto di vista oggettivo, vale a dire della complessità della società italiana, bisognosa di strumenti istituzionali più articolati, più specialistici in grado di governare i nuovi rapporti tra pubblico e privato (ad esempio in economia), società e rappresentanza politica ai vari livelli delle istituzioni (nazionali e locali). Ma soprattutto richiedeva il superamento della soglia di bassa (e debole) governabilità che il compromesso ideologico tra il campo cattolico-democratico e del comunismo italiano aveva di fatto imposto ai meccanismi e alla concezione stessa del governo del Paese fissandola rigidamente in procedure di tipo compromissorio.

Resistenza tradita e difesa della Costituzione

Ma il Sessantotto produsse soprattutto una soggettività critica rispetto all’impianto costituzionale che risulterà esiziale non solo per lo sviluppo della discussione sull’invecchiamento della Costituzione e per la necessità di porvi adeguato rimedio, ma incrinerà proprio l’asse legittimante della Carta (l’unità antifascista) interpretandolo non come forza propulsiva e promotrice della democrazia nazionale ma come limite e ostacolo alla espansività rivoluzionaria della classe operaia e del suo partito. Venne iniettato, dal movimentismo politico e studentesco che si affermò potentemente nella lotta politica di quegli anni, il veleno della “Resistenza tradita”. Tradita dal togliattismo e dalla Via italiana al socialismo che sostituiva lo sbocco rivoluzionario voluto da quella parte di popolo che aveva combattuto durante la Resistenza per dare vita a un modello socialista di Stato, con il compromesso democratico a vantaggio dei partiti della borghesia e della reazione. Paradossalmente il Sessantotto, una stagione di effervescenza sociale e culturale si trasformò, ad opera di minoranze estremistiche con capacità di radicamento formidabile nei meccanismi costitutivi della cultura nazionale, in un moto che inchiodò le forze democratiche a difendere i fondamentali etico-politici della Costituzione che avevano salde radici per l’appunto nello statuto compromissorio della Carta e della stessa esperienza resistenziale. Impedì che il dinamismo culturale e sociale di quegli anni si rovesciasse sul terreno aperto dalle contraddizioni evidenti della Carta.

Aldo Moro, la tragedia e la svolta

Sugli anni Settanta come sappiamo precipitarono i grumi irrazionalistici ed eversivi del Sessantotto con i loro effetti destabilizzanti e di blocco delle riforme e quel decennio si chiuse con la tragedia di Moro. Nonostante quella pesante congiuntura di violenza ideologica e di sangue, il sistema dette luogo a una tenace e fondamentale difesa del profondo sentimento democratico del Paese ma non seppe andare oltre la salvaguardia delle mura di cinta della democrazia. Non seppe vedere che la tragedia del leader democristiano si collocava ad un crocevia della vita democratica del Paese sul quale confluivano linee di fenomenologie sociali, conflittuali e culturali che avrebbero segnato per un lungo periodo lo sviluppo nazionale, quali la modernizzazione dei costumi e degli stili di vita, delle culture politiche e non solo politiche, ma nello stesso tempo si mettevano in atto tentativi ad opera delle generazioni post-sessantottine di fissare in una ideologia del conflitto permanente tali processi di modernizzazione. Ideologia del conflitto che fu assai generosa dal punto di vista della produzione di letteratura politica e sociologica, nella creazione di élites intellettuali ma assai sterile da quello dell’incidenza nei processi concreti di modernizzazione e nella vita reale. In sostanza si scontrarono processi di modernizzazione reali con forte domanda di riformismo e processi opposti di ideologizzazione della modernità, tendenti questi ultimi a vederne solo il risvolto negativo e a interpretare il riformismo in antitesi al conflitto. In quell’incrocio di vite spezzate, di processualità eversive residue sebbene ancora cariche di potenza, di figure sociali emergenti si collocava una nuova frattura, questa volta di sistema. Una frattura cioè che poteva essere letta e interpretata solo dal lato del suo valore sistemico: l’esaurimento delle ragioni compromissorie che avevano originato la democrazia della repubblica e la richiesta non più sopprimibile di procedere verso un modello di democrazia dell’alternanza.

