DIAGNOSI DI UNA MALATTIA (con una proposta di prognosi)

di Dario Allamano

Se un medico sbaglia la diagnosi è assai probabile che sbagli anche la prognosi, ed il rischio concreto è che il malato raggiunga in tempi più o meno lunghi il padreterno.

La regola vale anche per la politica, se l’analisi delle cause che hanno prodotto la crisi è sbagliata, la strategia che ne deriva porta il partito, o movimento politico, fuori strada.

Le analisi che vengono oggi fatte dai politici italiani sono adeguate per affrontare nel modo giusto la crisi che l’Italia (e l’Europa) stanno vivendo?

E’ questa la domanda che dobbiamo porci. Io me la sono posta più volte e la mia risposta è NO. Le analisi che vengono fatte son per lo più viziate da un difetto, non affondano nelle origini della crisi, le quali risalgono molto indietro nel tempo.

Le origini dei mali che hanno originato le crisi economiche e sociali, che oggi viviamo, risalgono all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, allorchè gli Stati Uniti assunsero una decisione politica che avrebbe cambiato per sempre la storia del mondo, una data è emblematica, il 15 agosto 1971, allorchè Nixon denunciò il trattato di Bretton Woods, quello dei cambi fissi e della convertibilità del dollaro in oro.

Quella scelta, oltre che modificare i cambi, generò un altro effetto, gli Stati Uniti da quel giorno furono liberi di stampare moneta ad libitum, senza che ciò si trasformasse in aumento dell’inflazione, gran parte dei dollari veniva comprato quale “bene rifugio” da paesi esteri, per circa 40 anni il dollaro è stato prima ancora che una moneta, un “titolo di Stato” solido e sicuro..

All’inizio degli anni settanta negli USA, a Chicago, stava inoltre prendendo forma la teoria economica di Milton Friedman, definita neo-liberista, che puntava al superamento delle teorie Keynesiane.

Detto in estrema sintesi. Mentre Keynes basava la sua dottrina su una tesi: la domanda aggregata (consumi, investimenti pubblici e privati e import-export) era la base per la crescita e lo sviluppo, ma, stante la sua articolazione complessa, secondo le teorie liberali classiche, andava comunque governata dagli Stati. Friedman teorizzava esattamente il contrario, una tesi semplificatoria: la libertà totale ed assoluta per le imprese, e che si reggeva su un paradigma indimostrato, i mercati si sarebbero autoregolati.

Gli effetti che stiamo vivendo nascono per l’appunto da questa nuova ideologia, perché prima ancora che dottrina economica il neo-liberismo è una ideologia.

Gli effetti perversi di questa teoria liberista (ma non liberale) ebbero un ulteriore impulso circa ventanni dopo. Il crollo dei muri dell’est comunista avviò la competizione tra Stati, e la Globalizzazione economica, per la prima volta il confronto non avveniva più dentro il recinto del capitalismo classico (USA-Europa), ma si apriva a nuove economie che, rispetto a quelle cosiddette occidentali, avevano alcuni vantaggi:

  • Erano molto competitive perché il costo del lavoro nella nascente industria era molto più basso;
  • Erano economie di Stati i cui Governi avevano un forte potere di comando (la Cina ad esempio);
  • Gli Stati potevano manovrare sui cambi per favorire l’export.

Le economie occidentali soffrivano esattamente degli svantaggi opposti:

  • Costo del lavoro più alto;
  • Stati sempre più deboli nella programmazione economica e industriale;
  • E, dopo il 15 agosto 1971, cambi molto fluttuanti, ma con una egemonia netta del dollaro.

L’esito ipotizzato nel caso migliore fu la “decrescita felice”, nel caso peggiore l’allineamento del costo del lavoro verso il basso. Pochi ritennero necessario ed opportuno sfidare la Globalizzazione sul lato della QUALITA’ dei prodotti.

Infine, sempre ad inizio anni settanta, si evidenziò il terzo elemento che avrebbe cambiato per sempre l’economia mondiale. In un mondo sempre più energivoro crebbe in modo decisivo la potenza finanziaria degli Stati detentori delle riserve energetiche (petrolio e gas), prima gli Stati del Medioriente (l’OPEC), poi la Russia ed infine alcuni Stati del sud America e dell’Africa.

