UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA

“Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)”

RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI

Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343

ANNO ACCADEMICO 1978-1979

 

PARTE QUARTA

CONCLUSIONI

Il dibattito all’interno della sinistra italiana negli anni 1945-1948 sulla natura sociale dell’Unione Sovietica si caratterizza per avere identificato sostanzialmente quattro diverse definizioni teoriche di quel modello politico-economico.

Inutile dire che ogni definizione cozzi inevitabilmente con l’altra e contribuisca a specificare, nelle linee generali, la particolare ideologia di ogni forza politica. Il giudizio espresso dai vari partiti della sinistra italiana a proposito della realtà sociale dell’Unione Sovietica, inoltre, testimonia pure delle differenti concezioni del socialismo che ciascuno di loro intendeva difendere e realizzare.

Vi è un’altra questione da non trascurare: quei quattro tipi di giudizio che in quegli anni furono postulati ed approfonditi posseggono la validità anche in sé, in quanto quelle tematiche caratterizzano pure il dibattito odierno sulla natura sociale dello Stato sovietico. Questo studio possiede dunque una duplice dimensione: da un lato serve come strumento di conoscenza politico teorico dei partiti di sinistra in un momento particolarmente delicato del loro sviluppo (gli anni immediatamente seguenti alla caduta del fascismo), dall’altro ci fornisce una panoramica delle possibili interpretazioni dell’esperimento sovietico che, a tutt’oggi, non sono stati ancora abbandonate dagli storici e dai teorici del movimento operaio. Di queste questioni ci occuperemo in queste pagine conclusive, sforzandoci di amalgamare tutti gli elementi di cui abbiamo trattato nelle pagine precedenti in maniera analitica (eviteremo perciò di riportare nei dettagli dimostrazioni ed argomentazioni già abbondantemente trattate).

Le quattro diverse definizioni del modello sovietico sviluppate dai partiti della sinistra italiana in quegli anni furono, sappiamo, le seguenti: ‘collettivismo burocratico’, ‘capitalismo di Stato’, ‘socialismo realizzato’ e ‘stato operaio degenerato – stato socialista imperfetto’.

PARTE PRIMA

PSLI, PSIUP, PCI E ANARCHICI

I teorici del ‘collettivismo burocratico’ (socialdemocratici ed anarchici) sostengono che il modello sovietico non fosse assolutamente socialista, in quanto la nuova classe dominante, nel senso marxista del termine, si era impadronita delle leve del potere politico ed economico.

Questa classe che deteneva la proprietà collettiva dei mezzi di produzione era la burocrazia, ossia tutta la compagine dei funzionari dello Stato sovietico e del partito bolscevico. Essa si era impadronita prima dei poteri politici dello Stato e successivamente dei poteri economici tramite la nazionalizzazione dell’economia industriale, la collettivizzazione delle terre e la pianificazione dell’intera economia.

Con la nazionalizzazione, le fabbriche, trasformatesi in proprietà dello Stato, divennero, attraverso questa via, proprietà collettiva della burocrazia, padrona indiscussa dei poteri statali.

Con la coltivazione agricola pure le campagne furono sottomesse al dominio della burocrazia statale e furono, di conseguenza, obbligate a fornire una parte stabilita della loro produzione allo stato a prezzi da questo fissati (in pratica si trattava, a loro parere, di una pura e semplice requisizione).

Con la pianificazione, infine, la burocrazia poté gestire la produzione, orientandola decisamente nel proprio interesse e nell’interesse del rafforzamento, soprattutto militare, dello Stato sovietico (la difesa del quale significava pure la difesa dello strumento attraverso il quale la nuova classe esercitava il proprio potere).

Questo comportò come conseguenza inevitabile la compressione dell’industria produttrice dei beni di consumo, provocando enormi ed ineliminabili disagi per tutta la popolazione.

Il nuovo stato, sorto dai ruderi della Rivoluzione d’Ottobre, può essere definito socialista solo da ciechi. La sua struttura economica e politica non può però nemmeno essere avvicinata al modello capitalista. Non esiste più in URSS l’elemento del capitalismo: la ricerca del profitto mercantile. Neppure esiste più il mercato, sostituito dalla pianificazione economica.

Il sistema sovietico, quindi, costituisce un nuovo modello storico di sfruttamento del lavoro: il ‘collettivismo burocratico’, appunto.

Nuova forma economica – politica (analoga ai sistemi nazifascisti) che non costituisce neppure un progresso storico rispetto alle precedenti, semmai un regresso verso forme feudali e schiavistiche di sfruttamento. Lo stato sovietico, infatti, e, tramite esso la burocrazia, si è impadronito non solo della forza lavoro, come avviene nei sistemi capitalistici, ma dell’intera vita del lavoratore, trasformato da libero prestatore della forza lavoro in servo di stato. Lo stato totalitario si è impadronito di tutti i poteri della società civile e rappresenta la sintesi mostruosa del nuovo regime.

Nessun pertugio di libertà e di democrazia è più lasciato aperto nella società sovietica. Questa, schematicamente, la teoria del ‘collettivismo burocratico’. Il merito di averla strutturata e sviluppata spetta, come abbiamo abbondantemente mostrato, all’italiano Bruno Rizzi che nel 1939 scrisse “La bureaucratisation du Monde”.

