LE RADICI DEL FALSO POPULISMO

di Antonio Autuori – Portavoce del Gruppo di Volpedo

 

Pil procapite in SPA (indici UE27=100) SPA= potere d’acquisto standard

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Commento dell’autore (Arrigo)”..A metà anni ’90 il Pil pro capite dell’Italia in PPS si trovava 21 punti percentuali al di sopra del valore medio degli attuali 27 paesi che compongono l’Unione e persino 6 punti sopra il valore dei paesi UE-15 pre allargamento. Nel 2003 il dato italiano scendeva al di sotto del dato medio UE-15 e alla fine del decennio azzerava completamente il vantaggio rispetto all’UE-27…”

Al grafico [1] ho aggiunto i periodi di governo destra-sinistra, visibili per colore azzurro-rosso. Non ci sono dubbi che il Pil pro-capite italiano sia diminuito, nel periodo considerato (1995-2011) di oltre il 20% ed è evidente che i periodi di governo tra destra e sinistra sono approssimativamente divisi in parti uguali. Questo processo economico ha colpito in particolare i ceti medio-bassi che hanno sperimentato più direttamente l’effetto di questa diminuzione di reddito. Peraltro facendo riferimento al Pil 2011, (1638 miliardi euro circa), si può stimare che l’economia risenta di una diminuzione di reddito complessivo di circa 300 miliardi di euro l’anno. Poiché è evidente che questa diminuzione ha colpito in particolare i ceti meno abbienti e che gli stessi non hanno avuto benefici tangibili dall’alternanza destra-sinistra (vedi grafico), gli stessi ceti sono arrivati alla conclusione che la loro domanda politica dovesse essere rivolta altrove.

L’idea, cara ai profeti del bipolarismo perfetto, imposto per legge elettorale, era che la maggioranza dell’elettorato, pur escluso dai circuiti economici principali, avrebbe accettato l’apparente alternativa tra destra e sinistra.

In effetti, il calcolo non era sbagliato, perché questa situazione si è protratta ben al di là del periodo riportato dal grafico precedente e cioè approssimativamente fino al dicembre del 2016 (referendum costituzionale); in qualsiasi paese ventun anni equivalgono politicamente all’eternità. Ma tutto tiene finchè tiene, poi bisogna inventare qualcos’altro: l’alternativa populista.

Ho fatto un’analisi dei dati correlando, su base regionale, i risultati del referendum quasi definitivi [2] con i dati regionali del Pil pro-capite [3]

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La linea in rosso mostra una connessione evidente negativa (-0.750) tra la votazione percentuale per il NO e il Pil regionale pro-capite, cioè nelle regioni a reddito più basso, la votazione per il NO è stata maggiore. Esattamente il contrario è avvenuto per il SI (+0.741 traccia blu) e la sconfitta del SI è avvenuta malgrado l’affluenza sia stata maggiore nelle regioni ad alto reddito (+0.832 traccia verde). Tutte le predette correlazioni sono significative con confidenza maggiore del 99%.

Se eliminiamo, con una correlazione parziale, l’effetto del fattore affluenza (traccia verde) alla correlazione votoNO-redditopc (e cioè cerchiamo di eliminare il fattore geografico dalla relazione), la correlazione votoNO-redditopc passa da -0.750 a -0.263 e cioè si riduce ma mantiene una significatività relativamente elevata (confidenza 87%).

Quindi si può sostenere ragionevolmente che il fattore economico, piuttosto che il giudizio politico sulla riforma costituzionale, sia stato determinante sull’esito del referendum e che il fattore economico a favore del NO, si sia manifestato nell’intero paese e non solo nelle regioni a basso reddito.

Se prendiamo in considerazione la storia del governo Renzi, si vede in modo eclatante che le speranze ispirate dalla figura di un giovane presidente del consiglio fattivo e innovatore in grado di progettare un futuro condiviso per l’intero paese, (PD 41% alle europee), si traduca, dopo i primi provvedimenti di natura economica, in una profonda delusione di cui il risultato del referendum costituzionale è l’epilogo.

