RINASCITA DI UN PARTITO «I SOCIALISTI FRANCESI 1971 – 1975»

di Marco D’Eramo |

Nel 1969 Gaston Defferre, uno dei leader del partito socialista francese si presentò come candidato alle elezioni presidenziali. Il generale De Gaulle si era dimesso, battuto dal maggio ’68 e dal referendum sul senato e sulle regioni della primavera ’69. Erano in lizza Georges Pompidou, primo ministro, Alain Poher presidente del senato, Jacques Duclos del partito comunista, Gaston Defferre appunto e Michel Rocard del piccolo PSU di estrema sinistra (non comunista).

Defferre ottenne appena il 5% dei voti, poco più di Rocard (3,60%). Era la fine della «vecchia casa», la vieille maison, la SFIO. La fine di 64 anni di storia, di un partito il cui leader era stato Jean Jaurès, antinterventista assassinato da un nazionalista alla vigilia della prima guerra mondiale, di una formazione che nel 1920 aveva vissuto la scissione con i comunisti a Tours. Un partito glorioso per le lotte civili, per il breve ma intenso governo del fronte popolare che in tre settimane aveva fatto più riforme di tutti i governi del mezzo secolo precedente. Ma anche un partito che si era spaccato nella seconda guerra mondiale, che aveva fatto la resistenza e vissuto la guerra fredda, con cui era iniziato il declino della vecchia SFIO (Section Française de l’Internationale Ouvrière), accentuatosi con l’approvazione delle guerre coloniali, d’Indocina e di Algeria, con l’accettazione del colpo di stato gollista del maggio ’68. Dagli anni ’50 il disintegrarsi della SFIO in una miriade di movimenti, gruppi e clubs.

Il 5% di Gaston Defferre fu nel ’69 l’estrema unzione di questa forza ormai sclerotizzata, confinata in un elettoralismo senza successo.

Nel marzo 1976 il partito socialista francese ha raccolto il 27% dei suffragi, ha quintuplicato i propri effettivi, è diventato il primo partito di Francia, è ormai in posizione dominante nel cartello delle sinistre. Per l’opinione pubblica l’ascesa al potere degli uomini di Mitterrand si avvicina. L’età media dei militanti (triplicati) è diminuita, altri volti sono alla testa del partito, le parole d’ordine, l’analisi sociale, la strategia politica, l’ideologia sono irriconoscibili.

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Un partito completamente nuovo allora? No. La continuità esiste in un certo patrimonio ereditato dal passato. Un patrimonio fatto di militanti e dirigenti presenti ancora oggi, di riflessi di pensiero e di abitudini, di comportamenti politici.

È questa dialettica, quest’interazione tra passato e futuro, tra continuità e rottura, è quest’insieme di aspetti assolutamente nuovi e di altri realmente vecchi, che spiega in parte ma rende enigmatico il successo del «nuovo» Partito Socialista. In parte: il contesto è mutato.

Non per nulla la data critica del PS, il 1969, si situa nel declino della V repubblica e del sistema gollista. Come ogni forza nazionalista, autoritaria, legata ai grandi gruppi industriali, il gollismo aveva saputo gestire «il miracolo economico francese» col consenso di una buona parte dei ceti medi, della piccola borghesia, in nome di un generico populismo che confinava la sinistra solo nella frangia politicizzata dell’opinione pubblica.

Nel ’67 le prime avvisaglie (solo cicliche) di recessione economica. Il gollismo, che aveva saputo governare l’espansione, poté rispondere solo «drogando» l’economia in una ripresa forte (dopo il ’68) ma fondata su basi instabili.

Dal ’71 poi, proprio la data della fondazione del nuovo partito socialista (congresso di Epinay-sur Seine), la crisi comincia ad apparire nel marasma monetario, nella diminuzione dei profitti e dividendi delle grandi industrie, nelle misure protezionistiche di vari stati.