Nell’ambito della sinistra italiana essa fu ripresa e fatta propria, oltre che dagli anarchici, pure dai teorici socialdemocratici degli anni ’40. Questi non conobbero Rizzi e la sua opera, stampata a Parigi in un numero limitatissimo di copie, prova ne sia il fatto che l’autore della “Bureaucratisation…” non viene mai citato né chiamato in causa nei loro articoli.

Conobbero, però, indirettamente la sua teoria attraverso gli scritti di un leader del partito che poteva esercitare sul loro pensiero un’ influenza profonda (e che, a mio parere, la esercitò senz’altro), Giuseppe Saragat.

Questi, infatti, aveva certamente letto il libro di Rizzi del 1939 (era infatti esule a Parigi in quegli anni) e ne aveva assorbito i concetti contenuti al punto tale che alcuni suoi articoli, pubblicati sul giornale socialista “Il nuovo Avanti!”, stampato a Parigi, a partire dal 6 gennaio 1940 possono essere considerati semplicemente come dei riassunti e una chiosa delle tesi di Rizzi, come abbiamo abbondantemente mostrato nelle pagine precedenti. Alcune frasi ed espressioni usate da Saragat sono infatti non solo simili, ma addirittura identiche a quelle di Rizzi.

In questo modo va individuata, secondo me, la linea di derivazione del pensiero socialdemocratico da quello di Rizzi del 1939: tutti gli articoli pubblicati infatti dalle riviste socialdemocratiche del periodo oggetto di questo studio sono tesi alla dimostrazione e all’illustrazione dei vari aspetti della società sovietica alla luce della teoria del ‘collettivismo burocratico’.

Il discorso sulle influenze non si ferma a Rizzi, procede invece più indietro nel tempo e diventa al momento stesso più interessante.

Si può infatti affermare che alcuni elementi fondamentali di questa teoria possano essere fatti risalire addirittura al pensiero anarchico classico della fine ‘800 e degli inizi del ‘900 (è questa la tesi avanzata, come avevamo fatto rilevare, in tempi recenti dall’anarchico italiano Nico Berti).

Erano quelli gli anni della feroce polemica tra il pensiero marxista, dagli anarchici definito ‘statolatra’ e ‘comunista autoritario’ e il pensiero libertario anarchico fortemente antiautoritario ed antistatale. Gli anarchici proprio allora elaborarono, quale critica al marxismo, alcune tesi che saranno in seguito riprese dai teorici del ‘collettivismo burocratico’ e riferite all’esperimento sovietico.

È questo un fatto molto importante che dà ragione alla tesi da noi sostenuta dall’abbandono dei concetti fondamentali del marxismo da parte dei teorici del ‘collettivismo burocratico’. Gli anarchici di allora sostennero contro Marx:

1 – Lo stato, prospettato dal pensiero marxista, diventerebbe inevitabilmente un generatore di differenziazioni sociali tra chi dirige e chi è diretto.

2 – Questo porterebbe alla formazione di una nuova classe dominante: quella dei governanti.

3 – Il potere sarà quindi esercitato da questa nuova classe di funzionari statali che riunirà nelle proprie mani il potere politico ed economico, dato che lo stato sarà il nuovo padrone delle fabbriche e delle terre.

4 – Il lavoratore sarà ridotto alla condizione di ‘servo di stato’.

5 – Il risultato della concezione marxista ‘statolatra’ sarà la rinascita di una nuova forma di feudalesimo, diversa dalla società borgese, ma non certo socialista (per la citazione dei riferimenti ai testi degli anarchici – Merlino, Cafiero, Malatesta, Bakunin eccetera – confronta le pagine precedenti ed in particolare il paragrafo “Anticipazioni anarchiche”).

Come si vede tutte queste tesi divennero parte integrante della teoria in esame.

Le implicazioni teoriche comportate dalla ripresa, da parte dei socialdemocratici, negli anni ’40 della teoria del ‘collettivismo burocratico’, così legata nei suoi punti fondamentali al pensiero anarchico, furono notevoli.

Oggettivamente essa comportò l’abbandono dell’ ortodossia marxista, particolarmente nei seguenti punti:

1 – Lo stato non fu più considerato come pura sovrastruttura politica ma, esso stesso, struttura economica, generatrice di sfruttamento.

2 – Si rifiutò il dogma che il potere politico sia sempre un derivato del possesso del potere economico.

3 – Si rifiutò il determinismo marxista della nascita inevitabile del socialismo, una volta distrutto il capitalismo.

4 – Si rifiutò pure il concetto che la distruzione della proprietà privata dei mezzi di produzione e del suo trasferimento nelle mani dello Stato potesse corrispondere all’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

5 – Venne infine rifiutato, come metodo non socialista ma totalitario, il principio della pianificazione centralizzata dell’economia e, allo stesso tempo, venne rivalorizzato il mercato.

Ne segue che, accettando e sviluppando la teoria del ‘collettivismo burocratico’, i socialdemocratici, pur non riconoscendolo apertamente, cominciarono a rifiutare ed a criticare alcuni cardini della teoria marxista, proprio nel momento in cui li sostituivano con alcune concezioni ‘libertarie’.

Un evento successivo (la pubblicazione nell’agosto nel 1978 dello scritto di Bettino Craxi “Il Vangelo socialista”) ci deve illuminare circa la veridicità di quanto abbiamo appena affermato e di conseguenza dell’importanza delle parole e della profondità del processo avviato in quegli anni in casa socialista.