In questo nuovo mondo l’Europa, continente senza risorse energetiche (al di la del carbone), ed appena uscito dai disastri di due guerre mondiali combattute sui suoi territori, con la conseguente subalternità agli Stati Uniti, e vocato essenzialmente all’economia di trasformazione era, ed è, il classico vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro. I paesi europei si trovarono di colpo a dover fronteggiare una crisi epocale senza averne gli strumenti politici ed economici adeguati.

Tutto ciò che è avvenuto dal crollo del muro di Berlino in poi nel nostro Continente è stato un difficile gioco di equilibrio per mantenere lo spazio che l’Europa aveva prima nell’economia mondiale. La risposta ai nuovi equilibrii mondiali fu quella, corretta ma molto difficile, di costruire un forte MERCATO INTERNO, basato su circa mezzo miliardo di cittadini. Il lato debole fu la mancanza di coraggio nel costruire una Istituzione sovranazionale altrettanto forte, la Federazione di Stati Europei.

Oggi scontiamo questi limiti di un continente molto interconnesso dal punto di vista economico, ma che non ha una politica  sociale, economica, fiscale a livello comunitario. Abbiamo una Istituzione che, avendo mantenuto la sua struttura di Confederale, basa quel po’ di politica che fa su dei trattati intergovernativi e non su delle regole condivise tra tutti gli Stati.

Il grande limite che oggi blocca l’Europa è il dover portare ogni decisione all’approvazione del Consiglio dei capi di Governo, in cui vige il diritto di veto. Il risultato evidente è che in quella Istituzione, se vi sono divisioni tra Stati, non si vota a maggioranza ma  si decide di non decidere. L’idea romantica di tornare agli Stati nazionali per combattere questi limiti è francamente debole.

In una economia finanziarizzata, nella quale le grandi aziende bancarie e di gestione del risparmio manovrano un volume d’affari (180 mila miliardi di dollari) pari a tre volte l’intero Prodotto Interno Mondiale, è semplicemente impossibile pensare che l’Italia sia in grado di reggere da sola con la sua liretta. Nel 1992 in una sola notte un singolo finanziere (Soros) mise in ginocchio la lira. Il costo per gli italiani di quella speculazione fu una finanziaria (quella di Amato) di 92 mila miliardi di lire, è un momento della nostra storia da non dimenticare MAI.

Come socialisti dobbiamo essere sempre capaci di “capire la realtà per trasformarla”, e da socialisti dobbiamo essere così lucidi da ricordare che nella nostra cassetta (la nostra Storia) un attrezzo in grado di far male al potere delle multinazionali ce l’abbiamo: si chiama PROGRESSIVITA’ DELLE IMPOSTE.

E’ un attrezzo che dobbiamo tornare ad usare, partendo dalla nostra capacità di veicolare un messaggio:

le mini imposte che pagano oggi le multinazionali sono uno scandalo!

Il caso Google-Irlanda è emblematico, 14 miliardi di euro di tasse da pagare sono tanti, ma sono l’1,5% del volume degli affari di questa multinazionale, l’aliquota dell’imposta irlandese.

E’ tempo di scatenare una battaglia durissima sia contro le multinazionali, che debbono pagare le imposte laddove si genera il loro reddito e la loro ricchezza, non dove hanno sede fiscale, sia contro gli Stati canaglia che consentono questi scandalosi livelli di tassazione (ed in Europa ce ne sono diversi, uno è l’Irlanda, ma poi ci sono Olanda, Malta, Lussemburgo, le isole del Canale in Gran Bretagna ecc).

Se uno dei compiti dei socialisti è la REDISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA e la tutela di coloro che fanno del lavoro la loro ragione di vita, la leva del FISCO è potente.

E’ necessario usarla per aumentare i proventi degli Stati al fine di garantire i servizi ai cittadini e serve per tutelare non solo i lavoratori, ma anche artigiani, commercianti, ed anche grande distribuzione, piccole industrie che si trovano a competere con aziende che pagano poco o nulla di tasse.

E’ questo è uno degli impegni fondamentali per il Socialismo nel XXI secolo.

Torino, 6 ottobre 2018