Da allora la crisi non ha smesso di amplificarsi, interrotta solo da qualche breve estate di San Martino. Effetti della recessione: una maggiore politicizzazione del popolo francese sottoposto ai problemi eminentemente politici della disoccupazione, del mantenimento del potere d’acquisto. Effetti anche nell’apparato produttivo che ha visto morire una serie di settori industriali tradizionali (la crisi del tessile e in genere dell’abbigliamento, come quella degli elettrodomestici ne è un esempio); che ha visto una concentrazione incredibile che ha spazzato via e minacciato seriamente una larga parte dei piccoli e medi imprenditori; che ha messo sotto fallimento centinaia di migliaia di imprese. Un apparato produttivo infine in cui il controllo diretto da parte degli industriali si è sbriciolato rapidamente a favore degli istituti di credito: il capitale finanziario, attraverso i debiti delle imprese e le sovvenzioni all’investimento, padroneggia le strutture produttive. Ma proprio la non politicizzazione delle masse, i settori arretrati dell’industria, i piccoli e medi imprenditori e il capitale industriale erano le colonne del potere gollista. Da qui la crisi istituzionale, da qui il passaggio dei poteri nel 1974 al capitale finanziario di Giscard d’Estaing. Da qui il nuovo spazio politico a disposizione della sinistra.

Una sinistra in profonda trasformazione. Il pessimismo diffuso negli anni ’60 era stato categoricamente smentito nel maggio ’68 quando gli eventi dimostrarono ai partiti del movimento operaio che in Francia un potenziale umano esisteva, ma che questi partiti non sapevano gestirlo. Si chiariscono allora le profonde trasformazioni avvenute non solo nel partito socialista ma anche nel PCF. Queste trasformazioni hanno lasciato per qualche anno un vuoto soprattutto all’inizio degli anni ’70, quando sono stati i sindacati a fare politica, e soprattutto la seconda centrale francese, la CFDT, ex sindacato cristiano sconfessionalizzato nel 1964 e da allora portabandiera dell’ideologia autogestionaria.

Determinante, anche per i suoi effetti secondari sulla politica e l’economia interna francese, è stato il contesto internazionale. La crisi, innanzitutto, dell’economia statunitense, prodotta dal crescere di nuovi concorrenti come l’Europa e il Giappone e dal divergere degli interessi delle società multinazionali da quelli degli Stati Uniti. Questa crisi, iniziata già nel 1965, si è manifestata – tardi – prima nelle diminuzioni dei profitti cui accennavamo più su e nelle successive svalutazioni del dollaro a partire dal 1971, ed è poi esplosa in un’aspra guerra commerciale scatenata dagli USA sulle materie prime e soprattutto sul petrolio contro i loro concorrenti industrializzati, l’Europa e il Giappone, grandi consumatori di materie prime e di greggio. Gli stati arabi che hanno guidato nel 1973 il rincaro del greggio, dall’Arabia Saudita all’Iran agli Emirati del Golfo, sono infatti completamente dipendenti (sotto il profilo militare, economico e politico) dagli Stati Uniti. Da allora i profitti per le società sono aumentati, la concorrenza europea e giapponese è diminuita, ma la recessione ha avuto altri effetti. Un effetto «perverso» per gli stessi USA e in genere per i paesi industrializzati: l’aumento transitorio del costo delle materie prime ha generato un inizio di industrializzazione nel terzo mondo, accompagnato a sua volta da un rincaro del costo del lavoro e da spinte inflazionistiche interne. Non solo, ma anche da una maggiore forza nei negoziati.

Donde la necessità, per tutti i paesi industrializzati, che traggono vantaggi formidabili dalla remunerazione ineguale del lavoro e degli scambi ineguali, di trattative globali con il terzo mondo (Conferenza Nord-Sud, CÙNCED a Nairobi nel 1976), negoziati in cui gli stati dell’Est adottano le stesse posizioni dei giganti occidentali. Le esigenze della struttura economica hanno così determinato quel processo politico chiamato «la distensione». Non il processo iniziato da Krusciov, concorrenziale, ma la linea Nixon-Breznev.