Apriamo, quindi, una piccola, ma importante parentesi su questo argomento che interessa però da vicino il nostro studio in quanto quello scritto di Craxi che molti, a torto, avevano considerato come il frutto di una polemica balneare tra comunisti e socialisti, affondi le sue radici, al contrario, nel profondo della storia teorica del socialismo democratico. Craxi infatti porta a compimento quel processo, iniziato in quegli anni, di abbandono del marxismo e di ripresa, questa volta in modo aperto ed eclatante, del pensiero anarchico e libertario.

Il segretario socialista, infatti, afferma che sono sempre esistiti due tipi di socialismo: da una parte il socialismo democratico e libertario, dall’altra il socialismo autoritario e totalitario; due diversi modi di intendere il socialismo che la rivoluzione bolscevica ha contribuito a dirimere nettamente sul terreno internazionale.

Craxi fa risalire questa distinzione al contrasto che divise, all’alba del pensiero socialista, i libertari da una parte e i marxisti dall’altra, cioè pensiero socialista libertario da una parte e quello marxista autoritario dall’altra; comunismo autoritario che trovò la sua realizzazione nello stato totalitario sovietico che non rappresenta, a suo giudizio, una deviazione o una degenerazione della dottrina comunista originaria ma la sua continuazione e realizzazione.

Craxi riconosce inoltre che il pensiero libertario previde, nella sua critica alle concezioni marxiste, lo sviluppo in senso burocratico, statalista e collettivista delle teorie comuniste. Inutile dire che il segretario socialista concordi perfettamente con quella tesi che vede realizzato nell’URSS il modello totalitario collettivista burocratico.

Possiamo chiudere questa parentesi rilevando che, se da una parte il “Vangelo ….” ci illumina sulle conseguenze teoriche comportate dall’ accettazione delle tesi del ‘collettivismo burocratico’, dall’altra ci testimonia il profondo grado di rottura operato nel campo della sinistra dall’accettazione o dal rifiuto del modello sovietico e per converso dall’accettazione o dal rifiuto della teoria del ‘collettivismo burocratico’.

Questo sguardo sul futuro c’è servito, oltre che per testimoniare la continuità di una certa corrente ideologica nel campo socialista, anche per renderci conto del profondo grado di quella rottura che investe tutta una concezione del socialismo. Ora svisceriamo anche il problema cui avevamo accennato nelle prime righe di queste conclusioni: il giudizio espresso a proposito del sistema sovietico sottendeva una precisa concezione del socialismo che operava come elemento differenziatore nei confronti delle altre forze della sinistra italiana.

La concezione del socialismo che socialdemocratici e anarchici derivavano dalla critica del modello burocratico sovietico si strutturava sulla base dei seguenti elementi:

1 – Rifiuto della statizzazione dei settori industriali, in quanto mezzo attraverso il quale la burocrazia fonda il suo potere, impadronendosi in modo collettivo dei mezzi di produzione e teorizzazione, per converso, dell’autogestione delle fabbriche da parte degli stessi operai.

2 – Rifiuto della pianificazione dell’economia in quanto strumento della burocrazia per indirizzare la produzione secondo i propri interessi di classe e rivalutazione al contempo dal mercato.

3 – Rifiuto della concezione della dittatura proletaria statale, in quanto puro mascheramento della dittatura totalitaria della nuova classe dominante e difesa strenua della libertà e dell’autonomia e della società civile contro lo strapotere dello Stato.

4 – Difesa del pluralismo politico come garanzia contro l’affermarsi del totalitarismo.

Questa, in poche parole, la via al socialismo che i socialdemocratici indicarono come obiettivo del movimento operaio in drastica opposizione al modello sovietico.

Veniamo ora alle problematiche sollevate dalla scissione socialista del 1947. Le forze socialiste democratiche avevano, a mio parere, tutti i diritti di chiedere al partito socialista un chiaro pronunciamento e, ovviamente, un drastico rifiuto del modello sovietico, oltre alla denuncia di questo come stato sfruttatore totalitario e burocratico.

Giustamente ritenevano essenziale, al fine della loro permanenza nel partito, la denuncia da parte di questo di un modello che, anziché essere foriero di socialismo, lo era solo di barbarie e di sfruttamento bestiale dei lavoratori. Non possono coesistere infatti in un solo partito tendenze e forze che spingano in direzioni diverse, non su questioni di tattica contingente (cosa che sarebbe del tutto compatibile), ma su questioni teoriche decisive, su una questione ideologica fondamentale per un partito socialista: la concezione del socialismo stesso. Da un punto di vista teorico e ideologico la scissione era più che motivata e tutta interna ad un filone di pensiero socialista cui pure Craxi si richiamerà. Assurdo sarebbe quindi definire la scissione socialdemocratica legata solo a pressioni della destra nazionale e internazionale; non si coglierebbe in questo modo l’elemento determinante rappresentato dall’influenza di quel filone di pensiero antitotalitario e libertario, interno al movimento operaio, che formulò alcune tesi fondamentali di quella teoria del ‘collettivismo burocratico’ che assunse la funzione di spartiacque tra le opposte concezioni del socialismo.