E’ probabile che la gente non si sia resa conto inizialmente degli effetti economici dei famosi ottanta euro, erogati a persone di reddito medio e rivenduti come tentativo di rivitalizzare la domanda interna (un assurdo di politica economica); così come non si sia resa conto degli effetti risibili della generosa decontribuzione fiscale sugli assunti a tempo indeterminato; la decontribuzione di 12000 euro pro-capite per tre anni relativo alle aziende che assumono a tempo indeterminato che costerà allo Stato dai 28 miliardi di euro a consuntivo, distribuito a pioggia su un panorama di aziende che, per almeno i due terzi, non sono competitive per tecnologie e innovazione.

In pratica lo Stato con questi due provvedimenti, sta incentivando e finanziando a caro prezzo, la disoccupazione prossima ventura; perché è evidente che esauriti gli incentivi, la maggior parte delle aziende (quelle che non innovano, 2 su 3), si sbarazzerà liberamente di una quota equivalente di occupati.

Certamente però, i meno abbienti hanno preso atto a consuntivo del fatto che, da una parte gli effetti economici generali e quelli occupazionali sono stati deludenti e dall’altra parte che il governo con gli ottanta euro e le decontribuzioni triennali a fondo perduto non è intervenuto sui settori al limite di sopravvivenza e/o in regresso economico, cioè a quanto pare, se il precedente grafico ha un senso, il governo ha fallito nell’incidere sulle condizioni economiche della maggioranza degli italiani, a partire dalle classi meno abbienti.

In sostanza il governo Renzi, pur nominalmente di centro-sinistra, mancava della qualità principale che Norberto Bobbio attribuiva al termine “sinistra” e cioè l “inclusione”; esso si è dimostrato incapace di elaborare un progetto per l’intero paese e per di più non è riuscito a farlo neppure per la maggioranza del paese. Siamo passati dalla politica “la pioggia lo bagna, il sole l’asciuga” di Berlusconi all’approssimazione dissennata e senza costrutto di Renzi.

Dunque si è chiuso il ciclo dell’alternanza fittizia destra/sinistra?

Sicuramente si è chiusa la narrazione indotta dalla proposizione dell’alternanza destra/sinistra, ma i commentatori più avveduti (ed estranei al ceto politico della seconda repubblica), hanno già notato che la cosiddetta alternativa populista somiglia in modo impressionante all’alternativa destra/sinistra.

Interessante l’articolo di Mario Pianta su Social Europe, il cui titolo è una citazione sufficiente: Lib-Pop Politics: Why Italy’s New Government Is More Neoliberal Than Populist – (Politica liberalpopolare: perché il nuovo governo italiano è più neoliberale che populista).

Ma ancora più esplicito e succoso l’articolo di MicroMega di Rosa Fioravante e Paolo Ortelli: “La via stretta della sinistra”

“…È evidente il pericolo che la discussione politica si trasformi in una falsa contrapposizione tra establishment e anti-establishment (o in un continuo referendum sull’Unione Europea tramite una domanda mal posta), che cela due destre tra loro diverse, ma egualmente regressive. Destre complementari: l’una tenta di trarre legittimazione dall’esistenza dell’altra. Gli strenui difensori dello status quo si aggrappano alla paura dei barbari alle porte; la falsa alternativa reazionaria manipola le agitazioni e le frustrazioni di chi più ha subito le fallimentari scelte degli ultimi anni per giustificare la propria spregiudicata corsa al potere.

Siamo davanti a una delle molte versioni dell’Italia eternamente gattopardesca, i cui protagonisti sono accomunati, a ben vedere, dal tentativo di occultare i conflitti sociali e gli interessi contrapposti che esistono nel paese e in Europa. A nessuno di loro interessa mettere in discussione i reali rapporti di forza presenti nella società, né tanto meno un modello di sviluppo che ha dato prova di generare ingiustizie, sprechi, tensioni, conflitti.

