ECONOMIA DELLA CONOSCENZA E CONFLITTO DI CLASSI

 

di Renato Costanzo Gatti Socialismo XXI Lazio |

 

Ho appena letto due testi di Leonello Tronti che mi spingono ad approfondire i loro contenuti.

INVESTIMENTI, CRISI E RIPRESA: IL PROBLEMA ITALIANO. UN’ANALISI DI LUNGO PERIODO

In questo testo l’autore con abbondanti evidenze statistiche analizza le ragioni del permanente ritardo dell’economia nazionale con performances sempre arretrate rispetto agli altri paesi europei. L’autore parte dai deludenti dati relativi agli investimenti produttivi sia pubblici che privati del nostro paese, ai conseguenti effetti degli scarsi investimenti sul PIL per indagare sulle cause a monte di questi risultati.

Per quel che riguarda gli investimenti pubblici rileva una prima causa nella non adozione della “golden rule” nei principi contabili del Patto di stabilità. A ciò si aggiunga “l’affermarsi di un diffuso quanto infondato consenso politico di tipo privatistico e mercatista, secondo il quale il mercato lasciato a sé stesso- e anzi continuamente favorito dal decisore politico- avrebbe più che supplito al ritiro della mano pubblica dell’economia, e lo avrebbe fatto in modo efficiente e libero dai condizionamenti e dalle clientele dei partiti”.

Per quel che riguarda gli investimenti privati dopo aver rilevato che nel lungo termine esaminato (dal 1995 al 2019) l’incidenza dei profitti sul valore aggiunto del settore privato , pur subendo le conseguenze della crisi del 2007, “si ridimensiona di un sol punto percentuale (dal 42.9% del 2007 al 41,9 del 2014)”, rileva che al contrario l’incidenza “degli investimenti sul margine operativo crolla di più di dodici volte segnalando in modo inequivocabile che la tendenza di lungo periodo della propensione a reinvestire sta subendo una caduta significativamente maggiore di quella (relativamente modesta) della profittabilità”. Ne deriva una spirale negativa che partendo dalla bassa produttività si traduce in bassi salari che generano bassi consumi che deprimono la propensione ad investire e quindi riabbassano la produttività e di seguito scendono i salari e quindi gli investimenti con una duplice conseguenza negativa dell’effetto Smith e dell’effetto Ricardo. Conclude l’autore dicendo che “questa dura evidenza segnala che, nella fase attuale, il declino di lungo periodo dell’economia italiana e la stagnazione degli investimenti sono un problema di propensione delle imprese a reinvestire i profitti realizzati più che di esaurimento delle opportunità di profitto”.

ECONOMIA DELLA CONOSCENZA, APPRENDIMENTO E DEMOCRAZIA

In questo testo Tronti “affronta il tema del ruolo dell’apprendimento nella moderna Economia della conoscenza. In essa l’apprendimento diviene un processo collettivo, che individua la capacità dell’uomo di applicare, in associazione con altri, la propria intelligenza e i risultati della ricerca scientifica al conseguimento di obiettivi socialmente desiderabili. L’apprendimento occupa pertanto due cruciali snodi sociali: la trasformazione dell’informazione in conoscenza e, quindi, l’ancor più fondamentale trasformazione della conoscenza in saggezza. La caratterizzazione sociale ed effettuale dell’apprendimento ne stabilisce il legame con il progresso morale collettivo, perché è (e non può essere che) la collettività a stabilire attraverso il metodo democratico, le finalità che la conoscenza deve perseguire.”

Insomma, facendo riferimento “ad una letteratura ormai consolidata (quella sulla learning organization) perché una comunità si muova nella direzione aperta dell’economa della conoscenza è necessario che molti se non tutti i suoi componenti imbocchino un cammino di apprendimento organizzativo e, aggiungo, di apprendimento diffuso, secondo il principio che soltanto “un’organizzazione (…) che apprende espande continuamente la capacità di creare il proprio futuro che realizza i risultati che desidera””.

COSA NON MI CONVINCE

Mi riconosco in pieno nell’analisi fatta nel primo testo che tocca argomenti a me molto cari come la “golden rule” e l’effetto Ricardo. Solo su un punto avrei da fare una osservazione, ed è quando Tronti afferma che “il declino di lungo periodo dell’economia italiana e la stagnazione degli investimenti sono un problema di propensione delle imprese a reinvestire i profitti realizzati “. Infatti a mio parere non è l’impresa ad avere scarsa propensione per il reinvestimento dei profitti, anzi a mio parere l’impresa ed in particolare l’imprenditore schumpeteriano, che io ritengo essere il primo protagonista del mondo del lavoro, ha sempre la tensione a investire e a migliorare la combinazione dei mezzi di produzione, lo vedo come una figura mitica prometeiana che ogni giorno è alla ricerca di innovazioni e di migliori tecniche produttive, ancor più positivamente svolge questo suo compito di concerto con le altre persone coinvolte nel processo produttivo.