Fine della società organica

Il Paese maturava la forma dell’alternanza. Cosa faceva da impedimento a tale maturazione? Cos’era necessario perché avvenisse la normalizzazione del sistema politico nazionale? Faceva da impedimento la cultura politica dei due maggiori partiti, alternativi nella visione del mondo e nell’esito finale della democrazia ma complementari nel concepire la dimensione e la strumentazione dello Stato democratico. La cerniera tra le due culture è la funzione totalizzante del partito, strumento unico, esclusivo di rappresentanza della società organica, che si organizza e si riconosce, per l’appunto, nei partiti democratici, la cui democraticità è data cioè dalla forma e dalla forza esclusiva di tale rappresentanza. Ne discende una idea della politica, del partito e della società che si forma come unicum, come linea di continuità che tutto comprende e dal quale nulla fuoriesce. Una sorta di autoreferenzialità sistemica capace di governare lo sviluppo del paese ma che presuppone la coesistenza di un patto, un compromesso tra le forze che hanno contribuito al disegno costituzionale. Fatto è che il compromesso presupponeva (e ancor oggi presuppone) una governabilità a bassa intensità, vale a dire una capacità di decisione da parte del Governo non più compatibile con i compiti di indirizzo e gestione delle società complesse e integrate, come incominciò a essere l’Italia sul finire degli anni ’70.

Si spegne la spinta propulsiva

Così la tragedia di Moro segna la fine della spinta propulsiva della Costituzione e, contemporaneamente, da parte delle maggiori forze politiche si hanno le manifestazione più cocciute di impenetrabilità del terreno del revisionismo politico e costituzionale. Abbiamo prima posto la domanda: cos’era necessario per aprire una nuova fase politica? Va data una risposta secca che allude a una discussione accesa e drammatica ancora in atto sul versante della Sinistra: era necessario, allora, iniziare un processo di socialdemocratizzazione dell’intera sinistra. Il PSI dopo il Midas lo intuì, il PCI ne fu sfiorato con un decennio di ritardo, dopo il crollo del muro di Berlino, la DC colpita al cuore del suo pedagogismo democratico, presupposto (moroteo) dell’allargamento progressivo delle basi democratiche del Paese, incerta tra l’assicurazione della governabilità, il rifiuto di por fine al godimento delle rendite politiche proprie del sistema bloccato e la modernizzazione del sistema politico, si rassegnò alla routine. Gli anni ’80 si consumarono e scivolarono senza vere passioni riformatrici tra la generosità del riformismo socialista abbondante nelle intenzioni, ma scarsamente influente sui rapporti politici (la Grande riforma), conservatorismi comunisti con i primi tentativi di mimetismo politico e lo smarrimento democristiano.

Gli anni ’80, per l’Italia un decennio senza riformismi

Se gli anni ’80 sono stati per l’Italia il decennio delle mancate riforme e dei mancati revisionismi, hanno al loro posto operato ben altri agenti capaci di scavare nel sottosuolo la stabilità del sistema, indebolendolo irrimediabilmente. Per intanto sullo scenario mondiale si inseguono processi di grande intensità e significato. Li elenchiamo semplicemente, proprio perché nella semplice elencazione se ne può meglio comprendere la forza d’urto. Per primo, l’espansione su scala planetaria del capitalismo a seguito del tramonto dell’Urss. Il capitalismo, inteso come organizzazione produttiva e sociale, compenetra anche le forme di comunismo sopravvissute dando vita a un ibrido capitalismo di stato, nel quale viene riconosciuta e ammessa la capacità espansiva capitalistica assieme con una statualità fortemente accentrata e autoritaria, che diventerà il modello di riferimento per buona parte del continente asiatico e alla fine approderà anche nel nucleo (imperiale) russo post-comunista. Il capitalismo planetario sarà il veicolo e il network naturale della globalizzazione.

Sul fronte europeo si rafforzano le reti comunitarie e si apre una nuova forma di governo sovranazionale, destinata a entrare in concorrenza con l’idea di sovranità nazionale. Per la prima volta, in maniera evidente, le sfere della sovranazionalità e dello Stato nazionale si incontrano organicamente e concorrono a ridefinire i confini di ciascuna.

Abbiamo richiamato due macro-fenomeni, la globalizzazione e il ruolo della sovranazionalità come referente sempre più determinante nelle scelte dei singoli stati nazionali europei, che entrano prepotentemente nell’orizzonte della modernità degli anni ’80, tralasciando altri processi di non minore peso ma non utili a comprendere l’indeterminatezza strategica del nostro Paese in assenza di adeguamenti istituzionali, proprio per gli effetti che, sia la globalizzazione (la penetrabilità dei mondi in cui è diviso il mondo da parte di tutti gli attori che vogliono giocare alle condizioni della mondializzazione) sia l’orizzonte comunitario europeo, producono sulla velocità dell’Italia nella competizione europea e mondiale, sull’adeguatezza degli strumenti istituzionali voluti dalla Costituzione.

