LA CONCORRENZA DELL’ORGANIZZAZIONE COMUNISTA

Il Partito comunista, infatti, lavorava alacremente alla costituzione del suo apparato di quadri dirigenti e intermedi, che esso considerava come la necessaria ossatura di una organizzazione politica di massa.

La tesi di Togliatti aveva avuto nel PCI il sopravvento su quella dei vecchi esponenti comunisti, dei quadri di formazione prefascista o maturati nella lotta clandestina, secondo le quali il partito si sarebbe dovuto strutturare come un partito di “rivoluzionari di professione” per una meccanica applicazione della ideologia leninista. Togliatti e la maggioranza del gruppo dirigente comunista sostenevano invece che le condizioni della lotta politica in Italia erano profondamente diverse da quelle nelle quali Lenin aveva lanciato la formula del partito dei militanti professionali della rivoluzione, in polemica con Martov, fino a condurre i bolscevichi alla scissione dal Partito socialdemocratico operaio russo nel lontano 1905.

L’applicazione dell’ideologia leninista, accettata da tutto il PCI, non poteva essere pertanto una applicazione meccanica, ma doveva nascere da una interpretazione creativa che permettesse di adeguare la sostanza del leninismo alle condizioni particolari della lotta comunista in una società come quella italiana, in coerenza con la politica di unità democratica antifascista perseguita dai comunisti fin dal 1943, con la famosa svolta di Salerno. Di conseguenza l’organizzazione del PCI, sulla direttrice delle tesi di Togliatti, si andò sviluppando su un nuovo modello organizzativo. Questo modello era caratterizzato da una larga apertura ideologica verso i lavoratori di ogni ceto e di ogni credo che accettassero il programma politico del partito: per ciò stesso il partito da organizzazione leninista di professionisti della rivoluzione, nella quale secondo la formula di Lenin “fa parte del partito solo chi lavora per il partito“, si trasformava in un’organizzazione a larga base di massa. In questa organizzazione, tuttavia, il potere decisionale, le direttrici operative vengono affidate esclusivamente ad un apparato di quadri-funzionari, selezionati e maturati con un lento e costante lavoro di affinamento politico e ideologico, di provata abnegazione al partito, e di incondizionata fedeltà al gruppo dirigente. Il PCI si organizzava, cioè, come una sorta di fronte popolare al suo interno, caratterizzato da una rigida guida leninista e stalinista del gruppo dirigente del suo apparato.

In una situazione come quella dei primi anni del dopoguerra fu relativamente facile al Partito comunista trovare un numero sempre più nutrito di quadri tra le masse di operai e di intellettuali prive di occupazione; ai militanti che si dedicavano al lavoro di partito full time, come diremmo oggi, il PCI offriva non solo una retribuzione, ma la possibilità di un affinamento politico e ideologico che attirava i quadri migliori del movimento operaio; ed insieme con la carriera politica, anche la possibilità di una collocazione a breve scadenza nel sistema di potere statuale la cui conquista da parte delle sinistre poteva apparire imminente.

La costituzione di questo apparato permise al PCI di iniziare fin da allora quella esperienza organizzativa ed elettorale che doveva permettere ad esso, nel volgere di tre anni, di divenire il secondo partito italiano, scavalcando il Partito socialista. I comunisti adottando un tipo di organizzazione meno democratico del PSIUP, ma più efficace e moderno, si posero cosi immediatamente in grado di accorciare le distanze, nonostante il rilevante svantaggio di partenza, sul piano organizzativo ed elettorale.

L’azione dell’apparato comunista contro l’autonomia del PSIUP

La posizione fusionistica della maggioranza del gruppo dirigente del PSIUP permetteva all’apparato comunista, articolato e capillarizzato, di dare inizio a quell’azione di controllo e di egemonizzazione sulla base socialista, i cui risultati dovevano prodursi in modo lampante nello spazio di un solo anno.

La decisione del Consiglio nazionale del PSIUP apriva un ampio, forse insperato terreno di iniziativa al Partito comunista, che non si faceva scappare l’occasione di intraprendere una efficace opera diretta a intervenire con il suo apparato nella vita interna del Partito socialista.

L’unità d’azione era venuta assumendo in molti casi il carattere di una vera unità organizzativa con la formazione di giunte miste permanenti in sede locale, perfino sezioni miste, giornali comuni tra i due partiti. In questi termini le minoranze socialiste denunciarono immediatamente i pericoli dell’unità di azione ormai intesa come avvio alla fusione tra i due partiti, per cui l’affievolirsi della opera di organizzazione e di propaganda del PSIUP fu senza dubbio dovuta al fatto che si giunse a credere che essa fosse inutile. Cosà commenta “Critica Sociale”: “Sembrava potesse supplire l’azione che con maggiori mezzi e più saldo apparato andava compiendo il Partito comunista, col quale avremmo dovuto prossimamente costituire un unico corpo e un’unica anima”.