È sotto il profilo della distensione, che il contesto internazionale ha più influito sulla geografia politica francese. Infatti la guerra commerciale aperta USA-Europa ha messo in crisi le varie ideologie di crescita che erano alla moda dieci anni fa. L’appoggio statunitense alle socialdemocrazie nordiche si fondava in definitiva sull’idea economica che dirigeva il piano Mansholt.

L’idea per cui cioè:

1) sia gli USA che l’Europa traevano un vantaggio sostanziale dalla ricostruzione del potenziale economico europeo;

2) che la classe operaia, mobilitata nei sindacati tradeunionisti o socialdemocratici tedeschi migliorava il proprio livello di vita e riceveva almeno in parte il margine superiore di profitto dovuto allo sviluppo, contrattando la propria partecipazione a quella crescita economica che era utile anche agli USA.

Quando questa convergenza di interessi si è incrinata, proprio perché l’industrializzazione europea è entrata in concorrenza con quella degli Stati Uniti, tutta l’ormai vecchia ideologia della crescita, «i lavoratori profittano dell’aumento del tasso di profitto» in seno alla socialdemocrazia europea, si è sfasciata. Lo testimoniano i successi, anche tra i detentori di capitale, delle teorie di «crescita zero», la voga nel movimento operaio di «un nuovo modello di sviluppo».

Politicamente questa tendenza si sviluppava sia nella più stretta cooperazione USA-URSS, nei negoziati per la spartizione del Terzo Mondo, l’Egitto all’uno, l’Angola all’altro, sia nella situazione originale in cui si trovava l’Europa rispetto agli anni della guerra fredda. La crisi economica e la distensione sono andate infatti di pari passo non lo si è mai ripetuto abbastanza, e quando vi è ripresa (bastano i sintomi) vi è crisi della distensione. I nuovi accordi USA-URSS, le trattative globali con il Terzo Mondo, viste con benevolenza dai paesi dell’Est, hanno posto l’Europa e in particolare i partiti socialisti in una posizione nuova. Scavalcata politicamente, sconfitta economicamente (il caso tedesco va considerato a parte), l’Europa e i partiti filoeuropei hanno vissuto una crisi di coscienza. Un certo declino del Labour Party ne è un sintomo. Ed è questo lo spazio internazionale che si è aperto per una nuova politica dei socialisti francesi, questo lo spazio che ha provocato varie crisi politiche nelle precedenti maggioranze governative europee.

Ecco in breve i varchi che si sono aperti ai socialisti francesi alla fine degli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70. Varchi esteri e brecce interne che non bastavano a produrre meccanicamente un nuovo partito. Per questo ci son voluti la tenacia e il senso politico dei dirigenti; è stata necessaria la maggiore disponibilità militante della base, una stabilità più ferma nelle scelte degli elettori; c’è voluta anche una nuova organizzazione del partito, nuove strutture, nuovi modi di elezione dei dirigenti (la proporzionale). Per sfruttare questa situazione e concretizzare politicamente i mutamenti umani e organizzativi, il PS doveva adottare una nuova linea politica e darsi un corpo ideologico nettamente distinto da quello comunista. Un corpo ideologico che costituisse la linea di separazione con i partiti di destra strettamente elettoralisti e distinto da quello dei comunisti per fondare l’autonomia del PS in seno al movimento operaio e ai ceti medi. Tutto ciò non è apparso in un sol giorno, è emerso col tempo e, se la data ufficiale di fondazione del nuovo PS è il 1971, in realtà il partito socialista francese quale lo vediamo oggi è il risultato di cinque anni di trasformazioni profonde. Ogni nuova campagna elettorale, ogni scontro politico, anche in seno all’alleanza, ha portato nuovi elementi. Ma fondamentalmente gli assi principali del nuovo partito sono nati nei primi due anni.

