CONTINUITA’ E SVILUPPI DEL PENSIERO SOCIALDEMOCRATICO SULL’UNIONE SOVIETICA

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI FILOSOFIA

“Il  dibattito sulla natura sociale dell’Unione Sovietica  all’interno della Sinistra Italiana (1943 – 1948)”

RELATORE: ch.mo Prof. GIORGIO GALLI

Tesi di laurea di: Massimo Ferrè Matr. n. 129343

ANNO ACCADEMICO 1978-1979

 

PARTE PRIMA

I SOCIALDEMOCRATICI E LA TEORIA DEL COLLETTIVISMO BUROCRATICO

Continuità e sviluppi del pensiero socialdemocratico sull’Unione Sovietica

La teoria del totalitarismo statale burocratico che, secondo la nostra esposizione, sorregge quasi tutti i giudizi e le argomentazioni degli articolisti socialdemocratici a proposito dell’Urss, rappresenta una teoria tutto sommato nuova in quel campo di pensiero.

Questa teoria, come si è detto, fa la sua comparsa negli anni ‘40 specie negli articoli di Giuseppe Saragat sul giornale del Psi all’estero, il Nuovo Avanti. Questa teoria fu poi approfondita e riferita a tutti gli aspetti della vita politica, sociale ed economica dello Stato sovietico con dovizia di articoli e con analisi sistematiche negli anni ‘45 – ’48. Si può così affermare che alla fine degli anni ‘40 il modello di definizione del sistema sovietico accettato dai socialdemocratici fosse quello del totalitarismo statale burocratico.

È indubbio che questa teoria rappresentasse un elemento di novità nel settore socialdemocratico; fino ad allora, infatti, la teorizzazione della nascita di un nuovo tipo di società sfruttatrice a livello mondiale, diversa da quella capitalistica, e di una nuova classe dominante, diversa da quella borgese, non aveva ancora sfiorato quella parte del pensiero socialista riformista che costituirà la base ideologica teorica del futuro partito socialdemocratico.

Non ci si era cioè ancora sganciati da quello schema della dogmatica marxista che voleva affermato il socialismo non appena la società capitalista fosse stata abbattuta e che non ammetteva altra società sfruttatrice moderna se non quella capitalista ed altra classe dominante se non quella borghese. Basti pensare alla produzione teorica degli anni ‘20 quando, dalla constatazione dell’impossibilità della costruzione del socialismo in un paese arretrato come la Russia zarista, se ne deduceva l’inevitabilità dello sviluppo capitalistico del paese. Inevitabile secondo la teoria marxista che sosteneva appunto la nascita del socialismo nel mondo solo dopo che il capitalismo avesse raggiunto l’apice del proprio sviluppo, dopo che avesse portato la società a uno sviluppo tale delle forze produttive che il perdurare del modo di appropriazione individuale del plusvalore avrebbe condotto ad una distruzione sistematica delle forze produttive stesse. Era l’automatismo economico di tale concezione del mondo che escludeva il passaggio da una società semifeudale, qual era quella russa, a una di tipo socialista, saltando la fase inevitabile e necessaria del capitalismo.

E’ questa la tesi di fondo di Rodolfo Mondolfo esposta nel suo libro del 1922 “Significato insegnamento della rivoluzione russa” (153), che sostiene da una parte la necessità storica della rivoluzione bolscevica al fine di spezzare le catene dello sfruttamento feudale e di distruggere quella borghesia strettamente imparentata e fusa con la classe nobiliare feudale , incapace di un’azione politica ed economica autonoma, dall’altra l’inevitabilità dello sviluppo della Russia in senso capitalista. Per Mondolfo i bolscevichi credettero di essere gli artefici dello sviluppo storico, quando in realtà non furono che gli strumenti della sua evoluzione.

I contadini, sostiene ancora Mondolfo, da loro scatenati alla conquista delle terre non avrebbero accettato la socializzazione delle terre stesse, ma imposto al contrario al governo bolscevico il fatto compiuto della proprietà individuale nelle campagne. Fatto che si realizza puntualmente nel 1921 quando il governo sovietico, per salvare il paese dalla catastrofe economica, fu costretto a fare delle fondamentali concessioni ai contadini: possesso privato delle terre, dei prodotti agricoli e libero mercato degli stessi. Fu costretto cioè ad adottare delle misure capitalistiche in piena contraddizione con gli ideali socialisti e comunisti che fondavano la sua dottrina. Afferma infatti Mondolfo:

