DA OLTRE 70 ANNI BRUNO BUOZZI ATTENDE GIUSTIZIA

di Vittorio Valenza

Nella notte fra il 3 e il 4 giugno del ‘44, mentre gli alleati entravano in Roma, un reparto di SS in ritirata si portò dietro, su alcuni camion, i prigionieri politici rinchiusi nelle segrete di via Tasso. Sull’ultimo veicolo, insieme ad altri 13 antifascisti, c’era il sindacalista socialista Bruno Buozzi. In località La Storta, sulla via Cassia, l’automezzo si fermò per un guasto. Il tempo stringeva e l’affanno aumentava. A un certo punto, qualcuno diede l’ordine di uccidere i 14 passeggeri. All’alba della Liberazione, a poche ore dalla stipula del “Patto di Roma”, che ridiede vita al sindacato democratico, Buozzi fu assassinato.

Misteri

Qualche anno fa, Cesare De Simone, nel libro Roma città prigioniera, avanzò l’ipotesi che a comandare le Schutz Staffeln, responsabili dell’eccidio, fosse l’hauptsturmführer Erich Priebke. Ad accusarlo sarebbe stato lo sturmbannführer Karl Hass, personaggio misterioso e controverso. Il 16 agosto 2001, la notizia era stata ripresa anche dal Corriere della Sera. Ma le cose, a quanto pare, non erano andate in quel modo. Infatti, l’Hauptsturmführer, dall’ergastolo, sporse querela. E, nell’ottobre 2001, il Tribunale gli ha dato ragione. Cosicché, su chi diede l’ordine permane il mistero. Ma un altro e più inquietante enigma avvolge ancora la fine di Buozzi: l’oscura vicenda che portò al suo arresto.

Nel ‘26, il leader sindacale era espatriato in Francia. In esilio, tenne in vita la Cgl. Diresse il giornale l’Operaio italiano. Militò nella Concentrazione antifascista. All’inizio del ‘41, fu arrestato dai nazisti. Consegnato ai fascisti, fu inviato a Ventotene. Di qui, a Torino, come vigilato speciale. Liberato dopo il 25 luglio, si trasferì a Roma, in quanto nominato “commissario” dei sindacati dei lavoratori dell’industria. L’occupazione tedesca dell’Urbe lo costrinse alla clandestinità. Con i documenti di Mario Alberti, ingegnere di Benevento, abitava in Trastevere, presso un compagno. Qui, il 13 aprile 1944, fu arrestato. Racconta Pietro Bianconi in 1943: la Cgl sconosciuta, “Un giorno viene operata una perquisizione perché il padrone di casa è sospettato di possedere un apparecchio radio clandestino. Il proprietario è assente e la perquisizione ha luogo senza risultato. Nessuno sospetta dell’ingegnere Mario Alberti, ma gli viene chiesta la carta di identità. Poiché la polizia è a conoscenza che al Comune di Benevento sono state sottratte delle carte di identità e il documento mostrato dall’ingegnere proviene da quel Comune, Buozzi viene tradotto in questura per accertamenti, in attesa dei quali lo si assegna al carcere di via Tasso”.

Questa ricostruzione ha sempre destato perplessità. Non può sfuggire, infatti, che, all’epoca, Benevento si trovava nell’Italia liberata. E, quindi, c’è da chiedersi come facessero i nazifascisti ad avere quelle informazioni anagrafiche. Ma Buozzi attende anche un’altra giustizia: la giusta valutazione della sua opera. Da sempre, infatti, il suo lavoro è stato o nascosto o stravolto. Eppure, tutta la nostra vita sindacale riporta alla sua opera. La contrattazione e il ruolo delle strutture che ne hanno la titolarità, le “categorie”. Il legame tra i livelli del negoziato e l’organizzazione del sindacato: per esempio, l’idea e la realizzazione delle “commissioni interne”. L’“indennità di carovita”, rivendicata già nel 1920.

Anche gli attuali punti di crisi sono tali, perché alcune sue idee non hanno trovato adeguata realizzazione. Per esempio, il nostro pluralismo sindacale ha fatto arrivare al pettine il nodo della rappresentatività del sindacato. Che un accordo sia sottoscritto da un sindacato e non da un altro non dovrebbe destare scandalo. Tuttavia, gli accordi producono degli effetti che interessano tutti i lavoratori. Quindi, per un primordiale principio, un contratto destinato a produrre effetti su tutti deve essere stipulato da chi rappresenta almeno la maggioranza. Ma come si può accertare questa maggioranza, se non ricorrendo a un garante della democrazia. Non è giunto il tempo dell’Articolo 39 della nostra Costituzione?

Biografia

Buozzi era nato a Pontelagoscuro, in provincia di Ferrara, nel 1881. Operaio metallurgico lavorò alla Marelli e alla Bianchi. Giovanissimo attivista della Federazione italiana operai metallurgici, ne divenne segretario nel 1911. Da quel momento, fu uno dei più popolari esponenti della corrente riformista. Finita la Guerra, sotto la sua direzione, le conquiste dei metalmeccanici furono di enorme portata. Tra il 1918 e il ‘21, i salari reali raddoppiarono. I metallurgici furono la prima categoria a conquistare le mitiche “8 ore”. E, poi, le ferie pagate. Il contratto nazionale divenne prassi organica. E, per renderlo inderogabile, furono fatte riconoscere le “Commissioni interne”: il sindacato sul posto di lavoro, con il compito di vigilare sull’applicazione degli accordi. Buozzi fece della Fiomla punta avanzata del movimento”.

