Intervento di Alessandro Lombardo*
Questa volta il volgere del secolo ha coinciso con la percezione diffusa di una grande trasformazione in corso, che investe il modo di produrre, di essere e di interagire di milioni di uomini. Ciò è vero su scala planetaria, ma è vero anche su scala nazionale e cittadina. Anzi, per la nostra città, il cambiamento assume i tratti di una metamorfosi radicale che modifica completamente i connotati della sua identità e mette fine a una storia di almeno un secolo e mezzo: un secolo e mezzo di storia della città industriale, poi fordista, delle grandi fabbriche di stato, delle grandi concentrazioni operaie che si sommavano e si intrecciavano alle più antiche presenze fluttuanti delle masse portuali. Un secolo e mezzo di città del lavoro moderno, della moderna democrazia e del moderno conflitto sociale.
Andare verso il futuro, inventarsi un futuro possibile, non significa fare terra bruciata del passato, cancellarlo e dimenticarlo, come vorrebbe qualche zelante cultore della “fine della storia”. Ripercorrere la storia del lavoro nell’ultimo secolo e mezzo a Genova, anche a tacere delle radici più remote, significa ripensare a una straordinaria esperienza di democrazia e partecipazione, di solidarietà e organizzazione, di trasformazione dal basso dei rapporti sociali e delle coscienze. In questo la storia del mondo e del lavoro portuale e la storia del mondo e del lavoro industriale si legano profondamente, pur rimanendo diverse. In entrambi i casi il lavoro compare come fonte di identità, come veicolo di formazione, come base di un’etica di produttori che si riverbera sull’intera città, dà un’impronta alla sua cultura, al suo “clima”, al suo stile. Basta pensare alla coincidenza, richiamata in questo opuscolo, fra le lotte del primo Novecento per il diritto di esistere degli organismi operai di difesa e di controllo del mercato del lavoro, dentro il porto e fuori di esso, e l’inizio di una svolta della politica nazionale che, per la prima volta nella storia italiana non considera più le classi lavoratrici solo come una minaccia e un problema di ordine pubblico, ma come un soggetto la cui crescita può essere di arricchimento per tutto il paese.
La classe operaia portuale e la classe operaia industriale hanno conosciuto momenti di crescita diversi, un senso diverso del lavoro, ma un comune orgoglio di mestiere che nasceva in un caso dalla capacità di autogestione e di coordinamento delle operazioni, dal misto di forza e di destrezza da sempre necessario nelle attività portuali, dalla tradizione cooperativa, nell’altro dalla consapevolezza di trovarsi al centro di un processo creativo capace di edificare giganti come le navi e le turbine, le locomotive e le enormi strutture di lamiera, usando macchine e tecnologia con la perizia di una professionalità accumulata in lunghi anni di esperienza. Penso soprattutto alle maestranze di un colosso come l’Ansaldo. Dentro l’Archivio storico di questa azienda c’è un formidabile patrimonio di storia del lavoro non inteso solo nelle sue dimensioni oggettive e di erogazione di energia, ma in quelle culturali, simboliche e politiche: una storia senza la quale sarebbe impossibile comprendere la storia della città e del secolo appena compiuto.
Gran parte di questo mondo è oggi finito e la città è alla ricerca di una sua nuova identità: che sarà necessariamente più mobile, meno pesante, meno monolitica. Ciò non significa affatto abbandonare gli aspetti fondanti di questa tradizione e dimenticarli. Semmai ripensarli. Ripensare il fattore lavoro come fattore d’identità, anche se si tratta di un lavoro in gran parte cambiato, decentrato, mutevole assai più che nel passato, meno corporeo, meno manuale, meno materiale, più virtuale, più mentale, più relazionale.
Ripensare il fattore lavoro come fattore di democrazia: cioè come esercizio della capacità di partecipazione, maturazione collettiva, controllo e responsabilità personale, contro i nuovi dogmi della fruizione passiva e della registrazione istantanea dei desideri eterodiretti. Ripensare il fattore lavoro come fattore di liberazione, dignità e autonomia. Ciò significa anche rompere l’accerchiamento del nuovo idolo totalitario, il liberismo assoluto del consumo e del mercato autoregolato che una volta ancora nella nostra storia, malgrado contraddizioni e fallimenti catastrofici, e malgrado importanti confutazioni teoriche, cerca di imporsi come unico criterio di definizione delle relazioni interumane cancellando zone franche di autonomia nella prassi, nel pensiero e persino nella memoria.
Perciò l’idea i ripartire dalla storia dei carbunè, di ripensare le loro lotte, iniziative, esperienze, apparentemente così lontane dal nostro mondo, per ritrovare il filo d’Arianna di un tessuto collettivo di solidarietà, dentro e non contro le trasformazioni che stanno investendo in maniera traumatica la realtà del lavoro, per reagire alle ricadute barbariche dell’intreccio tra globalizzazione e nuovi nazionalismi, mi sembra un’idea importante, un progetto da praticare e un percorso da seguire.
La storia non gode in questo momento di un prestigio particolarmente elevato: una specie di presenzializzazione e di appiattimento inavvertito sull’oggi sembra dominare la scena anche in seguito alle prodigiose conquiste dei mezzi di comunicazione di massa grazie ai quali tutto il passato sembra poter essere immediatamente evocato sotto i nostri occhi e quindi perdere la sua misteriosa dimensione di alterità. Contemporaneamente, all’interno della tecnologia digitale, telefonica e informatica e dell’ubiquità che essa sembra assicurare, anche la dimensione dell’altrove si perde: sicché attardarsi sulla ricostruzione e il racconto del mondo che è stato sembra un esercizio futile, una sorta di delirio e di allucinazione e in definitiva una perdita di tempo. Mostrare che il passato, nella sua doppia qualità di essere lontano e diverso ma anche vicino e analogo, può aiutarci nella ricerca, è un compito difficile ma affascinante. La storia può essere addirittura la chiave di volta culturale per aiutarci a governare il cambiamento, uno dei cambiamenti più radicali dell’esperienza umana, certo uno dei più dei più forti per la nostra città, senza produrre o subire irreparabili catastrofi.
*Alessandro Lombardo è Direttore della Fondazione Ansaldo, archivio economico delle imprese liguri
Tratto da “Ragnatela di Mare” Compagnia Portuale Pietro Chiesa – Genova a cura di Piefranco Pellizzetti
ANSA:
I ‘carbuné’ di Genova in liquidazione
Un secolo di storia, sostennero nascita quotidiano ‘Il lavoro’
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