Il fiorire del leghismo

Il periodo che si situa tra la metà degli anni ’80 e ’90 è un momento drammatico nella vicenda della modernizzazione del paese e il dramma è tutto nella contraddizione tra domanda revisionistica e offerta conservatrice da parte delle due maggiori forze politiche. Il peso della contraddizione si scarica sul punto più debole della filiera democratica: l’unità nazionale. Va detto che contribuisce notevolmente, nella nascita e nello sviluppo del fenomeno leghista, il fallimento politico e storico della Questione meridionale. Non è questa la sede per approfondire il rapporto stretto tra la crisi del meridionalismo democratico (che trascina tutta la forza e la tradizione non solo della sinistra meridionale) e l’indebolimento dell’identità nazionale. E’ però difficile smentire la relazione tra la frantumazione localistica dell’idea di nazione, la nascita politica e ideologica del leghismo e l’incapacità da parte della Sinistra e più in generale delle classi dirigenti democratiche di governare strategicamente la stagione del regionalismo e dell’autonomismo locale seguito alla nascita delle regioni, stagione formidabile per il rinvigorimento del sistema centralistico esausto, per porre la modernizzazione sul terreno proprio delle autonomie locali di antica vocazione democratica e solidaristica, per dare propulsione alla società e alla economia meridionale al fine di valorizzarne la specificità territoriale e creativa, per istituire una sana competizione e scambio civile ed economico tra regioni e aree del paese, per creare o rinforzare circuiti di antiche relazioni economiche e solidarietà saldandoli in strumenti e istituzioni creatrici di ricchezza e soprattutto di unità.

Il Paese immorale

C’è un’altra forza corruttrice che lavora nelle viscere malate del sistema, la definiamo giustizialismo, con un termine preso dall’attualità politica, ma che viene da lontano ed è figlio del revisionismo mancato del comunismo italiano, è parte della sua genealogia e del suo particolare intreccio con la visione organicistica della società e della visione compromissoria dello sviluppo democratico del Paese. Figura centrale del giustizialismo è, potremmo dire, l’operatore di giustizia, in altri termini il magistrato. La genesi del giustizialismo è nella natura di questa figura, la quale opera in una situazione di eccezione, di non normalità. La particolarità del contesto è data dalla natura particolare della storia nazionale che ha conosciuto traumi e passaggi specifici, non riscontrabili in storie di altri paesi affini al nostro. Stiamo parlando dell’azione prolungata del fascismo sulle coscienze e istituzioni democratiche e, dopo la sua caduta, del vulnus democratico prodotto dall’esclusione dai governi delle masse popolari rappresentate dal PCI, nonostante il suo contributo alla lotta antifascista e il suo peso negli equilibri istituzionali. Secondo l’ideologia giustizialista questi due fenomeni (il fascismo e l’antifascismo incerto e impoverito), uniti da un filo di continuità storica, politica ed ideale, hanno prodotto guasti profondi nella eticità dello Stato, hanno creato un deficit di legalità, hanno posto una questione democratica, anzi una questione morale, che diventerà a partire dagli anni ’80 l’asse che orienterà l’intera azione politica del partito comunista. Sempre secondo il racconto giustizialista la storia della repubblica con l’esclusione pregiudiziale del PCI è una anomalia non interpretabile, come è, all’interno di una mancata modernizzazione politica di questo partito ma è un’eccezionalità dovuta a una coalizione di forze antidemocratiche (palesi e occulte, nazionali e internazionali) foriera di pesanti conseguenze che vanno dalla corruzione dei partiti, allo stragismo, all’illegalità di stato, allo Stato che si fa doppio: legale e illegale. La questione morale è questione nazionale e abbisogna dell’impegno di tutte le energie, da quelle politiche a quelle giudiziarie. La battaglia politica è profondamente (naturalmente e funzionalmente) legata alla prassi giudiziaria e quindi, all’azione del magistrato, che diventa figura centrale di raccordo tra la politica e il paese, non solo per l’attività tecnica di amministrazione della giustizia ma come esclusivo presidio della legalità.