In Italia come altrove si propone così una versione parossistica e accelerata della cosiddetta postdemocrazia. Ancora una volta, la politica sembra voler rinunciare alla propria autonomia; ancora una volta, i diritti dei più deboli vengono esclusi da qualunque possibilità di rappresentanza. E ancora una volta, mentre si lanciano fieri appelli per difendere la democrazia dalla “minaccia populista”, si finge di ignorare che il “ricatto dei mercati” sta dissolvendo la vera essenza della democrazia stessa: la possibilità di decidere del nostro destino…”

Poi ci sono gli episodi divertenti ma istruttivi:

Giacinto Curcio Coord. coalizione PD +Europa Insieme, Civica, Unesco Cilento Vallo di Diano

“È inconcepibile un livello di ignoranza e approssimazione simile. La flat tax sui redditi di impresa esiste da qualche decennio. Prima si chiamava IRPEG, e ora si chiama Ires, e tassa proporzionalmente i redditi delle società di capitali. E a ridurla – dal 27,5% al 24% – è stato il governo Renzi. Nel caso il futuro sottosegretario Bagnai si riferisse, invece, agli utili di impresa delle società di persone, anche quella esiste già: si chiama Iri, e l’ha fatta sempre il governo Renzi…”.

Ma chi sono dunque i soggetti di tante attenzioni liberal-liberiste, (ma sia ben chiaro: né di destra né di sinistra)?

Potremmo essere tentati di chiamarli “capitani coraggiosi” come già fece, ahinoi, Massimo D’alema nei primi anni ’90; ma la perenne distruzione, ancora in corso, delle telecomunicazioni italiane ce lo sconsiglia vivamente, (Telecom comprata a credito; banda larga: penultimi in Europa, e per fortuna c’è Cipro). D’altro canto, perché prendersela solo con D’Alema che con il regalo delle autostrade a Benetton non c’entra? E le banche?.. A le banche!..

Occorre una definizione sintetica del beneficiario, praticamente una fotografia: ce la fornisce Riccardo Gallo nel suo libro “Torniamo a industriarci”.[4]

Commento dell’autore (Gallo): “…Gli azionisti delle società industriali italiane si sono distribuiti nell’ultimo quarto di secolo complessivamente il 110% degli utili netti di esercizio, intaccando le riserve.

In altri termini, hanno saccheggiato le loro stesse imprese. Da un’analisi dell’andamento di questo processo, non sono emerse fasi temporali significativamente distinguibili.

Il saldo tra utili e dividendi è stato dunque negativo e ha eroso il flusso di cassa complessivo, che è stato pari a meno dei già esigui ammortamenti ordinari annui.

Passando al flusso uscente, gli investimenti tecnici al netto dei disinvestimenti sono stati, nel 1992-95, superiori agli ammortamenti ordinari, segno che era in corso quanto meno un rimpiazzo dei mezzi di produzione. Ma a partire dal 1996 sono stati inferiori ai già scarsi ammortamenti; il flusso uscente è stato pari al 90% del flusso entrante.

Tutto ciò dimostra che: non sono stati fatti disinvestimenti e investimenti come una riconversione ampia del lay-out e una de-verticalizzazione virtuosa e generale delle fabbriche italiane avrebbero comportato; a fine 1998 le imprese hanno imboccato un percorso di declino e deindustrializzazione progressiva; il rapporto tra valore aggiunto su fatturato netto si conferma idoneo a misurare il contenuto industriale di un sistema di imprese.”

Dunque, si potrebbe concludere che l’intera economia e il paese, sia ostaggio del suo sistema finanziario-industriale e delle sue disinvolte abitudini (“..hanno saccheggiato le loro stesse imprese..,); A costoro il nuovo governo si appresta a concedere la Flat tax: Come dire, piove sul bagnato.

Quando avranno finito di suicidarsi questi (in particolare i 5stars) e Renzi avrà finito i popcorn, ci sarà un altro giro: ma il commensale sarà sempre lo stesso.

 

 

1- Ugo Arrigo – Il declino dell’Italia (in 3 grafici) – LeoniBlog.htm

2- Corriere d.s.-5-12-16- risultati referendum (59009 sezioni su 61551)

3- Fonte Dati Centro studi CNA su dati Eurostat

4- Riccardo Gallo – torniamo a industriarci -Guida editori .p.27