di Renato Costanzo Gatti Socialismo XXI Lazio |

 

Scrive il Sole 24 ore:

 “Il problema principale è la carenza di liquidità, ed è stato messo a fuoco ormai da settimane da sigle e associazioni di categoria. L’impressione di autonomi e imprese è che i prestiti garantiti – previsti dal decreto Liquidità (Dl 23/2020) – non possano essere la soluzione. Perché si tratta comunque di nuovo indebitamento cui bisognerà far fronte, sia pure dopo un periodo iniziale di preammortamento. Perché la garanzia implicherà comunque un costo.”

Preciso che il decreto liquidità prevede un finanziamento per un periodo di 6 anni con un preammortamento di 2 anni e con un costo di garanzia crescente durante i sei anni per importi non superiori al 25% del fatturato del 2019 (o al doppio del costo del lavoro sostenuto nel 2019). Praticamente, nel primo caso, il finanziamento è pari al fatturato di un trimestre (il 25% del fatturato dell’anno precedente) per un periodo che presumibilmente può corrispondere al periodo di lockdown.

Il fatturato si documenta con il bilancio approvato per il 2019 o, se questo non è ancora predisposto o approvato, con autocertificazione aziendale.

Tali prestiti (non mi riferisco alla procedura prevista per il Fondo garanzia PMI) sono a scaglioni: un primo scaglione prevede fatturati non superiori a 1,5 miliardi di € con meno di 5.000 dipendenti e la garanzia statale è pari al 90%; il secondo scaglione prevede fatturati tra 1,5 e 5 miliardi e con dipendenti oltre i 5.000 ove la garanzia statale è all’80% ed infine le imprese con fatturato sopra i 5 miliardi con garanzia al 70%. Per godere di tali prestiti le imprese non possono deliberare dividendi nel corso del 2020.

Ora la copertura di un trimestre di fatturato, eventualmente espandibile dalla conversione in legge, mi pare ragionevole nel senso che durante il periodo di lockdown è vero che si è perso il fatturato (non certo per tre mesi) e si sono sostenute le spese fisse, ma non si sono sostenute spese né per i dipendenti, pagati dalla cassa integrazione, né per gli acquisti necessari all’esercizio delle imprese. Se ad esempio una impresa commerciale fatturava nel trimestre 100.000€ ed il costo del venduto era il 70%, più un affitto di 2.500€ al mese e con tre dipendenti con un costo unitario di 3.000€, spendeva nel trimestre 70.000€ di costo merci, 7.500€ di affitto e 9.000€ per i dipendenti per un totale di 86.500€ e quindi un utile lordo di 13.500. Con le disposizioni antivirus l’esercente ha un prestito di 100.000 e una spesa fissa di 7.500€ di affitto (per il quale è previsto addirittura un credito d’imposta) e nessuna altra spesa, con un residuo di 92.500€ con cui pagare interessi e costo della garanzia, e copertura della quota di garanzia non coperta dallo stato.

Ma la Confindustria a trazione Bonomi (quello che ha ribrezzo dell’IRI perché lo stato deve limitarsi a controllare, ma non a gestire) trova che il provvedimento sia inadeguato perché: si tratta comunque di nuovo indebitamento cui bisognerà far fronte, sia pure dopo un periodo iniziale di preammortamento ed inoltre la garanzia implicherà comunque un costo.

L’obiezione testimonia a favore di un non-indebitamento cui fare fronte; tradotto in lingua volgare significa la richiesta di una elargizione a fondo perduto; un regalo, una elemosina molto generosa alla luce del conteggio fatto nel paragrafo precedente.

Sia chiaro, la risposta nostra deve contrastare elargizioni gratuite al capitale che sono forse anche necessarie, ma che in tal caso devono essere elargizioni a fronte di azioni societarie delle imprese beneficiate. Se il mondo del lavoro si fa carico di aiuti alle imprese, ebbene tali aiuti siano investimenti che il mondo del lavoro fa alla luce degli articoli 40 e segg. della Costituzione.

P.S. Il decreto Cura Italia all’art.91 che “la responsabilità del debitore ai sensi dell’art. 1218 c.c. per la quale il D.L. prevede il rispetto delle misure di contenimento da Covid 19 è sempre valutata ai fini dell’esclusione della responsabilità del debitore anche ai fini dell’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.

Si può leggere come non imputabilità del debitore inadempiente per “forza maggiore”.