La scelta se reinvestire o meno, o dove o come, i profitti realizzati non spetta all’imprenditore ma ai possessori del capitale, ai soci riuniti in assemblea che nel momento di decidere se reinvestire o meno pensano anche ad investimenti alternativi nell’immediato più redditizi. Gli investimenti decrescenti considerati da Tronti sono, ripetutamente precisati, quelli fatti in Italia e non finanziari. C’è da dedurre che i soci, i capitalisti preferiscano all’investimento nella impresa produttiva italiana, l’investimento in altri paesi o quello finanziario. Si usano quindi i profitti frutto dell’attività produttiva per rafforzare investimenti finanziari che per loro natura non creano nuova ricchezza, ma spostano i valori prodotti dagli outsiders verso gli insiders: non creano ricchezza ma l’accentrano presso i più forti. E l’economia finanziaria ha dimostrato quali conseguenze comporta nella crisi del 2007, mentre la polarizzazione della distribuzione della ricchezza caratterizza da anni l’indice Gini del mondo occidentale.

Certo, in un paese familistico come il nostro, è difficile scindere la figura dell’imprenditore da quello del capitalista, ma tale distinzione va tenuta presente perchè comincia a delineare una alleanza inedita fra imprenditori e lavoratori, soggetti del mondo del lavoro, opposti alle scelte del capitale; concretamente e non ideologicamente siamo di fronte ad opposti interessi, opposte visioni, opposti obiettivi; una dialettica che va, a mio parere, messa al centro di una analisi sociologica basata  sul conflitto di classe.

Conflitto assente nel secondo irenico testo, dove si ipotizza una collettività che stabilisce con il metodo democratico le finalità che la conoscenza deve perseguire. Ma nella comunità ci sono le classi e gli obiettivi di queste sono differenti, abbiamo visto nel primo testo che l’obiettivo del mondo del lavoro è l’innovazione, gli investimenti connessi, una visione a medio-lungo termine mentre l’obiettivo del capitale e il “shareholders value” con una visione “shorterm”. La piramide DKW andrà benissimo per ampliare la “sfera delle competenze dei cittadini con l’assunzione di una nuova e specifica competenza (…) ovvero la partecipazione cognitiva”, sarà indispensabile per la formazione di quel capitale umano fonte dello sviluppo in questo momento storicamente determinato, o come scriveva Smith includere nello stock di capitale fisso di un paese le “capacità acquisite e utili di tutti i suoi abitanti”, ma potrà mai, mi chiedo, quella piramide far apprendere al capitale principi opposti ai suoi?

UNA PIACEVOLE SCOPERTA

Chi segue i miei posts, ricorderà che da tempo, sostengo che occorre dare alle imprese, affinché queste ritornino a competere nella divisione internazionale del lavoro, quei fondi necessari ad acquisire nuove tecnologie ed innovare il modo di produrre, ma questi fondi non debbono essere dati a fondo perduto (come purtroppo da tempo avviene con sussidi o agevolazioni fiscali) ma devono essere dati dallo stato come partecipazioni azionarie (o sociali) nelle imprese beneficiate. In tal modo i fondi derivanti dalle imposte (pagate per la gran parte da lavoratori e pensionati) rimangano nella proprietà dei contribuenti mediati dallo stato. Se sono investimenti sociali che rimangano tali, possibilmente destinando i frutti a reinvestimenti e/o alla costituzione di un fondo per il reddito di cittadinanza universale incondizionato.

Ebbene il primo testo di Tronti mi fa scoprire Pierluigi Ciocca, ex direttore generale di Banca d’Italia il cui incarico, quando egli lo lasciò, fu preso da Ignazio Visco oggi governatore di quella banca. Ebbene sul Manifesto del 12 maggio di quest’anno è apparso un suo articolo intitolato “Basta trasferimenti alle imprese, servono investimenti pubblici”. Nel testo di questo articolo si legge che:

 “ il cadeau che il mondo degli affari addirittura pretende dallo Stato collide col paradigma allocativo su cui si fonda un’economia di mercato capitalistica. (…) Le imprese hanno potuto ridurre i debiti al di sotto del 40% delle passività di bilancio. Si sono avvalse di bassi salari, di una spesa pubblica incontrollata nelle forniture, negli appalti, nei contributi, dell’evasione ed elusione delle imposte. Hanno esportato capitali, persino illegalmente. Soprattutto, lungo un quarto di secolo la più gran parte degli azionisti e amministratori ha investito poco e male nelle proprie imprese. Sia pure con meritevoli eccezioni e a differenza di altre fasi storiche, le imprese non hanno innovato, hanno lasciato che la produttività – del lavoro e totale dei fattori – ristagnasse hanno continuato a confidare in qualche deus-ex-machina. 

Oggi i capitalisti italiani sono chiamati a far leva, più che sui trasferimenti statali, sui loro patrimoni, che sono cospicui e per superare le attuali difficoltà andrebbero investiti nell’azienda. La categoria famiglie dei conti finanziari – che comprende gli averi dei proprietari dei 4.4 milioni di imprese nostrane (in media con meno di quattro addetti, il bar dell’angolo)- possedeva alla fine del 2017 un patrimonio netto di 9.7 trilioni di euro (per il 54% rele, per il 46% finanziario) pari a quasi quattro volte il debito pubblico italiano e oltremodo concentrato (l’indice Gini nel 2016 era stato stimato in 0.61). Nonostante il ventennale ristagnodell’economia, in rapporto al reddito disponibile (8:1) una tale ricchezza resta la più elevata fra i paesi del gruppo dei 7. (…) Lo stato dovrebbe tuttavia quantomeno astenersi dal contribuire ulteriormente nelle imprese con trasferimenti a fondo perduto e capitale con risorse che rischierebbero di dissolversi, da ultimo prelevate dal reddito dei contribuenti, soprattutto lavoratori e pensionati”.