V’era inoltre un’altra questione sulla quale i socialdemocratici non intendevano soprassedere: i rapporti con il Partito comunista italiano. Essi consideravano il PCI alla stregua di un figlio naturale del regime totalitario burocratico sovietico. Il rifiuto della politica di ‘unità d’azione’ (che allora legava i due partiti, socialista e comunista) diventava anch’essa una richiesta fondamentale per la loro permanenza nel partito.

Due erano quindi i problemi sollevati dal socialdemocratici in relazione al giudizio da loro espresso sul sistema sociale sovietico: rifiuto e critica di quel sistema e rottura dei rapporti con il partito comunista. Su entrambe le questioni, a mio parere, i socialdemocratici avevano ragione.

Sono infatti convinto che il sistema sociale sovietico sia effettivamente un sistema totalitario e burocratico in opposizione decisa al modello socialista.

Concordo quindi decisamente con la teoria di Rizzi, degli anarchici e dei socialdemocratici, anche se non ritengo rispondenti al vero due elementi di quella teoria: la somiglianza che essa postula tra il sistema sovietico e quello feudale e l’analogia che instaura tra quello e i regimi nazifascisti.

Sono pure convinto che il PCI fosse allora troppo strettamente legato all’Unione Sovietica ed alla politica moscovita antisocialista. Cosa di cui ci occuperemo in seguito.

Il partito socialista non modificò in nulla la propria linea politica, tenne conto delle critiche socialdemocratiche, rendendo così inevitabile la scissione.

Il Psi continuò infatti a definire lo stato sovietico uno stato socialista dimostrando di non condividere per nulla sia la critica socialdemocratica sia la sua conseguente concezione del socialismo.

La maggioranza gli articoli degli scrittori socialisti era infatti concorde nel definire l’Unione Sovietica uno stato socialista di cui venivano esaltate le strutture economiche e venivano, anche se in modo benevolo e fraterno, criticate alcune imperfezioni specialmente nel campo della democrazia, dell’eguaglianza sociale e della politica estera.

Alcuni articolisti, tra cui spicca Riccardo Lombardi , pur concordando sulla definizione di Stato socialista riferito all’URSS, ne criticavano alcuni aspetti definiti statalistici, burocratici e nazionalistici, imperfezioni che erano considerate conseguenze della mancata rivoluzione proletaria mondiale che costrinse l’URSS a rafforzare i poteri dello Stato e produsse una certa burocratizzazione della vita politico-sociale del paese. Se queste imperfezioni, prodotto di circostanze storiche sfavorevoli, avevano impedito, secondo il pensiero socialista, all’URSS di essere la guida politica nell’immediato del movimento operaio internazionale in quanto la sua politica estera era caratterizzata più dagli interessi nazionali o nazionalistici che non dall’internazionalismo proletario, ciò non toglie che nel futuro queste imperfezioni avrebbero potuto essere superate facilmente a seguito di una rivoluzione socialista mondiale che avrebbe tolto l’URSS dallo stato di isolamento nel quale fino a quel momento era stata confinata.

I socialisti criticarono pure il modello sovietico per le diseguaglianze economiche ravvisate senza per questo modificare il loro giudizio circa il suo carattere socialista.

D’altro canto, invece, esaltarono a piena voce la struttura economica del nuovo regime, basata sulla nazionalizzazione dei mezzi di produzione e sulla pianificazione economica. Con queste misure economiche, secondo i socialisti, i bolscevichi operarono un superamento della forma capitalistica privata della proprietà, liberando il proletariato dello sfruttamento, schiudendo una nuova era della storia: l’era della conciliazione tra gli interessi del lavoro e quelli della produzione.

A loro parere infatti l’operaio sovietico, ormai parte integrante del processo produttivo, non più semplice meccanismo inerte interviene direttamente a determinare le scelte economiche operate attraverso la pianificazione e dedica, di conseguenza, maggiori energie nell’impegno per la produzione.

Difesa quindi ed elogio dello Stato socialista sovietico per quanto riguarda la sua struttura economica, critica di alcune imperfezioni rilevate nel campo sovrastrutturale: questa in una formulazione schematica, la posizione dei socialisti del periodo.

Abbiamo detto che, se pur pallidamente, la teoria socialista riecheggia a questo proposito alcune tesi trotzkiste sulla natura dell’URSS. Questi sono gli elementi che le due teorie hanno in comune:

1 – L’individuazione della causa del sorgere degli elementi burocratici e nazionalistici riscontrabili nell’esperienza sovietica nel mancato avvento della rivoluzione proletaria internazionale.

2 – Il rifiuto conseguente di considerare la politica dell’URSS come un fattore di guida per l’azione del movimento proletario internazionale.

3 – La denuncia del carattere frenante che una stretta subordinazione alla politica moscovita avrebbe comportato per la causa del socialismo mondiale.

4 – L’affermazione che solo grazie ad una vittoria internazionale del socialismo l’URSS avrebbe potuto superare quei limiti (di statalismo, burocratismo, nazionalismo) che ancora oscuravano la sua politica.

5 – La critica della sopravvivenza di una diseguaglianza nel settore della distribuzione dei beni economici, per cui al di sopra della massa del popolo lavoratore si eleva un ristretto numero di persone che gode di benefici e di un benessere sconosciuti al resto della popolazione.

Non bisogna tuttavia esagerare molto il peso esercitato da questa influenza (neppure lontanamente paragonabile agli effetti che segnò l’influenza del pensiero anarchico su quello socialdemocratico), come ho sottolineato nelle pagine precedenti.