La sua filosofia politica è tutta racchiusa nelle parole pronunciate al Congresso della categoria del novembre 1918: “Noi siamo risolutamente contrari alla teoria che l’organizzazione debba sempre seguire la massa anche se disorganizzata. Tale teoria rende inutile l’organizzazione. Serve a formare dei ribelli di un’ora, ma non mai delle coscienze rivoluzionarie; ad organizzare improvvisamente delle migliaia di operai facili da condurre al macello ma che se ne andranno immediatamente non appena finita l’agitazione per la quale si sono associati. La coscienza delle masse si sviluppa e si dimostra con l’opera perfezionata, illuminata e disciplinata, la quale solo attraverso anche a qualche rinuncia che è spesso un segno di forza sa conquistare e conservare per prepararsi a nuove conquiste.”

Idee chiare e distinte, una idealità razionale, ancoraggio agli interessi concreti dei lavoratori, amore per la partecipazione disciplinata, senso di responsabilità e fiducia nel metodo democratico.

L’occupazione delle fabbriche

La disgraziata vicenda del settembre 1920, l’“occupazione delle fabbriche”, vide lo scontro tra questi principi e il misticismo psudorivoluzionario di dubbio fondamento, ma sempre, ahimè, di alto richiamo. Esemplare prodromo del settembre, è lo scontro che si consumò, a Torino, roccaforte di quelli che nel ’21 diventeranno comunisti, alcuni mesi prima, proprio sull’istituzione delle “Commissioni interne”. Buozzi intendeva la conquista delle “Commissioni interne” come un primo mutamento nei rapporti di potere all’interno dell’impresa. Con la presenza del sindacato in fabbrica, si sarebbe sviluppata la discussione “non solo sui salari, ma sull’effettiva distribuzione del lavoro tra le forze del lavoro e gli industriali”.

A questo gradualismo, si opposero i “rivoluzionari” con i soliti argomenti di scuola soreliana: le Commissioni sarebbero state strumenti di collaborazione e avrebbero diminuito l’ardore rivoluzionario. Ad esse, furono contrapposti i cosiddetti “Consigli”, a similitudine dei “soviet”. Alle precise attribuzioni si sostituirono le fumisterie. Poi, con uno di quei tripli salti mortali all’indietro, di cui sono capaci i comunisti, si chiese agli imprenditori il riconoscimento dell’“esercito rivoluzionario”. Seguirono agitazioni e scioperi. E poi, la disfatta. Per prima volta, nel Dopoguerra, gli industriali assaporarono la vittoria. In questo clima, si sviluppò, nel settembre del ’20, l’occupazione delle fabbriche.

La storia nacque sul terreno sindacale. Dalla piattaforma rivendicativa presentata agli industriali il 18 giugno: ritocchi salariali, indennità di carovita, armonizzazione delle scale salariali fra zone geografiche. E sul terreno sindacale poteva concludersi. Tant’è che Giovanni Giolitti riuscì, nonostante tutto, a mediare una buona intesa. Ma i “rivoluzionari”, che credevano di avere il vento in poppa e, invece, avevano il fascismo dietro l’angolo, fecero travalicare l’agitazione fuori dalla cornice sindacale, salvo poi, quando fu palese il loro nullismo, remare indietro. Ma ormai era troppo tardi.

Esilio

La Cgl tenne il suo ultimo Congresso nel dicembre 1924. Un’assemblea tetra e depressa. Nell’ottobre del ‘25, il “Patto di Palazzo Vidoni” tra la Confindustria e la Confederazione delle corporazioni fasciste stabilì che quest’ultima sarebbe stata il rappresentante esclusivo dei lavoratori. Le commissioni interne furono soppresse. Nel gennaio del ‘26, Buozzi sostituì Ludovico D’Aragona come segretario di una Cgl in coma. Nell’aprile, fu abolito il diritto di sciopero. Prima della fine dell’anno, Buozzi era in Francia. Segretario generale divenne Battista Maglione. Il Comitato direttivo del 4 gennaio 1927 confermò lo stato di fatto: la Cgl aveva cessato di esistere.

Nell’ora della disfatta, i comunisti tentarono l’impresa che non era loro riuscita in regime di democrazia: mettere le mani su tutto ciò che rappresentava la Cgl. Gridando al tradimento, indissero, a Milano, il 20 febbraio 1927, una riunione dei loro quadri sindacali e decisero di mantenere in vita la Cgl come organizzazione clandestina. Ma Buozzi, che dall’esilio aveva rifiutato lo scioglimento della Cgl, denunciò la manovra comunista. Ne seguirono rivendicazioni sull’uso del nome e dei simboli. In realtà, si crearono due Cgl. Quella di Buozzi, sulla linea della tradizione. La comunista affiliata all’internazionale sindacale sovietica.

