IL GIOVANE TURATI

di Pier Carlo Masini

La formazione politica di Filippo Turati si differenzia da quella di molti suoi contemporanei perché procede per maturazione più che per abiure e conversioni. Si sviluppa lungo l’arco di un quindicennio, coerente e meditata, dal 1875, anno del suo esordio letterario e del suo primo impegno pubblico, al 1890 quando, redattore di “Cuore e critica” si appresta a trasformare la rivista in “Critica Sociale”. A differenza di Andrea Costa che passa dall’anarchismo al socialismo attraverso una esperienza sofferta e drammatica, di Antonio Labriola che evolve prima dal liberalismo costituzionale al radicalismo e da questo, con più rapida virata, al socialismo marxista, di tanti altri socialisti apostati della fede mazziniana e provenienti dalle file repubblicane, Turati è già socialista e direi socialriformista fin dal 1878, quando scrive all’amico Ghisleri di aderire convintamente al socialismo, ma di non credere alla rivoluzione “se non come sprone che acceleri la soluzione graduale”.

E a Achille Loria nello stesso periodo dichiara che “il mio socialismo è tendenza e moto più che sistema, essenzialmente pratico, storico e graduale”. Si coglie in queste affermazioni l’influenza del positivismo evoluzionista che come positivismo antepone le riforme concrete ai sogni di rigenerazione universale e come evoluzionismo inquadra le riforme in un razionale disegno di gradualità. Come appare dall’introduzione al saggio su Il delitto e la questione sociale. Turati sentì fortemente l’influsso del pensiero di Gian Domenico Romagnosi che gli ispirò questa sua ricerca scientifica intorno ad un problema che allora interessava acutamente i giovani studiosi democratici: il problema del delitto e della pena nei suoi risvolti non solo giuridici ma anche sociali (contemporaneamente a Turati se ne occuparono Ferri e Colajanni). Cito da questa introduzione un passo che ragguaglia sulla concezione che Turati ha del socialismo all’inizio degli anni ottanta. “Il socialismo non è un sistema chiuso e prefisso, ma semplicemente un grande indirizzo movente da intuizioni e osservazioni inconcusse, suscettivo di ampliamenti e adattamenti continui alle esigenze dell’ambiente storico – e questa indeterminatezza o piuttosto virtualità che gli avversari gli rimproverano è appunto la sua forza e la sua garanzia“.

Ad Arcangelo Ghisleri il 29 marzo 1881 scrive che il tempo del socialismo letterario e sentimentale è passato” e che sono necessari invece studi positivi, fatti, cifre, atre statistiche, sopralluoghi”. Il programma di riforme ha da essere graduale non piazzaiolo, non nubivago, non pedantesco”. Più tardi, nel corso di una polemica col giornalista Dario Papa che gli chiedeva di sintetizzare il suo socialismo in un progetto di società futura, in un piano, rispondeva: Ah un piano! Un piano qualunque! Un piano possibile, verosimile ben architettato e ben confezionato. E non vi avvedete che chiedendo questo a socialismo, voi gli chiedete semplicemente di ridiventare bambino, di gufar via, alle ortiche tutto quello che è a sua ricchezza e la sua coscienza di adulto […] la sua positività e la sua possibilità fa pratica, graduale e reale, per bamboleggiare di nuovo […] per mettersi nel guardinfante del finalismo sociale […]“.

Bastano queste citazioni, credo, ad avvalorare quella mia ipotesi, di un Turati già riformista a vent’anni; un riformista intransigente, un riformista col bisturi come dimostrano i suoi scritti giovanili di polemica e di denuncia raccolti da Luigi Cortesi in una scelta antologica pubblicata molti anni fa. Successivamente negli anni novanta Turati supera queste posizioni pragmatiche e sperimentali con la sua adesione, imponente fatica e cerebrale, al marxismo della cui ortodossia si farà tutore nella polemica contro il revisionismo; ma riemergeranno più tardi nell’epoca del riformismo e nel primo dopoguerra ad orientare la sua azione politica, antimassimalista e anticatastrofica.