Se da una parte non la si deve sopravvalutare, dall’altra non la si deve neppure sminuire, in quanto la presenza di elementi di critica del sistema sovietico nel pensiero socialista (che personalmente ritengo di derivazione trotskista) costituisce un importante elemento di differenziazione di questa forza politica nei confronti dei comunisti. Ma analizziamo con ordine due problemi che ci si pongono a questo punto: i rapporti con i socialdemocratici e quelli con i comunisti. I socialisti ritenevano, e a mio parere con argomenti validi molto importanti, di mettere in guardia il proletariato contro il pericolo rappresentato per la causa del socialismo dalla fiducia nel modello sovietico. Secondo loro, solo attraverso il rifiuto e la critica costante di tutti gli aspetti del totalitarismo sovietico (sia economici – pianificazione e nazionalizzazione – che politici) si poteva evitare di indirizzare la lotta del proletariato anziché verso il socialismo verso un nuovo e mostruoso sistema di oppressione e di sfruttamento del lavoro. I socialisti non condivisero questa visione drammatica dell’ esperienza russa, le contrapposero una concezione del socialismo che salvava ed elogiava proprio quegli aspetti che, per i teorici del ‘collettivismo burocratico’, rappresentavano le basi economiche su cui si fondava il potere della nuova classe burocratica: la nazionalizzazione dei mezzi di produzione e la loro gestione attraverso un piano che controllasse tutti gli aspetti della stessa. Non solo, i socialisti continuarono a definire socialista un’esperienza che per gli altri rappresentava un brutale sistema classista di sfruttamento, peggiore di quello capitalista e regressivo dal punto di vista storico.

Logicamente si poneva e si pose concretamente di fatto il problema di una scissione. E, continuo a ripeterlo, sotto questa luce, da questo punto di vista, l’atteggiamento dei socialdemocratici frazionisti si colloca l’interno del filone di pensiero socialista libertario.

Con questo non voglio però assolutamente difendere le successive scelte politiche che i socialdemocratici operarono nelle vicende della politica interna italiana, ma giustificare semplicemente la correttezza e la coerenza ideologica del loro comportamento nel 1947.

Questa tesi del carattere ‘di sinistra’ della scissione socialdemocratica è confermata pure dall’adesione al nuovo partito di correnti socialiste che, come quella di Iniziativa socialista, non potevano certo essere accusate di mire reazionarie e conservatrici.

Se da una parte il giudizio sostanzialmente favorevole espresso dai socialisti sull’esperienza bolscevica lacerò verticalmente il partito socialista in due frazioni contrastanti, dall’altra la critica mossa ad alcuni aspetti sovrastrutturali del modello sovietico contribuirono a differenziare il PSI dal PCI . Questo fatto ci testimonia ancor di più come il giudizio che i vari partiti della sinistra espressero sull’URSS negli anni immediatamente seguenti la caduta del fascismo avesse assunto un’importantissima funzione di spartiacque, di catalizzatore dei processi di avvicinamento o di separazione tra le varie forze politiche della sinistra italiana. I socialisti, infatti, difesero il proprio diritto all’autonomia politica ed organizzativa (nel momento in cui i comunisti si davano maggiormente da fare per accelerare le tappe di un’unificazione tra le due forze politiche e nel momento in cui queste erano legate tra loro dal patto di Unità d’azione), portando come motivazione e giustificazione teorica la differente concezione del socialismo che risultava dal diverso il giudizio espresso sul modello sovietico dai due partiti. Viene affermato testualmente in un articolo dell’Avanti! del 1948 che “il punto che diversifica i socialisti dai comunisti (è l’accordo) su taluni dei successivi sviluppi non della rivoluzione russa, ma dello stato che da quella rivoluzione è nato”.

Ecco affermato dallo stesso quotidiano del partito ciò che noi intendiamo mostrare: che le critiche di burocratismo, di statalismo, di nazionalismo e di ‘diseguaglianza nel campo distributivo’ che i socialisti rivolsero all’URSS servirono teoricamente a giustificare la loro autonomia politica dal PCI, in quanto il tipo di socialismo da loro predicato, rifiutando alcune caratteristiche del modello sovietico, si differenziava da quello comunista, strenuo difensore di questo.

Possiamo quindi concludere a proposito dei socialisti che la pallida ripresa da parte di questi di tematiche del trotskismo contribuì a giustificare la necessità di una loro autonomia dal PCI pure all’interno di una lotta comune condotta sulla base dell’accordo di Unità d’azione prima e del Fronte Popolare poi.

I comunisti si caratterizzarono infatti per una difesa ed un’esaltazione di tutti gli aspetti del sistema sovietico, dalla collettivizzazione agricola alla pianificazione, dall’industrializzazione al funzionamento interno del partito, eccetera.

La teoria comunista sull’URSS si caratterizza per un’affermazione ricorrente e costante: l’aumento della produttività sia industriale che agricola è la testimonianza pratica dello sviluppo delle forze produttive operato dal nuovo regime che in questo senso si dimostra superiore a tutti gli altri sistemi economici storicamente esistiti e prova così inconfutabilmente il suo carattere socialista e progressivo.