Innanzitutto la strategia politica. La crisi del gollismo, cioè di quel «fronte unito» della destra che non lasciava nessuno spazio ai socialisti, la distensione e l’incrinarsi della coincidenza di interessi tra USA, partiti europei e classe operaia, impongono un’altra scelta rispetto all’opzione tradizionale di centrosinistra. Questa strategia è l’Unione delle Sinistre, l’alleanza organica in Francia tra Radicali di Sinistra, Partito Socialista e comunisti. Un’alleanza che ha fatto la forza dei socialisti: il loro nome lo dice, non possono avere successo se non pongono il socialismo all’ordine del giorno.

In secondo luogo la linea programmatica. Il nuovo partito socialista, rinato dopo decenni di decadenza si è fatto intorno a un programma di governo. Un partito socialista è per definizione programmatico, pianifica, per lo meno a medio termine, senza lasciarsi disperdere da una congiuntura economica mutevole.

Poi l’analisi sociale: «il fronte di classe». Questo fronte ha permesso al PS di situarsi rispetto ai comunisti francesi e alla loro alleanza antimonopolistica; ma ha anche permesso di attirare vaste frange dei ceti medi: sia i tecnocrati e le professioni liberali che, più genericamente, gli altri salariati del terziario, in cui le lotte sindacali sono state più dure negli ultimi anni (banche, poste…).

Infine un nuovo modello di socialismo, nuovo anche rispetto alle esperienze simili come quella jugoslava o algerina: «il socialismo autogestionario». Questo modello ha il vantaggio di lasciare uno spazio al dibattito fra gli interessi dei vari ceti salariati anche dopo la collettivizzazione dei mezzi di produzione, attira cioè chi tiene al pluralismo anche in una società in cui la produzione è socializzata. Inoltre l’autogestione ha favorito l’integrazione degli ambienti cattolici impegnati che tendono al basismo, affascinati dallo spontaneismo, dalla «santificazione del comitato di quartiere» e a disagio in una terminologia marxista classica. L’autogestione ha così facilitato l’ingresso massiccio dei cristiani in un partito che era stato tradizionalmente laico ed antireligioso. Infine l’idea di un socialismo autogestionario ha condizionato l’esistenza di un fenomeno fondamentale in un paese industrializzato avanzato, cioè a forte componente terziaria e di classi medie: l’elaborazione di un modello socialista non comunista e dunque il consenso di tutta una popolazione che le condizioni di vita in Unione Sovietica non attiravano per niente.

Col tempo sono apparsi altri mutamenti. La politica internazionale e la nuova posizione rispetto all’internazionale socialista sono state evidentemente determinate dalla situazione obiettiva: un PS francese all’opposizione non può adottare le stesse scelte di un partito laburista inglese al governo o di una SPD tedesca nelle stesse condizioni, ambedue legati al mondo occidentale e perciò agli USA dalla loro posizione governativa. Ma anche questa coscienza si è sviluppata progressivamente tra i socialisti francesi e, se era in germe fin dal 1971, solo nel 1976 è stata formulata ufficialmente o attraverso polemiche aperte.

Difficile anche da trasformare l’atteggiamento locale. Se un congresso, una mozione, un programma, un’analisi sociale e un modello ideologico erano bastati a trasformare radicalmente il partito socialista sul piano nazionale, la penetrazione delle nuove idee delle singole sezioni, tra i notabili locali, nella vecchia stabilità provinciale della SFIO, si era dimostrata molto più faticosa. Ancora nel 1975, mentre il partito aveva adottato a livello nazionale la strategia dell’unità delle sinistre da più di tre anni, 180 comuni di più di 30.000 abitanti erano retti da giunte di centrosinistra. Solo nel maggio 1976 la politica locale, comunale, del PS si è adeguata a quella nazionale.

