di  Renato Costanzo GattiSocialismo XXI Lazio |

 

Il capitalismo italiano

Mi rifaccio ad un saggio del prof. Leonello Tronti docente a Roma 3 per elencare sinteticamente l’inadeguatezza del capitalismo italiano rispetto alla globalizzazione del mondo del lavoro:

● Produttività che cresce in modo insufficiente da almeno trent’anni

● Insufficienti investimenti produttivi sia pubblici che privati

● Deficienza nella ricerca delle innovazioni

● Scarsissima propensione a reinvestire gli utili

● Nanismo della grande maggioranza delle imprese

● Ricerca della competitività nel basso costo del lavoro

Questo stringatissimo elenco di cause genera, unitamente alle norme europee di stabilità, una carenza di stimolo alla domanda aggregata che a sua volta disincentiva il capitale dal programmare investimenti produttivi dirottando su quelli finanziari. Un circolo vizioso irrisolvibile dalle mani più o meno invisibili del mercato. Peraltro l’adozione dell’euro ci ha negata la possibilità di adeguarci al mercato con ricorrenti adeguamenti del cambio; quell’effimero strumento doveva essere sostituito dall’incremento della produttività ed invece per l’incapacità del capitalismo italiano (fatte salve le purtroppo poche eccezioni) quello strumento è stato sostituito dalla drastica riduzione del mondo del lavoro.

Il PNRR sospende per qualche tempo le norme europee, e costituisce una svolta (permanente? Difficile crederlo) storica, ed occorre utilizzarlo non per tornare a come eravamo pre pandemia (sarebbe suicida) ma per rompere quel circolo vizioso altrimenti irrisolvibile.

Auspicabile quindi un protocollo (tipo Ciampi) che punti all’aumento degli investimenti tecnologici finalizzati all’aumento della produttività collegata organicamente alle dinamiche del salario e dell’orario di lvoro in modo che aumenti la domanda aggregata senza effetti inflattivi. Ma in questa prospettiva la componente programmatoria guidata dallo stato diventa elemento centrale e mette alla prova la capacità politica della nostra democrazia, rimettendo al centro le tematiche degli interessi delle classi sociali.

Tuttavia un tema che sovrasta tutti gli altri, e che guarda un domani che è già iniziato, è quello della rivoluzione 4.0.

La robotizzazione della produzione

La robotizzazione del lavoro comporta uno spostamento sostanziale dal lavoro fisico a quello cerebrale, non solo nel controllo delle macchine o nella loro gestione, ma a livello digitale, alla produzione di macchine intelligenti o alla produzione degli algoritmi per il funzionamento dell’intelligenza artificiale. Al capitale non serve più, come nel modello fordista, il lavoratore “scimmia ammaestrata” il cui contributo cerebrale è di disturbo, ma al contrario servono lavoratori sempre più istruiti e digitalizzati necessitando investimenti enormi (soprattutto da parte dello stato) nella produzione del capitale umano. Marx nei Grundisse nota come lo sfruttamento delle intelligenze faccia impallidire lo sfruttamento del lavoro fisico.

Visto macroeconomicamente, lo stato (i contribuenti) investe in istruzione e formazione per costruire un capitale umano da impiegare nei processi produttivi in particolare quelli immateriali. La produttività (ovvero il pluslavoro relativo) aumenta sensibilmente e segna quella differenza schumpeteriana tra la nostra economia (agli ultimi posti in questa rivoluzione) e quella degli altri paesi sviluppati. E’ quindi fondamentale il superamento del nanismo aziendale, l’incremento della innovazione tecnologica, attuare la golden rule del rapporto incremento della produttività / incremento delle dinamiche salari etc. fare cioè del nostro paese ciò che nei decenni passati l’affidarsi al mercato senza un’idea programmatoria non ha permesso di fare. In Germania si lavorano 1400 ore l’anno contro le nostre 1800 ma la produttività delle 1400 ore è del 20% maggiore che non in Italia: ecco lo spazio per la ricerca per quanto possibile concordata di un diverso modello produttivo che sostituisca l’attuale bolsa stagnazione. 

Questo processo non può essere attuato con gli incentivi 4.0, erogati affinchè chi dovrebbe innovare non lo fa e quindi lo stato regala fondi a questi inadempienti perché facciano ciò che è il loro compito sociale di fare. E inoltre lo stato non guida e non indirizza gli investimenti lasciando l’iniziativa alle decisioni di capitali privati che si sono dimostrati incapaci di imboccare una strada di innovazione.

Questi incentivi 4.0 dovrebbero invece essere erogati come PARTECIPAZIONI PUBBLICHE (ho già spiegato altrove le modalità) che diano ai contribuenti che investono gli stessi diritti che spettano agli investitori privati. Ma se il gettito Ires annuo è pari agli incentivi che annualmente sono regalati alle imprese, perché i contribuenti dovrebbero essere esclusi dalla gestione delle imprese beneficiate? Non è forse questa una strada per mettere il primo mattone del “bene comune”?

Ad un aumento del pluslavoro relativo si affianca il crollo del pluslavoro assoluto, i tempi di lavoro totali sono drasticamente ridotti, si progettano robots autoapprendenti capaci di progettare nuovi robots più avanzati fino a poter ipotizzare la scomparsa del lavoro vivo. Di fronte a questa prospettiva  diviene fondamentale la questione della proprietà dei robots: o essa è privata (e il mondo delle multinazionali fa intravvedere questa possibilità) prospettando una società concentrata, o essa diviene “bene comune” per cui ogni ripartizione della produzione senza lavoro vivo, avviene tra uguali.

La ripartizione non va mai disgiunta dalla produzione

Se pensiamo di agire sulla sovrastruttura agendo solo sui diritti, sulle regole, sul welfare senza mettere in discussione la proprietà dei mezzi di produzione, ci troveremo sempre come vittime dei fallimenti del mercato, siano essi endogeni siano essi esogeni.  I fallimenti del 1929 e più recentemente del 2007 ed ancora quella che stiamo vivendo si risolvono con milioni di disoccupati, aumento della povertà, aumento delle disuguaglianze; la concentrazione delle ricchezze raggiunta in questi anni non ha precedenti; tutte le conquiste del mondo del lavoro fatte negli anni riformistici sono messe in discussione se non cancellate.

Occorre spostare il tiro delle nostre politiche puntando sul piano strutturale non dandolo per scontato od accettandone subordinatamente le impostazioni; anche la maturazione delle classi subalterne è premessa per una rivoluzione culturale che muti quei miti che anni di neoliberismo hanno incardinato nei nostri modi di approcciare i problemi.

Il PNRR può essere un primo terreno di confronto e gli incentivi Calenda ivi previsti vanno convertiti in un primo mattone del “bene comune”.