A questa affermazione basilare è legata la teoria comunista: poiché il potere in uno stato socialista è detenuto dal proletariato, lo sviluppo delle forze produttive e l’aumento conseguente della produttività del lavoro andrà a tutto beneficio della popolazione che vedrà migliorare il proprio livello di vita e godrà di un benessere materiale sconosciuto nelle altre parti del mondo capitalista.

Anche nelle campagne il contadino beneficiò di quei progressi e del migliorato tenore di vita a seguito della collettivizzazione agricola che permise, inquadrando l’agricoltura nel sistema industriale sovietico, un poderoso sviluppo della sua produttività.

Il sistema economico socialista è inoltre immune dalle crisi che travagliano il campo capitalista in quanto la pianificazione economica, eliminando l’anarchia del mercato, ne avrebbe eliminato al tempo stesso le cause.

La propaganda comunista non si limitò solo ad elogiare le nuove forme economiche scaturite dalla rivoluzione, ma si lanciò anche nell’esaltazione di quella che viene definita la ‘massima democrazia’ del sistema sovietico. Massima democrazia che pervade tutti gli aspetti e tutte le istanze della società sovietica: il partito, caratterizzato dai meccanismi della critica e dell’ autocritica, dall’eleggibilità e dal controllo dell’istanza superiore da parte di quella inferiore, la pianificazione economica realizzata con il concorso attivo delle grandi masse lavoratrici, i sindacati, veri organi indipendenti e creatori del nuovo sistema sociale oltre che difensori degli interessi storici ed immediati della classe operaia, la vita culturale e il sistema scolastico che permette a tutti, senza distinzione di origini sociali, il pieno sviluppo delle proprie doti e capacità, eccetera.

Questo schematicamente il ‘mito sovietico’ o il ‘paradiso sovietico’ che i comunisti esaltarono sulle pagine delle loro riviste. Quanto poco veritiera ed attendibile fosse questa magnificazione dello Stato bolscevico abbiamo abbondantemente dimostrato nelle pagine dedicate alla critica delle loro teorie. Rimandando quindi a quella sezione, voglio però richiamare sinteticamente alcune osservazioni centrali:

1 – Lo sviluppo delle forze produttive nel paese, contrariamente alle loro dichiarazioni, costituisce un fatto del tutto opinabile anziché indubitabile. Se infatti da una parte è evidente nel settore dell’industria primaria, manca completamente in quello dell’industria leggera dei beni di consumo, compressa decisamente e continuamente dalle scelte dei pianificatori. La forza lavoro, risorsa produttiva per eccellenza, ha sperimentato i fili spinati, le coazioni, le imposizioni e non si può quindi affermare che abbia conosciuto un libero e notevole sviluppo.

2 – Le ragioni della compressione dell’industria leggera non sono temporanee o già superate dalle scelte della politica economica recente dal governo sovietico come affermano i comunisti, ma costituiscono la caratteristica strutturale ed ineliminabile del sistema burocratico pianificato sovietico come abbiamo ampiamente dimostrato riprendendo gli argomenti dei teorici, passati e presenti, del ‘collettivismo burocratico’. Fatto che smentisce tra l’altro la tesi comunista che afferma come lo sviluppo delle forze produttive abbia permesso un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione.

3 – L’affermazione che, attraverso la pianificazione, fossero state eliminate del tutto le cause determinanti le crisi economiche è anch’essa, a mio parere, falsa in quanto le crisi, pur non seguendo più i meccanismi del mercato, si producono egualmente. Le cause principali di esse vanno ricercate, per il settore agricolo, nel rifiuto del contadino di prestare il proprio impegno lavorativo nella cura dei terreni comuni del kolchoz, cosa che genera gravissime disfunzioni nel meccanismo statale di approvvigionamento dei prodotti agricoli (esemplare fu la crisi del ‘34 – ’35), per il settore industriale nella bassa produttività dell’economia industriale sovietica e nella cattiva qualità dei suoi prodotti, guasti provocati dalla pianificazione burocratica che tendono a dare vita a una specie di circolo vizioso.

Infine l’affermazione che tutte le istanze della società sovietica siano caratterizzate da una massima democrazia è quanto mai falsa: il gruppo di potere nel partito si è affermato tramite la pratica dell’eliminazione fisica del dissenso, i sindacati furono manipolati, epurati secondo le esigenze del potere e non certo secondo la volontà dei lavoratori, eccetera. La falsità e l’inattendibilità della teoria comunista sull’URSS è provata pure, recentemente, dagli stessi scrittori comunisti: emblematica e raccapricciante a questo proposito la confessione che Paolo Robotti ha rilasciato in un’intervista al “Corriere della Sera illustrato”.

Da questa intervista risulterebbe che Robotti sperimentò la democrazia sovietica, della quale poi fu cantore in Italia, addirittura nelle carceri dove fu anche sottoposto alle torture della polizia segreta – la NKVD.

Ho voluto richiamare tutti questi temi per riallacciarmi al filo del discorso interrotto in precedenza e riguardante il problema del legame del PCI con Mosca, denunciato dai socialdemocratici come un ulteriore elemento che imponeva il distacco tra socialisti e comunisti.

Mi sembra che la scissione socialdemocratica fosse pienamente giustificata: i comunisti vollero creare un mito russo, facendo violenza ai fatti e mistificando la realtà, proprio in dipendenza del loro legame con Mosca.