“E quando alle condizioni politiche non corrispondono, entro lo stesso popolo e lo stesso paese, le condizioni economiche, quando anzi le forze di produzione tendono a svilupparsi in direzione

contraria e a sistemarsi in forme antitetiche alle forme politiche che ad esse vogliano sovrapporsi ed imporsi, la lotta fra economia e politica si decide sempre in favore della prima …. Dove mancano la possibilità e le condizioni per una produzione e distribuzione sociale per i bisogni sociali, si resta immancabilmente nel dominio della merce. Inutili gli scongiuri, le maledizioni e le violenze per scacciare il demone che riappare sempre da ogni parte: non resta che riconoscerne l’impero ed assoggettarvisi …. Dominando economicamente la vita della Russia nuova, questa classe, i contadini, doveva ben finire (anche sotto la maschera delle opposte apparenze di un dominio politico del proletariato urbano) per imprimere alla direzione dello Stato la direzione imposta dai suoi incoercibile interessi di classe. Nel senso che si conferma l’essenza della Rivoluzione russa che, sotto l’ingannevole apparenza di una rivoluzione comunista sboccante nella dittatura del proletariato industriale, è stata invece, nella più profonda e salda realtà, una ormai irrevocabile rivoluzione agraria borgese costituente la nuova classe dei contadini proprietari a base e nucleo di sviluppo della nuova società.” (154)

Concludendo: dove è impossibile realizzare un’economia fondata sulla “produzione e distribuzione sociale per i bisogni sociali”, situazione che si realizza solamente dopo che la società ha raggiunto il suo più alto sviluppo, si rimane inevitabilmente, secondo Mondolfo, nonostante tutti gli sforzi volontaristici in senso contrario, nel regno della merce, cioè dell’economia capitalistica di sfruttamento. Questa tesi non era proprio del solo Mondolfo, ma accettata dalla generalità del pensiero riformista se lo stesso Claudio Treves, altro maître a pensée del riformismo, nell’introdurre il citato libro di Mondolfo, affermava:

“Il mondo assistette stupefatto all’instaurazione del capitalismo per opera degli stessi uomini e delle stesse forze che si erano illusi e avevano illuso che del comunismo in Russia non c’è che il nome del partito politico prevalente ed una volontà rinnovata di arrivare al comunismo attraverso l’unica via naturale, il capitalismo.” (155)

L’accordo con la tesi di Mondolfo è quindi totale. Elaborata in anni contemporanei al periodo nepiano, il periodo della storia russa nel quale le concessioni ai principi capitalistici furono molto marcate ed evidenti (156), questa teoria poteva conservare la sua validità.

Verso la metà degli anni ‘30, in seguito alle svolte politico-economiche operate dal governo sovietico con la collettivizzazione forzata delle terre e la completa statizzazione e pianificazione dell’economia industriale fu evidente che la via seguita dal governo bolscevico non era certo la via capitalistica, ma una via ben diversa. Furono quelli gli anni in cui nel campo dei dissidenti trotskisti e tra i bordighisti si cominciò a teorizzare per la Russia la nascita di quella particolare forma di capitalismo nota come capitalismo di Stato. Nel campo riformista cominciò ad affermarsi la tesi del totalitarismo statale che si sviluppò completamente a partire dal 1940 con gli articoli che Saragat pubblicava sul Nuovo Avanti. I concetti nuovi introdotti da Saragat nel 1940 furono i due concetti cardine di quella teoria: a) la Russa è un nuovo stato sfruttatore diverso da quello capitalista e non certo socialista, in tutto analogo ai regimi nazifascisti, b) alla vecchia classe capitalistica sfruttatrice se n’è sostituita un’altra, quella burocratica. La novità introdotta non era di poco conto se si pensa che per definire il modello di un determinato sistema politico economico è necessario risolvere due questioni: a) qual è la natura di tale regime, b) qual è la classe dominante. La rottura operata da Saragat nel 1940 e lo sviluppo che ha impresso alla teoria del totalitarismo è tale che lo storico socialista ufficiale, Gaetano Arfè, nel suo libro “Storia dell’Avanti!” (157) osserva a tale proposito:

“Il concetto nuovo che Saragat introduce questa volta nel suo discorso (gli articoli del gennaio 1940) è quello del totalitarismo. Il termine era apparso molte volte negli scritti del Nuovo Avanti, ma non era mai stato oggetto di organica interpretazione, e men che mai era stato visto come il denominatore comune tra fascismo e bolscevismo.” (158)

Non è quindi azzardato affermare che la teoria del totalitarismo burocratico, apparsa per la prima volta nel 1940 nel campo riformista, ebbe un completo sviluppo negli anni ‘45 – 48 e affermare inoltre che essa è, tutto sommato, una novità in quella scuola di pensiero, una novità che corregge e modifica la teorizzazione degli anni ‘20 circa l’evoluzione del paese in senso capitalistico.

Se di novità si tratta, in che senso e in quali elementi è possibile rintracciare quella continuità di pensiero che abbiamo annunciato essere presente nell’ambito della socialdemocrazia? La continuità, a mio parere, esiste ed è anche a volte sottolineata dagli stessi articolisti.