Del resto il marxismo di Turati è una specie di antidoto scientifico contro i residui di utopismo e di semplicismo che, a suo giudizio, ancora annebbiano la vista dei socialisti. Il socialismo moderno – scrive nel 1890 – “non è che la concezione scientifica – e perciò più largamente critica e sintetica – del dramma sociale“. C’è inoltre nel giovane Turati un’intuizione centrale che è il nucleo della concezione del marxismo e alla quale egli perviene molto presto, non tanto attraverso, testi marxisti che poco conosceva, quanto attraverso la collaborazione intellettuale della sua compagna, la informata Anna Kuliscioff. Questa intuizione centrale riguarda il rapporto fra la base economica e la sua espressione politica, fra il fatto e l’idea, fra la classe lavoratrice rinserrata nelle strutture del capitalismo e il programma socialista per la sua liberazione.

Dall’incontro di questi due clementi nascerà il partito che nel 1892 sarà il punto d’approdo di una fase storica del movimento operaio italiano ma anche punto d’approdo dell’esperienza giovanile di Filippo Turati. Egli scrive con efficaci immagini al Comitato Centrale del Partito Operaio Italiano nel 1890: “L’ideale socialista […] esce dalle viscere vostre ed è l’alto riflesso della vostra saliente umanità in conflitto con le ferree condizioni del regime imperante […]. Naturalmente esso piegasi a voi, che per intanto gli tendete le braccia; e quando le due curve si toccheranno e il chiuso circolo sprigionerà la fatale scintilla, allora sarà scoccata la più nobile ora della storia”. Sarà appunto l’ora del partito, luogo d’incontro fra la condizione operaia e la sua coscienza politica riflessa, fra i lavoratori e gli intellettuali. “L’organizzazione operaia, cieca d’ogni coscienza emancipatrice, il partito socialista ridotto ad accademia dottrinale di disputanti: l’una e l’altra cosa – scrive al Congresso dei socialisti romagnoli nel 1890 – ci sembrano, ad ugual titolo, due pretti non sensi“.

Per questo il partito fondato a Genova si chiamerà Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, un nome non scelto a caso, ma significante la fusione di due forze fra loro complementari. Alla fondazione di questo partito Turati dette un rilevante contributo non solo d’idee ma anche di opere con l’attività della Lega Socialista Milanese, embrione politico della più vasta organizzazione nazionale che sorgerà dalla confluenza di molte e varie associazioni locali e regionali, politiche e di mestiere. Ma a Genova si arriverà anche attraverso due inevitabili operazioni dissociative: dalla democrazia radicale e repubblicana da una parte e dagli anarchici dall’altra.

Turati era stato molto vicino alla democrazia radicale e repubblicana, specie a quella della scuola di Carlo Cattaneo, da lui spesso evocato come maestro d’idee e di carattere. Il suo carteggio con Cavallotti, Rosa, Ghisleri, Colajanni ne recano viva testimonianza. Ma egli sapeva, per dirla con le parole di Antonio Labriola, che “il socialismo non era un codicillo, una giunta, una nota, una postilla del gran libro del liberalismo“. Era un’altra cosa, per certi aspetti uno sviluppo, per certi altri una negazione della democrazia della estrema e del giornale “Il Secolo” che avanzavano molte ragionevoli rivendicazioni, condivise anche dai socialisti, ma non intaccavano l’egemonia borghese. Come rovesciare questa egemonia, come fare i conti con gli interessi dei ceti borghesi che entravano oggettivamente in conflitto con quelli dei lavoratori, senza una distinzione, una separazione anche a livello politico fra democrazia radicale e democrazia socialista? Certo Turati avrebbe voluto che i democratici più avanzati e più sensibili avessero fatto proprio il voto di Carlo Cattaneo “unirsi, invece di osteggiarlo, al movimento operaio”.