Le commissioni antimafia e stragi, il dado è tratto

L’incubatore del giustizialismo sono le commissioni parlamentari antimafia e stragi nelle quali, a cavallo degli anni ’80 e ’90, la mescolanza tra la politica e i poteri criminali sono esemplarmente indagati e descritti a partire dall’ottica specifica della moralizzazione della politica. E il rapporto tra mafia, poteri occulti e politica diventa la metafora del rapporto tra politica e questione morale, offre l’opportunità e lo spazio per lanciare una campagna sotto il segno dell’emergenza democratica, è lo specchio nel quale si raffigurano tutte le forme di corruzione della politica. L’opera di contrasto della magistratura che indaga sui fenomeni criminali si configura come l’anticipazione di un’azione più vasta di bonifica politica nel Paese, che dovrà mobilitare tutti, società civile, politica e magistratura. L’obbligatorietà dell’azione penale, l’indipendenza e l’impegno civile del magistrato formeranno la leva per dispiegare sull’intero sistema dei partiti una linea politica lungamente perseguita, la moralizzazione della vita pubblica compromessa dall’esclusione della parte sana del paese, degli esclusi perché diversi (i comunisti nelle varie metamorfosi). La combinazione degli elementi di obbligatorietà-indipendenza-questione morale saranno il cortocircuito tecnico-costituzionale dal quale prenderà vita quel Frankenstein, quel monstrum che nel biennio grigio del ’92-94 spazzerà via i partiti democratici ad esclusione degli ex comunisti determinando una nuova morfologia dello stato di diritto in stato di polizia giudiziaria.

Le ondate mondiali del cambiamento si smorzano sulle spiagge italiane

La velocità dei cambiamenti, che hanno portata mondiale e che senza enfasi potremmo dire epocali (dal crollo dell’Urss, alla globalizzazione, alla dimensione sovranazionale della governabilità degli stati nazionali europei che si impone con sempre maggiore forza), mutamenti di tutti gli ordini della vita economica, sociale e culturale maturati lungo un intero decennio, in Italia si smorzano, sono raffreddati da un quadro costituzionale rigido, immutato e da una classe dirigente, dopo il ’94, dispersa e senza dimensione organizzata, separata dai tradizionali rapporti politici, costretta a ripensare nuovi orizzonti di cultura politica a partire dall’imperativo della moralizzazione della politica che diventa il riferimento al di fuori del quale la Politica non ha dignità e legittimità. Ancora una volta si pone per il Paese il dilemma: aprire una fase di revisionismo complessivo delle culture politiche oppure chiudersi in una gestione ordinaria sotto la pressione dell’emergenza. Si ripropone l’antico dilemma: revisionismo o conservazione, vale a dire la via complessa della mobilitazione civile per dare vita a una stagione costituente, di riscrittura delle regole, di ricostruzione dei meccanismi che regolano la vita di un Paese aperto alla concorrenza e alla competizione tra istituzioni di governo, oppure la via facile e breve delle riforme elettorali.

Berlusconismi e ulivismi, il passo corto delle riforme

Va detto che l’infiacchimento sul terreno nazionale delle ondate dei mutamenti su scala mondiale ha certamente generato ferite profonde nel corpo del paese, prima tra tutte il venir meno del sentimento unitario nazionale, la frantumazione localistica non solo delle dimensioni territoriali in cui tradizionalmente ci si riconosce ma delle coscienze, delle aspirazioni, dei progetti. Le risposte brevi, di corto respiro, come la riforma del sistema politico e l’introduzione delle forme più moderne di governabilità per via esclusivamente elettorale, tralasciando di manovrare su tutto il fronte della filiera costituzionale (configurazione della leadership di governo, creazione di nuove istituzioni di governo e garanzia, eliminazione di quelle obsolete, riequilibrio tra i poteri dello Stato e così via), la via breve alle riforme, la via elettoralistica ha infiacchito sia il fronte riformatore che la stessa salute democratica del Paese e non ha giovato al grado di efficienza del sistema di governo.

Il passo corto delle riforme, insomma, ha creato una geografia di forze politiche contrassegnata da incertezze e ambiguità. I due fenomeni politici che hanno cercato di ricomporre il quadro politico sconvolto dopo il ’94, sia a Destra con il berlusconismo, sia a Sinistra con l’ulivismo, si sono dimostrati inefficaci nel perseguire il disegno di ricreare una Destra e una Sinistra omologabile a quella degli altri paesi di avanzata democrazia. Di più, la mancata riaggregazione di forze e referenti politici sul fronte dei due schieramenti (le vicende ultime del PD e del PDL sono testimonianza delle profonde contraddizioni dei processi aggregativi nei due partiti) che trova spiegazione nelle velleità di ricostruire la Politica (la cultura politica, le idee forza) attraverso le sole formule organizzative, quasi a voler invertire l’ordine dei fattori che intervengono nei processi politici (prima l’organizzazione e poi la strategia: l’intendenza precederà!) hanno dato slancio proprio a quelle forze che sono state determinanti nel crollo del sistema politico della Prima repubblica: il leghismo e il giustizialismo.