Tutti questi elementi spiegano la portata e i limiti del successo politico del PS. La portata è evidente: la sua enorme influenza attuale è incomparabile rispetto a quella del ’69, quando nessuno avrebbe scommesso un soldo sul suo avvenire politico. Portata anche ideologica per il gran lavoro di riflessione e di elaborazione compiuto negli ultimi anni. Ma i limiti si situano al livello della coesione e della stabilità. Non si può chiedere a un partito in continua e rapida evoluzione di essere stabile e saldo come una roccia. Alcuni tentennamenti di linea, possibilità di ritorni indietro o di fughe in avanti, si leggono dietro alcune prese di posizione, certi silenzi, svolte interne. Tanto più che la coesione del partito è fragile. Le correnti unificatesi nel 1971, gli altri movimenti integratisi negli anni successivi, hanno conservato la loro identità e creano un gioco estremamente stretto di linee e di uomini. I vecchi aderenti alla SFIO, che si ritrovano nel PS con i loro quadri, i notabili locali, con l’abitudine a certi riflessi politici (soprattutto l’anticomunismo e le alleanze centriste), tacciono oggi ma non per questo non esistono.

I cristiani autogestionari e di tipo più «leninista» del CERES tendono a strutturarsi in un sotto-partito con le sue pubblicazioni, congressi nazionali, colloqui e con la sua politica estera. La corrente più «unitaria» nel senso dell’Unità delle sinistre, quella che deriva dagli amici di J. Poperen e di Joxe, la corrente più vicina al PC francese, è oggi nella maggioranza del partito ma le sue opzioni non sempre concordano con l’opinione generale I nuovi aderenti che nell’ottobre 1970 hanno seguito Michel Rocard e i sindacalisti della CFDT nel partito, tendono a costituire una nuova corrente insieme a Gilles Martinet e agli ex PSU. Gilles Martinet stesso ci diceva qualche tempo fa che la coesione del PS francese deriva in gran parte da due fattori: il successo e il progresso costante da un lato, ma il progresso un giorno o l’altro si rallenta, e la presenza di François Mitterrand alla testa del Partito, ma i problemi di successione si pongono già. Amalgamare queste correnti, stabilizzare la linea ideologica, fondere gli uomini ed eliminare certe rivalità sono oggi per il PS francese, come per ogni altro partito, problemi fondamentali.

Questo libro vuole essere una cassetta dei ferri: un libro politico, non potendo essere un romanzo giallo, deve almeno essere utile e fornire strumenti di lavoro. Un utensile si definisce rispetto a chi lo usa, a quale è il materiale da trattare. Far conoscere il PS francese era lo scopo principale. Ma farlo conoscere a un lettore italiano in una situazione politica fluida.

I testi che abbiamo riuniti corrispondono sempre perciò a un doppio uso: da un lato sono parte integrante del libro, si riallacciano agli altri testi per dare un quadro il più completo possibile. Dall’altro possono essere estratti e usati separatamente. Per esempio la cronologia che apre il volume è indispensabile per chi voglia situare nel loro contesto storico i documenti che presentiamo, ma una cronologia del partito socialista francese è utile anche ad altri lettori: a chi voglia conoscere le vicende del fronte popolare, a chi voglia trovare le date indispensabili della decolonizzazione e della guerra fredda.

Così il secondo capitolo, che riproduce larghi estratti del discorso della scissione con i comunisti a Tours, nel 1920, è un documento essenziale sia per definire quali sono gli antenati dell’attuale PS, sia per osservare il diverso clima rispetto all’analogo congresso di Livorno nel 1921. Così il terzo capitolo mostra su quali basi si è ricostruito nel 1971 il nuovo PS, ma mette alla portata del lettore italiano che si interessa a queste cose, lo stile e la tecnica con cui vengono redatte le mozioni veramente importanti dei partiti in Francia. Lo stesso discorso vale per il capitolo sull’Unione delle Sinistre, quella che in Italia si chiamerebbe l’alternativa di sinistra e che è un problema di grande urgenza: l’unità delle sinistre e il programma comune di governo costituiscono il tratto essenziale dei socialisti francesi, ma nello stesso tempo vi sono lettori più interessati dal conoscere quali sono le riforme concrete, di struttura, proposte dalla sinistra francese in un momento in cui l’Italia ha bisogno di tante riforme.