Ma la storia non si fa coi voti e, salvo il caso di Gabriele Rosa e di qualche altro che seppero integrare il socialismo in una più ampia concezione della democrazia, socialisti e democratici imboccarono strade diverse. Il socialismo, nel bene e nel male, nasceva da questa costola staccata della democrazia, e subito rivendicava la sua piena autonomia di pensiero e di azione. L’altro gruppo politico da cui i socialisti si separarono, con una scissione ancor più traumatica, fu quello anarchico. Per quanto riguarda Turati bisogna osservare che nel suo bagaglio culturale c’è molto più anarchismo di quanto non si pensi. Il biografo di Bakunin, il critico dello Stato delinquente (questo fu il titolo dato dall’autore alla prima stampa in opuscolo della introduzione a Il delitto e la questione sociale), l’autore dell’Inno dei lavoratori, aveva sentito l’influenza, la filosofia più che la politica, dell’anarchismo teorico. L’anarchismo, soprattutto fino al 1892, non è solo violenza e insurrezione ma anche protesta sociale, educazione emancipatrice, rifiuto delle menzogne convenzionali della società, nella famiglia, nella scuola, nella vita civile, rivendicazione dei diritti del lavoro, critica antiautoritaria etc.

A questa corrente d’idee Turati si disseta negli anni giovanili a partire dal processo degli internazionalisti svoltosi a Bologna nel 1876 ed al quale, studente all’Università, egli assistette insieme a Leonida Bissolati. Successivamente aveva frequentato assiduamente il gruppo milanese de “La Plebe” dove le idee anti-autoritarie e federaliste di Proudhon, Bakunin, Malon erano di casa. La sua stessa formazione filosofica, fatta alla scuola positivista di Siciliani e di Ardigò e a quella laica del primo Carducci, la visione areligiosa del mondo, le polemiche anticonvenzionali condotte sui fogli della Scapigliatura, lo spingevano in questa direzione.

In un suo articolo su “La Plebe” del 1° gennaio 1882 (Perché e in che senso avversiamo la morale) Turati prospetta la “trasmutazione dello Stato borghese in comunità autonome e federate di lavoratori” che è proudhonismo e bakunismo puro. Nel 1883 indica come suoi punti di riferimento culturale: Proudhon, Bakunin, Marx e Collins, un socialista belga di orientamento eclettico (nel 1887 il quartetto sarà invece composto da Marx, Engels, Schaffle e Laveleye): come i primi due potessero andare d’accordo con gli altri, Dio solo lo sa.

Lo stesso Inno dei lavoratori, vero programma di partito compendiato in versi, risente dell’influenza anarchica. “Il riscatto del lavoro – dei suoi figli opra sarà” è la parafrasi del motto della Prima Internazionale “L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi” che gli anarchici interpretavano nel senso più stretto e letterale, contro l’intervento mediatore del Parlamento, dello Stato e dei partiti. “O vivremo del lavoro – o pugnando si morrà” sono parole prese dall’insegna degli operai lionesi insorti nel 1840: “Ou vivre travaillant ou mourir combattant“. Anche il distico “Ogni cosa è sudor nostro / noi disfar, rifar possiamo” traduce bene il detto dell’operaio internazionalista bolognese Ippolito Dalvit, amico di Cafiero: “L’operaio che ha fatto tutto può distruggere tutto perché può tutto rifare“. E potremo continuare.

Tutto questo, badiamo bene, non significa che Turati sia stato anarchico. I punti di dissenso con l’anarchismo sono numerosi e di primaria importanza. Turati ha parole molto dure contro quello che chiama il “vaiolo nero” dell’anarchismo, sempre pronto a ricomparire sul corpo del socialismo, come un male subdolo in perenne agguato. E gli anarchici, soprattutto nel periodo giolittiano, lo ripagano con la stessa moneta. Turati ovviamente generalizza e, per comodo di polemica, accusa di anarchismo le stesse correnti antiriformiste che gli fanno opposizione nel partito, dai sindacalisti e socialisti rivoluzionari nell’anteguerra ai massimalisti e terzinternazionalisti nel dopoguerra.

Quando al congresso di Livorno egli ascolta il discorso di Amedeo Bordiga, vede dietro la figura del bolscevico napoletano ergersi l’ombra dell’anarchico Luigi Galleani che egli aveva fronteggiato trent’anni prima al congresso di Genova. In questo egli pecca di schematismo, coglie le analogie ma non vede le differenze; non vede soprattutto che, al di là dei nomi dei suoi interpreti, l’estremismo non era una ricorrente febbre da combattere con i calmanti del riformismo, ma lo storico riporto nel movimento operaio italiano, delle tensioni, contraddizioni e ritardi della società italiana.