di  Renato Costanzo GattiSocialismo XXI Lazio |

 

L’osservatorio sull’economia digitale dell’IBL (Istituto Bruno Leoni- cattedrale del puro liberismo) pubblica un interessante articolo di Carlo Amenta del titolo “La transizione digitale passa dalle Pmi e dagli studi professionali”.

L’autore prelude con un ampio panorama sulla positività della tecnologia informatica necessaria affinché ogni impresa possa essere competitiva nel mercato globale, esse infatti debbono essere “sfruttate in tutti gli ambiti in cui esse possono contribuire a migliorare l’efficienza dei processi produttivi. L’utilizzo non solo di nuovi macchinari interconnessi, ma anche – e per certi versi soprattutto – di software gestionali ed altri applicativi all’avanguardia può portare alla ridefinizione dell’intero ecosistema d’impresa nel quale siano disponibili nuovi mezzi per dialogare con altre imprese per stabilire nuove routine organizzative e per condividere informazioni e risorse. La capacità di ristrutturare l’organizzazione con investimenti mirati diventa fondamentale per sfruttare con successo questa rivoluzione”.

Naturalmente “perché il processo di trasformazione digitale delle imprese abbia successo è necessario che i manager si concentrino sulla ottimizzazione dei processi per ottenere un uso efficiente ed efficace delle tecnologie digitali” ma soprattutto è necessario che gli imprenditori si rendano conto di questo bivio cui le imprese si trovano ad affrontare, un bivio che discriminerà le imprese che sopravviveranno da quelle che soccomberanno a fronte dello svilupparsi della competizione globale; ma è pure necessario che i capitalisti alle loro spalle, siano convinti a rinunciare ai loro profitti o alle loro speculazioni finanziarie e assentano ad investire cifre non indifferenti per finanziare l’acquisto di hardware e software necessari alla ristrutturazione dell’impresa.

La situazione delle imprese italiane

Il nostro paese ha una struttura di imprese la cui dimensione è nettamente inferiore alla media europea; se si considerano le imprese con meno di 250 persone impiegate, il nostro paese fa registrare una percentuale di circa il 93% di presenze occupando l’80% degli addetti e realizzando il 50% del fatturato. A livelli simili al nostro paese troviamo paesi come la Bulgaria, la Croazia, il Portogallo e l’Olanda; in Germania gli stessi indici fanno registrare il 73% di imprese sotto i 250 addetti, con il 41% degli occupati ed un fatturato del 31%.

Le piccole imprese sono aliene all’innovazione tecnologica per due ordini di ragioni:

a) le loro dimensioni non raggiungono quella massa critica necessaria a poter immettere processi di innovazione adeguati a quelle efficienze che la globalizzazione rende necessarie,

b) i manager, che spesso corrispondono ai capitalisti di queste imprese, non sono spesso culturalmente adeguati a comprendere le vere necessità delle attività che svolgono.

La presenza di una così rilevante percentuale di piccole imprese restie all’innovazione tecnologica, pesa pesantemente nelle classifiche europee che monitorano la digitalizzazione dei paesi aderenti; l’indice DESI (Digital Economy and Society Index) ci vede al 20° posto su 27 paesi europei, davanti a Bulgaria, Ungheria, Polonia, Lettonia e Slovacchia. Tutti gli altri paesi ci stanno davanti con punteggi che arrivano oltre il 70 rispetto al nostro punteggio di 32.

Un altro indice, il DII (Digital Intensity Index) misura invece quante tecnologie, tra le 12 scelte, sono adottate dalle imprese dei paesi europei; ancora una volta la situazione italiana mostra una performance “particolarmente elevata di imprese con bassa o bassissima performance nell’integrazione digitale”.      

“Il quadro europeo di riferimento non sembra restituire quindi elementi incoraggianti per il nostro paese e, in considerazione della larga maggioranza di PMI che ne costituiscono il tessuto produttivo, i risultati che abbiamo evidenziato rendono il quadro ancora più critico in termini di prospettive”.

Le scelte del PNRR

Il PNRR continua ad affidarsi alle scelte fatte dalle imprese allargando però l’area dei beni, in particolare aprendo a quelli immateriali, che possono beneficiare delle agevolazioni fiscali lanciate dall’allora ministro Calenda. Ma, osserva Carlo Amenta, questo tipo di incentivi “tradisce una visione parziale della composizione dell’economia italiana – in quanto sembra ricondurre tutto al modello dell’impresa industriale di medio-grandi dimensioni – ma rischia di indurre nel mercato due ulteriori distorsioni: i) favorire solo una specifica categoria di imprese che, peraltro, almeno in parte avrebbero comunque effettuato gli investimenti incentivati; ii) marginalizzare ulteriormente le imprese di piccole e piccolissime dimensioni, specialmente nel settore dei servizi, senza affrontare la barriera all’investimento che le contraddistingue e, dunque, in ultima analisi, non raggiungere proprio quei soggetti che più hanno bisogno di una spinta”.

L’unica digitalizzazione che le piccole imprese hanno implementato pare essere quella relativa alla fatturazione elettronica, e ciò dimostra che per questi imprenditori “recalcitranti” si dimostra più efficace l’obbligo che non l’incentivo.

L’autore conclude il suo articolo proponendo nuovi strumenti incentivanti che “consentano, nella massima semplicità di accesso e con meno vincoli possibili al fine di lasciare massimo spazio alla discrezionalità e alla convenienza della singola impresa, di investire in software e servizi per accelerare la digitalizzazione dei processi”.

Anch’io sono critico sulle posizioni governative relative al PNRR, ma su posizioni opposte a quelle dell’autore sin qui commentate.

In primo luogo, sono decisamente contrario ad incentivare fiscalmente le scelte fatte nella massima discrezionalità dalle imprese; questa posizione subalterna al mito del libero mercato che magicamente risolve tutti gli squilibri e persegue il massimo realizzabile, ha subito ormai smentite storiche, aprendo spazi a riconsiderare l’indicazione di una missione per il paese che privilegi scelte programmaticamente elaborate su basi razionalmente fondate. Piuttosto di ricercare, come fa l’Amenta, vantaggi e incentivi specifici per le piccole imprese, prorogando così un tessuto aziendale fortemente penalizzante, ricercherei modalità per aggregare le piccole imprese in modo da raggiungere una dimensione critica adeguata all’immissione di tecnologie importanti ben più di quanto lo siano software applicativi.

In secondo luogo, trasformerei i fondi erogati dallo stato a favore delle imprese, siano essi sotto forma di incentivi diretti che sotto forma di sgravi fiscali, in partecipazioni azionarie o societarie di un apposito istituto statale. Questa proposta nasce da una semplice riflessione: i fondi oggi donati alle imprese, sono un trasferimento netto di fondi da parte dei contribuenti a favore del capitale; c’è da chiedersi perché i contribuenti (e sappiamo chi sono i maggior contribuenti nel nostro sistema fiscale) che in tal modo sono un investitore istituzionale nel mondo della produzione, debbano essere esclusi da tutti quei diritti che spettano a chi acquista azioni o versa fondi in una s.r.l.: partecipare alle assemblee, percepire i dividendi, gestire l’azienda essendo eletto, avendone il voto, negli organismi societari.

Se consideriamo che gli incentivi alle imprese, ogni anno, sono pari al gettito Ires, che il PNRR incrementa e non di poco questo tipo di elemosina di stato, l’esclusione dei contribuenti dalla gestione aziendale dovrebbe cominciare a far pensare chi ci governa ma soprattutto ai cittadini contribuenti che comincino a rivendicare spazi agibili.