Vi è poi l’analisi sociale che sottintende la scelta politica dell’Unione delle sinistre: l’analisi del «fronte di classe». Anche qui alla definizione ufficiale del partito, ad una riflessione di Francois Mitterrand sull’argomento, abbiamo aggiunto un’analisi storico-politica di quel che è stato il fronte di classe sotto il gollismo, di quali sono le sue divergenze con l’analisi antimonopolista. Questi dati sono indispensabili per valutare il successo del PS, ma sono interessanti anche più in generale come stimolo ad un’analoga riflessione sul caso italiano.

Nella struttura di questo diagramma del PS francese, l’autogestione occupa un posto a parte. Infiniti i testi sull’argomento, innumerevoli le polemiche. Scegliere era difficile. Il testo che presentiamo è l’unico documento ufficiale, approvato dalla direzione del partito: l’ufficialità è una ragione della scelta, ma anche la concretezza, i particolari pratici. Anche qui ci si può interessare all’autogestione senza interessarsi al PS francese e viceversa.

Dopo la linea interna, politica (unità delle sinistre), sociale (il fronte di classe) e ideologica (l’autogestione), la politica internazionale prende un rilievo particolare, soprattutto per il lettore italiano: come dice un giornale insospettabile, «Herald Tribune», è la prima volta in Italia che tutti i partiti hanno la stessa politica estera. In Francia non è vero; ed è un’altra ragione del progresso politico socialista.

Arriviamo allora al capitolo centrale, non solo per il posto che occupa, ma anche per la funzione: il capitolo che descrive il partito socialista, nel ruolo che si assegna, nell’origine sociale dei suoi militanti, nei rapporti con i sindacati, nelle scelte politiche dei suoi membri (secondo la tendenza, la professione, la religione, il sesso, l’età), nella composizione dei suoi dirigenti, nella struttura della delega, nei mezzi finanziari, nella stampa di cui dispone. Solo questo capitolo permette di ancorare alla realtà tutti i testi sul fronte delle sinistre, sul fronte di classe, sull’autogestione e l’Europa. Solo questa parte permette di distinguere tra le varie correnti e tra le loro posizioni politiche a partire dalla loro composizione sociale.

Dopo questo capitolo chiave i problemi in fieri: i rapporti con il PCF, che subiscono alti e bassi, e l’originalità teorica che il PSF si assegna da solo: testi interessanti sia perché esprimono tendenze diverse all’interno del PS, mostrano le fratture che percorrono quest’organismo, sia perché esprimono lo sfasamento tra quel che il PS è, nei rapporti con gli alleati e con l’ideologia, e quel che il PS francese vorrebbe essere.

Ecco perciò la fisionomia di questo ritratto fatto di date (la cronologia), di discorsi (Blum, Mitterrand), di articoli politici (Chevènement, Meyer), di studi sociologici (Cayrol). di estratti di libri (Mitterrand e Chevènement), di mozioni, tesi ufficiali del partito, opuscoli per la formazione di base, grafici e schemini. Un po’ di bibliografia alla fine è sempre utile.

L’eterogeneità dei testi messi a disposizione fa parte del libro: esplicitare una realtà complessa esige un’omogeneità di temi e una diversità, di strumenti. Oggi non è tempo di scrivere «un’opera». Dobbiamo tutti fornire strumenti, col nostro lavoro aiutare quello degli altri. Se questo diagramma vi riuscisse non sarebbe già male.

Tratto da: Rinascita di un partito i socialisti francesi 1971 – 1975††