Non è casuale, per affrontare un tema di ravvicinata rilevanza politica, che le tematiche al centro della discussione pubblica e che, pur non prioritarie riescono a fare da magnete nella scala delle priorità programmatiche, sono il federalismo fiscale e la giustizia. Due temi oppositivi, paradossalmente ai primi posti nell’agenda politica, in quanto lanciati da due forze politiche minoritarie nel Paese (Lega nord e Italia dei valori) ma collocate su due fronti di crisi che dalla metà degli anno ’80 sino ad oggi hanno dominato la scena politica senza mai trovate soluzioni sistemiche.

Un’altra via breve: il federalismo fiscale

Il federalismo fiscale e il giustizialismo sono di fatto la torsione strumentale dei due lati scoperti della mancata transizione italiana alla piena modernità (l’articolazione dello Stato centralista e il rapporto tra poteri di garanzia e politica) ma nei propositi delle due formazioni minoritarie, la Lega e l’IdV, rappresentano due strumenti di sfondamento (il federalismo) e di contenimento (l’immutabilità dell’ordinamento della giustizia) ed entrambi si riconoscono in un obiettivo conservatore convergente. Con il federalismo fiscale (altra via breve alla riforma federale dello Stato) si intende liquidare il progetto democratico di una Italia unita, moderna, autorevole in virtù della risoluzione delle contraddizioni secolari, in primo luogo la questione meridionale. Con il giustizialismo invece si vuole immobilizzare il sistema politico e istituzionale entro uno schema che vede al centro la nuova figura del magistrato-etico (non il tecnico della giustizia) che sposa l’impegno professionale come missione moralizzatrice e ordinatrice della società, dentro una cornice costituzionale nella quale il rapporto tra poteri, la magistratura e la politica, deve configurarsi a partire dalla predominanza (una sorta di egemonismo etico-politico) della funzione del magistrato. Due minoranze, la leghista e la giustizialista, convergono nella direzione di liquidare qualsiasi prospettiva di riformismo forte delle istituzioni. La Lega, spezzando l’unità culturale e civile del Paese di fatto allontana definitivamente l’idea dello Stato federale inteso come federalismo consapevole del valore unitario e non divisorio del progetto, cioè creatore di unità nella misura che valorizza le diversità facendole convergere in una idea forte di identità nazionale. La minoranza giustizialista ha un obiettivo grezzo, primordiale: impedire qualsiasi movimento di riforma di quel blocco di interessi e di potere che sorregge l’attuale ordinamento.

Per farlo usa il potere di interdizione esercitato in forma corporativa sulla politica, utilizza l’equivoco della moralizzazione della vita pubblica intesa non come continua capacità riformatrice, costante sforzo di modernizzazione del paese, non come efficienza delle istituzioni ed equilibrio tra poteri garantito da un moderno quadro costituzionale. La geografia politica del paese dopo il ’94 è preoccupante e vede due blocchi contrapposti, avviluppati nelle contraddizioni di un ridisegno delle strategie politiche di Destra e di Sinistra fondato su basi empiriche, sull’importazione di strategie politiche, sulla combinazione di vari spezzoni di culture politiche il più delle volte estranee, un mix informe di passato, presente e futuribile, senza che contemporaneamente il paese sia percorso da un disegno e una direttrice precisa di grandi riforme. Se questo è il piedistallo instabile su cui poggiano gli sperimentalismi del PD e del PDL per giungere a formazioni politiche non effimere, sul piano più basso agiscono le due minoranze impegnate rispettivamente in un lavoro di confuso autonomismo localistico e di sbarramento a qualsivoglia cambiamento. Egoismi territoriali ed egoismi corporativi si danno la mano, si alimentano dello statu quo, dell’impotenza revisionistica delle classi dirigenti e portano un attacco convergente ai timidi tentativi di riaprire la discussione di merito sulla forma del nostro Stato in una sede formale, costituente e refrattaria ad inutili verbosità.