La caduta del fascismo

Il 25 luglio 1943, portò al governo Pietro Badoglio. Su iniziativa del ministro delle Corporazioni, Leopoldo Piccardi, furono “commissariati” i sindacati fascisti. Il 1° agosto ‘43, Piccardi espose il progetto a Buozzi, il quale, dopo averne parlato con Oreste Lizzadri, Pietro Nenni e Sandro Pertini, aderì all’iniziativa, subordinandola alla clausola “di non corrensponsabilità politica”: “Considerando che la funzione a cui siamo chiamati ha uno stretto carattere sindacale che non implica nessuna corresponsabilità politica, dichiariamo di accettare le nomine nell’interesse del Paese e dei nostri organizzati, per procedere alla liquidazione del passato e alla sollecita ricostruzione dei sindacati italiani, che tenga conto delle tradizioni del vecchio movimento sindacale e tenda ad avviare al più presto gli organizzati a nominare direttamente i propri dirigenti.

Buozzi divenne commissario dell’Industria, con vicecommissari Giovanni Roveda e Gioacchino Quadrello. All’Agricoltura, Giuseppe Di Vittorio fu affiancato da Achille Grandi e da Oreste Lizzadri. La mattina del 14 agosto, Piccardi ufficializzò le nomine. Il 15, i commissari si costituirono in Comitato interconfederale. Presidente fu nominato Buozzi, segretario Lizzadri. Il primo atto del Comitato fu l’accordo, siglato il 2 settembre 1943 da Buozzi e dal presidente della Confindustria Giuseppe Mazzini, per ricostituire le Commissioni interne.

Il Patto di Roma

Tra il settembre del ’43 e il maggio del ’44, socialisti, democristiani e comunisti elaborarono una piattaforma politica per dar vita al nuovo sindacato dell’Italia liberata, unitario e democratico. Il filo conduttore delle trattative si dipanò intorno a Buozzi, sulla cui leadership non vi è dubbio. Era stato l’ultimo segretario della Cgl. Apparteneva al partito della tradizione operaia, il quale, in quel momento, come dimostreranno i dati elettorali del 46, manteneva un primato nelle aree industriali del Paese. Inoltre, come sottolinea Sergio Turone, per il ricordo della sua opera, raccoglieva il consenso della classe operaia del Nord.

Tant’è che, mentre si svolgevano questi incontri, veniva convocato a Bari, capitale provvisoria del Regno del Sud, a ridosso del congresso dei Comitati di liberazione nazionale, svoltosi il 29 gennaio ‘44, un convegno sindacale a cui partecipavano 370 organizzatori, i quali si assunsero il compito di ridar vita alla Cgl e acclamarono Buozzi, benché assente, segretario generale. L’adesione di Buozzi alla prospettiva unitaria non era, però, come ci vogliono far credere, priva di riserve. Come scrive Daniel Horowitz: “Buozzi, che era a capo dei sindacalisti socialisti, era più realistico dei molti leaders politici socialisti nel penetrare gli obiettivi dei comunisti, ma lo spirito dei tempi e l’urgenza dei problemi che attendevano i nuovi sindacati fece sì che ogni alternativa all’unità del movimento sindacale sembrasse tradire le aspettative democratiche.”

Agli inizi del ‘44, i suoi rapporti con Di Vittorio erano più che tesi. Lo testimoniano le note informative, che quest’ultimo inviava ai dirigenti comunisti. I punti di rottura erano molteplici: il riconoscimento giuridico del sindacato, il ruolo delle federazioni di categoria: “L’amico è riformista nell’anima. Difende le Fed.Naz. e la loro naturale competenza tecnica con un accanimento incredibile.” Il tono, di nota in nota, si fa sempre più aspro: “Mentre sul cattolico i nostri argomenti hanno una presa, su Buozzi, inveterato nelle sue concezioni riformistiche, non ne hanno alcuna.” C’è il timore che Buozzi e i cattolici “si accordino contro di noi”. “Un serio pericolo”, soprattutto perché “è recisamente contrario” a riconoscere “la nostra richiesta di avere il primo posto”.

In sostanza, Buozzi era l’ostacolo all’egemonia comunista sul sindacato. E per rimuoverlo, Di Vittorio tentò anche di scavalcarlo, chiamando in causa il Psi. In ciò, il gruppo dirigente del Pci gli diede man forte. Lo testimonia una lettera di Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola inviata, il 2 marzo, da Roma alla Direzione del Pci Alta Italia: “I nostri rapporti col Partito socialista non vanno bene. Bruno Buozzi, nel campo sindacale sostiene tesi del più putrido riformismo; e la Direzione del partito approva anche quelle. Abbiamo immediatamente reagito ed ora prepariamo la controffensiva.” Nella primavera del ’44, le trattative erano dunque giunte a un punto critico. Buozzi aveva, ancora una volta, rifiutato la sua firma al progetto redatto dai comunisti. Ma il 13 aprile fu arrestato.

da La Tribuna di Lodi

L’edizione straordinaria dell’Avanti! del 7 giugno 1944