L’esaltazione del bolscevismo da parte comunista fu, a mio parere, solo in parte dovuta a motivi di propaganda esterna al partito, in parte fu anche una mossa necessaria del gruppo dirigente comunista per conservare la leadership all’interno del partito stesso.

Questo gruppo dirigente infatti era legato a Mosca da vari motivi: in primo luogo dal fatto di dovere, almeno in parte, all’appoggio sovietico l’esito vittorioso della lotta che condusse al suo interno nel 1924-26 contro l’allora dirigenza bordighista, in secondo luogo dal fatto che si rese complice in tutto e per tutto dalla politica stalinista, dall’eliminazione dei trotzkisti alla lotta contro gli anarchici e i Poumisti in Spagna, dall’ apologia dei processi di Mosca del ‘36 alla svolta di Salerno del 1944, eccetera. La critica del modello e della politica bolscevica avrebbe, se non proprio fatto vacillare, almeno messo in discussione quella élite dirigente: l’esaltazione sfrenata starebbe dunque a dimostrare l’effettivo e stretto legame del PCI con Mosca (di un legame ben diverso da una semplice affinità ideale).

La richiesta del distacco tra socialisti e comunisti, accusati di stretti legami con Mosca, con un regime da loro giudicato sfruttatore ed oppressivo, niente affatto socialista, era, dal punto di vista socialdemocratico, coerente e ineccepibile. Anche per questo motivo la scissione socialista del 1947 si rese inevitabile.

Riassumendo perciò: i socialdemocratici, facendo proprio il modello che definiva la Russia un paese caratterizzato dal ‘collettivismo burocratico’ e considerando il PCI un partito ad esso intimamente legato, pose due condizioni al PSI per garantire la loro permanenza nel partito: la denuncia del modello sovietico e la rottura con i comunisti. I socialisti resero inevitabile la scissione poiché respinsero in toto queste richieste, seguitando a definire socialista l’Unione sovietica ed a collaborare con i comunisti. Da questi, che esaltavano in modo sfrenato ed acritico il regime bolscevico, i socialisti si differenziarono per la critica che mossero ad alcuni aspetti sovrastrutturali del regime stesso, riprendendo, seppur pallidamente, alcune tesi tipiche del trotskismo. Questa loro critica costituì un elemento fondamentale che giustificava la loro esistenza autonoma, politicamente ed organizzativamente, dal PCI.

PARTE SECONDA

BORDIGHISTI TROTSKISTI

Vita tutto sommato a parte condussero queste due forze politiche dell’estrema sinistra italiana e le loro teorie sulla natura sociale dell’URSS non incisero in profondità sul restante campo della sinistra, né provocarono uno spostamento di forze o ripensamenti di linee politiche. Il fatto di essere state confinate in un angolo nel periodo da noi esaminato non è però segno di superficialità o di debolezza teorica. Tant’è vero che la teoria bordighista del ‘capitalismo di Stato’ ebbe una fortuna storica notevole a livello internazionale ed anche nazionale.

I bordighisti sostennero che l’URSS, paese non più socialista, era da considerarsi un regime capitalistico dove ai capitalisti privati si era sostituito lo stato: capitalismo di Stato dunque.

La tesi dei bordighisti si basa su un fatto preciso: l’esistenza e la permanenza nell’economia sovietica del fattore fondamentale, basilare del capitalismo, il mercato. È proprio attraverso il funzionamento dei meccanismi di mercato che il capitalista realizza il profitto, profitto che è reso possibile solo dallo sfruttamento del lavoro umano, cioè dall’estorsione di una quantità di valore lavoro non pagato che, alla fine dei processi di compravendita mercantili, si trasforma nel profitto capitalistico.

I bordighisti sostengono quindi che non è sufficiente aver pianificato e nazionalizzato l’economia; se in Russia funzionano ancora i meccanismi di mercato nel settore della distribuzione, il capitalismo non è affatto vinto o superato. Non ha a questo punto importanza il fatto che il profitto venga incamerato dallo stato anziché dei singoli capitalisti privati. Ciò per cui si critica l’economia capitalistica non è infatti l’enorme consumo od accumulo di ricchezze da parte del capitalista privato, ma il fatto di orientare tutta la produzione in vista del profitto di mercato anziché del prodotto sociale.

Il fatto quindi che sia lo stato di incamerare i profitti mercantili modifica solamente la forma del capitalismo ma non la sua sostanza: da privato diventa statale.

Se è lo scopo del profitto, anziché quello di soddisfare i bisogni sociali più larghi della popolazione, ad orientare la produzione sovietica, allora i mali tipici del capitalismo non saranno affatto scomparsi: le crisi, la disoccupazione si ripresenteranno inevitabilmente causando il guasto più grave addebitato al capitalismo: la distruzione di ingenti forze produttive.

Se esiste capitalismo in Russia, esisterà pure la classe borghese sfruttatrice: essa è rappresentata dalla classe internazionale dei capitalisti e dall’oligarchie interna dominante. Infine, secondo i bordighisti, il fatto che in Russia lo sviluppo del capitalismo avesse imboccato la strada statale anziché privata fu conseguenza del fatto che a livello mondiale il grande monopolio si fosse sempre più affermato a tutto sfavore della libera iniziativa del singolo capitalista. Questo, molto sinteticamente, il pensiero della sinistra comunista italiana esposto molto lucidamente sulla loro rivista, “Prometeo”. A mio modo di vedere, però, questa definizione non coglie nel segno la vera natura dell’Unione Sovietica. Per questo avevo riportato nelle pagine successive all’esposizione del loro pensiero una serie di critiche basate sugli argomenti sviluppati dei teorici del ‘collettivismo burocratico’. Richiamo molto sinteticamente quelle critiche al fine di intrecciare in modo più coerente possibile il filo del discorso che regge le pagine precedenti.