La Lega si fa furba

La controprova dell’urgenza di predisporre condizioni adeguate per la riforma costituzionale (chiarezza e precisione degli scopi da raggiungere, definizione di un percorso che presupponga il coinvolgimento dei cittadini in tutti i passaggi strategici del lavoro costituente, definizione di una sede autorevole di discussione e decisione) è data proprio dal tema del federalismo, dai toni e dall’andamento assunto sin dalle prime mobilitazioni organizzate dalla Lega fino ai giorni nostri. Va detto che la Lega e il suo leader in tutto il tempo non breve che porta questo partito dalle prime apparizioni politiche alle dimensioni di massa oggi raggiunte non hanno mai prodotto una linea chiara e articolata di federalismo se non una versione ruvida ed elementare di secessionismo dei popoli del nord dal resto del Paese e hanno conclamato una ragione politica giustificativa altrettanto rozza del separatismo territoriale con l’esproprio di ricchezza prodotta dal nord per soddisfare l’ingordigia e le clientele dello Stato centralista. Va però detto che alla ruvidezza programmatica della Lega, al suo messaggio semplice e diretto, all’obiettivo lucidamente perseguito di interrompere la storia unitaria nazionale pur di trattenere in loco le risorse prodotte (tutto sommato una visione modesta, utilitaristica ed economicistica di federalismo) da parte del ceto politico si è data una risposta sulle note di un nostalgico e patriottico unitarismo.

Piuttosto che incorporare la domanda federalista assai radicata e trasversale al Nord in un moto ragionato e compatibile di revisione della forma dello Stato (è indubbio che un sistema di prelievo fiscale e di redistribuzione territoriale delle risorse che risponda a requisiti solo centralistici e solidaristici e non anche, diciamo, federalisti è un potente elemento di conservatorismo politico e sociale e induce a coltivare umori sia egoistici che assistenziali) si è dato fiato alla retorica più inconcludente che ha gonfiato le vele del consenso leghista. Inutilmente si sono levate voci autorevoli che hanno affermato che il federalismo come forma di Stato non c’è nella Costituzione italiana e che questa ha come fondamento la dottrina politica e giuridica dello Stato unitario. Voci che hanno chiarito l’incompatibilità dei progetti federalisti con l’impianto costituzionale, che hanno denunciato la confusione tra decentramento amministrativo, potestà tributaria delle autonomie locali (del resto previsto dal 2° cpv dell’art. 119 Cost.) e federalismo, che hanno avvertito che il presupposto per il riconoscimento di una struttura federalista è l’esistenza di “popoli” diversi, che l’unanimità del consenso sul progetto federalista da parte di tutti i soggetti (i “popoli”) interessati è condizione imprescindibile per addivenire a un’organizzazione statuale di tipo federalista.

Vorremmo consigliare prudenza ai federalisti frettolosi che ignorano l’urgenza e la necessità di fissare oggi e non domani i criteri per la definizione dei livelli essenziali di opportunità e di uguaglianza sociale e civile costituzionalmente garantiti.

Vorremmo consigliare prudenza ai federalisti frettolosi perché riteniamo impossibile configurare un sistema di federalismo fiscale coerente con la Costituzione senza aver adempiuto agli obblighi previsti dall’art.120. Questa norma prevede che una legge definisca le procedure di garanzia per l’intervento dei poteri sostitutivi del Governo su gli enti locali quando non viene rispettata, “la tutela dell’unità giuridica ed economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”.
Prudenza da consigliare sia ben chiaro anche alle forze meridionaliste e, in primo luogo, a quei Governatori di regioni meridionali impegnati in trattative non sempre chiare, non vorremmo dire trasparenti, con il ministro Calderoli. La questione da porsi è la stessa: l’impegno meridionalista, in tutta la vicenda del federalismo fiscale, sarebbe meglio garantito da condizioni di favore sul fronte della fiscalità o dai trasferimenti o da incerte e volontaristiche solidarietà da contrattare con le aree ricche del Paese? Oppure il meridionalismo democratico vive ancora come movimento democratico se sa recuperare non solo una visione generale della questione federale (“la tutela dell’unità giuridica ed economica” dell’Italia, come recita l’art.120 Cost) ma è capace di guardare alla solidarietà non in termini meramente rivendicativi ma come criterio costitutivo di una nuova unità del Paese.

Nessuna legge delega per l’attuazione dell’art. 119 della Costituzione senza la legge delega per l’attuazione dell’art.120.

La situazione oggi è così riassumibile: la Lega si è fatta furba, la società è giustamente sospettosa e scarsamente informata e il sistema tutto è infiacchito per adeguate risposte. Il federalismo fiscale che vien fatto passare per autonomismo e decentramento locale, confuso con la giustizia fiscale e redistributiva, con l’efficientismo amministrativo sarà la leva per deformare la struttura istituzionale del Paese e rianimare gli spiriti disgregativi.