Questa continuità è rappresentata dalla constatazione dell’impossibilità della costruzione del socialismo in un paese arretrato, qual era la Russia del periodo. La Russia arretrata non poteva produrre il socialismo, che si sarebbe realizzato solo quando la società avrebbe raggiunto il massimo grado del suo sviluppo ma qualcosa di ben diverso: il capitalismo, secondo Mondolfo e Treves negli anni ‘20, il totalitarismo burocratico, secondo i socialdemocratici degli anni ‘40. È questa convinzione che dividerà il pensiero socialdemocratico, caratterizzato da un determinismo economico, da quello leninista e comunista caratterizzato al contrario da un volontarismo e attivismo politico.

Le conclusioni circa la arretratezza e la conseguente impossibilità di costruire il socialismo in Russia, che costituiscono il filo rosso delle argomentazioni dei riformisti italiani da Mondolfo a Pagliari e a tutti gli altri furono patrimonio comune di tutto il pensiero socialdemocratico internazionale e non solo italiano, da Kautzkj a Renaudel, da Dan a Czereteli, tutti sostennero questa tesi (159). La continuità nel pensiero socialdemocratico italiano è sottolineata dagli stessi autori. Riporto le osservazioni più importanti. Pagliari, per sottolineare lo stato di arretratezza culturale ed economica degli operai sovietici e per dedurne l’impossibilità di realizzare la democrazia economica e quindi il socialismo in una simile situazione, riporta il pensiero di un membro di una delegazione di lavoratori italiani e inglesi in visita nell’URSS nel 1920, Enrico Colombino (160).

“Si è detto e ripetuto che la Rivoluzione russa ha per caposaldo la dittatura del proletariato. Anche qui si è per lo meno esagerato. La dittatura esiste forse per il bene del proletariato, ma lui proprio questo povero diavolo non c’entra. È persino ironico chiamare dittatori quei poveri diavoli che non mangiano, che lavorano come e dove vogliono gli altri, che non hanno libertà di parola, non libertà di riunione, non libertà di stampa, non libertà di voto. Chi esercita la dittatura è il PC, anzi una frazione di esso e cioè la parte più intelligente, più capace, più coraggiosa. È lo zarismo socialista, perfettamente spiegabile, se non giustificabile, in un paese che ha secoli di schiavitù e di dittatura zarista sulla schiena.

…. Ma teorizzare in materia, creare il nuovo dispotismo, sia pure a tinta socialista, è un affar serio. Tanto più grave quando si vorrebbe portare queste forme come sane teorie in paesi come i nostri, abituati da secoli alla libertà e autocritici per eccellenza.” (161)

Inoltre, Abramovitch, sostenitore convinto della teoria del totalitarismo statale, sostiene:

“La rivoluzione di Lenin era evidentemente una rivoluzione utopistica, nel senso in cui Marx ed Engels usavano questa parola. I bolscevichi presero il potere in un paese in cui l’80% della popolazione era costituita da contadini, in cui le condizioni sociali, economiche, culturali e materiali non erano mature per il governo da parte del proletariato industriale. L’industria moderna era appena i suoi inizi in Russia.” (162)

E, per non citare che gli autori più importanti, Schreider nell’articolo “Forme economiche e costruzione socialista” afferma:

“L’immaturità e l’arretratezza della Russia può essere addotta come fattore particolare che determinò la degenerazione dello Stato sovietico in un regime oligarchico e dittatoriale.”

Come si vede tutti i maggiori pensatori socialdemocratici ripresero la tesi dell’arretratezza come punto di partenza della teoria che nega il termine socialista all’URSS. In sostanza, concludendo, si può affermare che, se il punto di partenza nel 1945-‘48 rimane lo stesso di sempre nel campo socialdemocratico (e in questo senso è possibile rintracciare continuità), lo sviluppo della teoria socialdemocratica negli anni ‘40 modifica sostanzialmente le teorie precedenti riferite al modello sovietico, e in questo senso si deve parlare di rottura o di svolta.

Note:

153 – Rodolfo Mondolfo “Significato e insegnamento della rivoluzione russa” ed. Critica sociale, Mil. 1922.

154 – ibidem pp. 31 – 33 – 36.

155 – ibidem p. 3.

156 – cfr. Carr “La rivoluzione …. Op. cit. pp. 675 segg.

157 – Arfè “Storia del avanti!” op. cit.

158 – ibidem p. 220.

159 – Bisogna però riconoscere che pure Rosa Luxemburg arrivò, nel 1918, a simili constatazioni, anche se le prospettive da lei indicate erano evidentemente diverse.

160 – Enrico Colombo “Tre mesi nella Russia dei soviet” ed. Avanti, Milano 1921.

161 – ibidem p. 142.

162 – Abramovich Dall’utopia …. art. Cit.