1 – Un mercato vero e proprio non esiste nell’Unione Sovietica. Tutti gli scambi presunti mercantili (tra industria e industria, tra kolkhoz e stato, tra consumatori e stato) sono solo dei simulacri di questi, in realtà si tratta di puri e semplici trasferimenti e non di scambi mercantili.

2 – Inesistenza del mercato del lavoro e di conseguenza di un salario. L’impossibilità per il lavoratore di abbandonare il
proprio posto di lavoro, la fissazione delle retribuzioni da parte di una commissione pianificatrice anziché dal meccanismo della domanda dell’offerta, eccetera, sono tutti elementi che giustificano l’asserzione.

3 – Inesistenza del profitto. Segue necessariamente, come conseguenza del primo punto. Se non esiste un mercato non esiste neppure un profitto e, se l’estorsione di forza lavoro ha tuttavia luogo nel regime economico di sfruttamento sovietico, questa si convertirà alla fine del ciclo in un plus prodotto anziché in un profitto.

4 – Distruzione delle forze produttive. Se questa distruzione avviene, segue però dei meccanismi e delle vie totalmente differenti da quelle tipiche di un’economia mercantile.

Come ci si sarà resi conto, ho orientato questo studio sulla base della mia convinzione personale che la teoria del ‘collettivismo burocratico’ sia quella che più si avvicina alla comprensione del modello sovietico. Con questo però non ho voluto in alcun modo sminuire le altre teorie che nel corso degli anni successivi hanno ricevuto adesioni e riconoscimenti notevoli, come esempio quella del ‘capitalismo di stato’.

Il riconoscimento più importante, anche per l’influenza che ha esercitato in campo nazionale, è venuto dal Partito Comunista Cinese che, a partire dal 1967-68, ha orientato il proprio giudizio sul modello sovietico nel senso indicato da questa teoria. Questo influì, dicevo, su moltissimi gruppi dell’allora Sinistra rivoluzionaria (soprattutto sulle formazioni marxiste-leniniste che più direttamente si richiamavano alla politica dei comunisti cinesi) che fecero proprie le analisi cinesi sull’URSS, denunciandone il carattere capitalista. Ma le adesioni non si fermano qui, molti furono anche gli intellettuali che ne riconobbero la validità: Bettelheim e Sweezy tra i più noti.

L’ultimo polo, infine, del dibattito di quegli anni è rappresentato dalla tesi trozkista dello ‘stato operaio degenerato’.

Questa teoria, che riprende integralmente le tesi espresse da Trotzky , specialmente nel suo libro “La Rivoluzione tradita”, sostiene che in Urss la casta burocratica espropriò politicamente ed economicamente il proletariato, privandolo dei suoi diritti e sfruttandolo brutalmente.

L’evento che favorì la presa del potere da parte di questa casta burocratica fu il fallimento della rivoluzione nei paesi industrialmente avanzati dell’Occidente, fatto che abbandonò la Russia postrivoluzionaria alla povertà dei suoi mezzi e all’arretratezza del suo sviluppo economico. La mancanza di beni economici disponibili costrinse il governo ad adottare criteri di ripartizione borghesi e non socialisti, fatto che favorì la nascita di una casta privilegiata, la burocrazia, che si appropriò della maggior parte delle ricchezze esistenti e di quelle prodotte.

Col passare del tempo questa casta divenne sempre più potente ed espropriò sia politicamente che economicamente i poteri del proletariato, senza però alterare la nuova forma proletaria della proprietà, statale e non più privata, introdotta dalla Rivoluzione d’Ottobre.

Questa casta burocratica non costituisce una classe in senso marxista in quanto non detiene la proprietà dei mezzi di produzione, né può trasmetterli in eredità ai suoi discendenti.

La burocrazia, inoltre, per difendere ed ampliare lo stato russo, sulla base del quale essa prospera, ha elaborato la teoria del ‘socialismo in un solo paese’ al fine di asservire ai propri fini il movimento proletario internazionale, distogliendo in questo modo le forze dell’obiettivo della rivoluzione socialista.

Quindi, concludono i trotskisti, compito del movimento proletario internazionale e russo in particolare sarà quello, da una parte di difendere l’URSS dagli attacchi capitalistici poiché in quel modo si difende pure il nuovo assetto economico proletario introdotto dalla Rivoluzione di Ottobre e lasciato immutato dalla casta burocratica, dall’altra di operare una rivoluzione politica che spezzi il potere burocratico sostituendolo con la democrazia operaia e la dittatura proletaria.

Questa, sinteticamente, la concezione trotskista che riprende in toto le tesi del maestro. Tesi che vengono considerate un importante contributo apportato dal trotskismo alla teoria marxista leninista, la cui accettazione è una delle basi di adesione al movimento stesso.

Per quanto riguarda invece l’influenza che esercitò sul pensiero socialista nel periodo da noi analizzato abbiamo già parlato in precedenza.