Aspettando l’Algeria italiana

Questa formula subdola, confusa, manifestamente truccata di federalismo che è il federalismo fiscale sarà probabilmente il detonatore della crisi sistemica nazionale, sarà l’Algeria italiana. Qual è oggi il grado di consapevolezza dell’opinione pubblica sui progetti di federalismo fiscale? Che ricaduta il federalismo fiscale avrà sulla forma dello Stato e quale ricaduta avrà soprattutto sulle condizioni di vita presenti e future dei cittadini? Quale rapporto diretto e indiretto esiste tra il progetto minor del federalismo fiscale e il federalismo complessivamente inteso? Quale Italia si configurerà a seguito del progetto mini-federalista? Ma al di là di queste domande pur dirimenti, una questione sovrasta su tutte: il federalismo fiscale così come le leggi di riforma elettorale completano quel processo di Costituzione materiale che nel tempo e in assenza di interventi consapevolmente e democraticamente revisionistici hanno svuotato la Costituzione formale, rendendo quest’ultima non già simulacro del patto democratico voluto dai partiti antifascisti ma copertura, non sappiamo quanto involontaria, per arrembaggi costituzionali da parte di poteri, vecchi e nuovi, senza vincoli e ancoraggi precisi.

La Costituzione materiale, vale a dire e paradossalmente “la via riformistica a Costituzione invariata” oltre che copertura di continue forzature politiche si sta trasformando in un potente motore che alimenta conflitti laceranti e contraddizioni insanabili nella vita della nazione che originano dall’aver inserito, pavidamente e irresponsabilmente, un meccanismo politico maggioritario e leaderistico-presidenzialista all’interno di una originaria architettura costituzionale che è proporzionalistica e parlamentare.

La Costituzione senza popolo

Qual è oggi la forza politica in grado di porre la questione nella sua nudità: la Costituzione materiale è distante e in conflitto con la Costituzione formale e, quello che più conta, è priva di un esplicito consenso popolare. Qual è la forza politica che intende legare la battaglia per il revisionismo costituzionale a un impegno di coinvolgimento dei cittadini? Qual è lo strumento in grado di legare la nuova Costituzione alla sovranità popolare?

E’ evidente che le risposte rinviano a quanto accadrà, a Sinistra, dopo la battuta d’arresto del progetto democratico. L’avanzamento della crisi del PD è prevedibile nelle forme tripolari della creazione di un campo socialdemocratico, della rinascita di un centro cattolico e nella costituzione, alla sua sinistra, di un’area che si richiama alla tradizione comunista e al compito di riallineamento del linguaggio classista alle regole della modernità, ma sempre attraverso l’uso delle categorie proprie della diversità comunista e del bisogno di comunismo (Bertinotti). Oggi per i socialisti il punto è: la tradizione del socialismo italiano dovrà impegnarsi nei travagli di una politica minore del tipo sopra descritto e in un quadro di ricomposizione della Sinistra che si svolge, ancora una volta, come storia evolutiva del vecchio PCI? Oppure è legata all’esito delle questioni istituzionali e alla capacità di costruire, con altre forze, una risposta? Le ultime vicende dei socialisti dicono che la questione socialista o saprà riproporsi come riformismo forte o non ha più ragione di essere. Un riformismo forte, riprendendo l’intuizione della Grande riforma con l’aggiunta di un elemento politico dirimente: il coinvolgimento della volontà popolare nel processo di riforma costituzionale.

Questione socialista e Costituzione

La forma in cui oggi si pone il riformismo socialista è il revisionismo costituzionale che dovrà essere la frontiera larga e unitaria di tutti i sinceri riformatori, per unificare i riformismi dispersi nella società e nel territorio (sia quello ancora incolto e selvaggio, sia quello organizzato) della Politica. La nostra bandiera deve onorevolmente difendere la storia del socialismo italiano ma deve saper guardare oltre quella storia. Il terreno su cui piantarla si chiama: Grandi riforme e popolo.

Va in questa direzione l’appello di “Un patto per l’Italia” lanciato, da ultimo sulle pagine de La Stampa, dal segretario dello SDI Nencini che riprende l’idea di Macaluso per l’elezione di un’Assemblea costituente e che si salda con l’altra proposta per la modifica dei regolamenti parlamentari perché obblighi l’assemblea a calendarizzare in commissione e in aula i progetti di legge popolari previsti al secondo capoverso dell’articolo 71 della Costituzione.

La bozza di legge di iniziativa popolare per la revisione della seconda parte della Costituzione parrebbe riprendere il testo della legge costituzionale del 1997 che dette vita alla commissione D’Alema. Se così fosse sarebbe uno sforzo inutile perché sfuggirebbe alla vera questione politica: l’attuazione del federalismo, di cui agli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione è in potenziale conflitto con l’attuale prima parte della Costituzione. Solo un’Assemblea costituente può stabilire se è possibile e come è possibile conciliare le due parti. Altrimenti lo farà la Corte costituzionale con un richiamo alla volontà popolare.

Il referendum consultivo è il passaggio fondamentale per far esprimere i cittadini sulla forma di Stato, Repubblica parlamentare o Repubblica presidenziale ed è un ponte ideale che ci ricongiunge con la lunga storia di battaglie politiche e parlamentari dei socialisti per una revisione dell’articolo 138 della Costituzione, che nella versione attuale rappresenta l’ultimo fortino dei conservatori per difendere l’intrico costituzionale esistente. Non è inutile ricordare che i socialisti sin dal progetto della Grande riforma degli anni ’80 fino alle ultime vicende parlamentari in cui si è posta la ridiscussione organica della Carta posero con insistenza e con rigore un fondamento democratico: che ogni decisione di revisione costituzionale fosse, al di là delle maggioranze parlamentari realizzate, sottoposta al giudizio popolare.

Chiudiamo con una citazione che viene suggerita non da nostalgie per storie passate e definitivamente rubricate nel passato. E’ la riprova non accademica né retorica che la battaglia per legare oggi, come nel dopoguerra, Costituzione e popolo si connette coerentemente con i momenti e le visioni più alte delle classi dirigenti quando hanno posto il tema della riforma costituzionale.

Alla fine di luglio del 1991 si svolse alla Camera il dibattito sul messaggio del Presidente della repubblica Cossiga concernente le riforme costituzionali. Per i socialisti intervenne tra gli altri Giuliano Amato, il quale così chiuse il suo discorso:

“” Mi sia permesso fare un’ultima annotazione, ricordando un mio e non solo mio, vecchio amico che non c’è più. Di lui avete ripreso una parte, non il tutto, la parte che riguarda la riforma di legge elettorale maggioritaria, ma avete dimenticato quanto egli diceva: “Per questo diventa importante un coinvolgimento dell’opinione pubblica, mettendo in cantiere, magari, l’introduzione di referendum consultivi e propositivi che riportino nelle mani dei cittadini lo scioglimento dei nodi dai quali il sistema dei partiti non riesce a liberarsi. In tal modo, del resto, non si farebbe che anticipare l’obiettivo della riforma, quello cioè di fare dei cittadini l’alfa e l’omega di una democrazia sempre più trasparente ed efficiente”. Le avrete riconosciute: sono parole pubblicate nell’ultimo libro postumo di Roberto Ruffilli, un amico di cui in questo momento, più ancora che in altri, rimpiango oltre che l’amicizia il leale disinteresse con il quale scriveva e parlava di riforme istituzionali. “”
Purtroppo in politica l’oblio è una malattia infettiva. I democristiani dimenticarono Ruffilli nel ’91. Amato ha dimenticato se stesso in questi quindici anni, i Democratici sono sulla buona strada per continuare a dimenticare la Costituzione, il revisionismo costituzionale e la funzione del popolo nella costruzione dell’ordinamento democratico.

L’Italia dei sinonimi e dei contrari.

Quando la società non è percorsa da momenti di tensione civile per il raggiungimento di grandi traguardi, com’è accaduto nell’ultimo scorcio di vita nazionale, si risveglia l’Italia dei sinonimi e dei contrari, si rianima cioè la Politica che ama vivere nel Palazzo o nelle piazze. Ha vinto l’Italia dei sinonimi. Il sistema politico decapitato agli inizi degli anni ’90 non ha generato partiti e idee-forza che potessero reggere l’urto del passaggio dalla democrazia fragile dello “stare insieme” alla democrazia forte dell’alternativa. Ha prevalso l’Italia dei sinonimi, l’Italia delle ambiguità linguistiche e dei confusionismi concettuali sull’Italia dei contrari, sull’Italia dei limpidi conflitti democratici e sull’Italia dei realistici progetti di alternativa. Non sappiamo quanto possa durare questa situazione, ma sappiamo con certezza che essa durerà finché il popolo vivrà nel sonno della ragione.