La prospettiva della fusione immediata comportava dunque, per la presenza di una forte organizzazione di apparato del PCI, un automatico annebbiamento della fisionomia autonoma del PSIUP, sul piano operativo, organizzativo e propagandistico, che già prefigurava alle masse lavoratrici e alla base socialista quella che sarebbe stata in realtà una eventuale fusione: niente altro che la costituzione di un partito unico dei lavoratori, dominato e controllato dall’apparato del PCI. In un partito di questo genere i lavoratori socialisti sentivano per istinto che essi avrebbero visto fatalmente declinare ogni caratterizzazione democratica del socialismo. La “paura” di cui parlava Nenni, la paura “di non essere più noi, in un partito unificato, di non portarci quel nostro senso umano del socialismo, che è la nostra caratteristica e che deve restare la nostra caratteristica” appare sempre più come una paura reale, che suscita le apprensioni della base e dei quadri socialisti, ne stimola la reazione contro la decisione fusionista del consiglio nazionale del luglio 1945.

La crisi del fusionismo

La “paura” della fusione si trasferisce rapidamente dalla base ai vertici del partito; ed investe la stessa maggioranza che nel Consiglio nazionale aveva proposto la fusione.

C’è una legge sociologica di autoconservazione dei gruppi dirigenti che li spinge a reagire istintivamente in senso negativo anche alle loro convinzioni politiche, quando la prassi dimostra che queste convinzioni, ove trovino attuazione, possono condurre alla distruzione del potere politico dello stesso gruppo dirigente che le professa.

Indubbiamente questa legge deve aver operato sul gruppo dirigente “fusionista” del PSIUP, posto di fronte alle conseguenze della propria scelta, se esso, solo pochi mesi dopo la decisione del luglio, compie un passo indietro sulla via della unità organica con il PCI.

Nella sessione del comitato centrale dell’ottobre successivo e la stessa maggioranza del PSIUP che dichiara inattuale il problema della fusione. Essa non rinuncia, naturalmente, alla prospettiva dell’unità organica: ma avverte che le condizioni della unificazione non sono ancora mature. In realtà la maggioranza del PSIUP ha constatato de visu l’illusione di una unificazione che si traduca se non in un assorbimento dei comunisti nel più numeroso Partito socialista, almeno nella possibilità della costituzione di un partito unitario nel quale le caratteristiche proprie, e con esse il potere politico del gruppo dirigente socialista, avrebbero potuto essere salvaguardati e garantiti.

L’evoluzione dei rapporti tra i due partiti dal luglio all’ottobre ha dimostrato invece che se il PSIUP conta più adesioni ed un maggior numero di elettori del PCI, questo è però molto più forte organizzativamente, per i mezzi finanziari di cui dispone e per l’apparato che ha costituito. Il PCI non solo è più forte del PSIUP allo stato dei fatti, ma tende a divenirlo sempre più, perché esso procede speditamente sulla via del potenziamento del proprio apparato, mentre il PSIUP, nell’ostinazione di un’unificazione organica tra i due partiti, tende addirittura a disarmare sul piano organizzativo e propagandistico.

Il comitato centrale del PSIUP vota pertanto una mozione, presentata da Pertini, Morandi e Silone, nella quale non si parla più di fusione o di partito unico, ma si ribadisce la “ferma volontà del partito di restare fedele alla sua natura di organizzazione genuinamente democratica dei lavoratori Italiani e di interprete di tutte le aspirazioni di libertà politica e di giustizia sociale” e si delimitano i rapporti con i comunisti sul piano dell’unità d’azione.

Da queste affermazioni sembra trasparire un giudizio limitativo della capacità democratica del Partito comunista, in contrapposto al chiaro e inequivocabile impegno assunto dal Partito socialista, e alle garanzie in tal senso che esso dà alle classi lavoratrici e a tutti i ceti di un paese che è appena uscito da una ventennale avventura totalitaria.

La mozione del comitato centrale, a differenza della risoluzione del Consiglio nazionale del luglio precedente, appare come l’espressione di una consapevolezza che si fa strada nell’ambito della classe dirigente socialista, del fatto che, restando immutate le condizioni che rendono necessaria l’unità d’azione politica tra i due partiti, l’impostazione dei rapporti tra di essi data dal PCI, e la scelta di una organizzazione interna di tipo leninista hanno pregiudicato la possibilità di una unificazione socialista a breve scadenza.

La scelta organizzativa del PCI, che prefigura un partito unificato dominato dall’apparato comunista, è in realtà una scelta non solo pratica, ma ideologica e politica. L’errore del gruppo dirigente socialista è appunto quello di non aver approfondito, o di non aver voluto approfondire, le origini e le conseguenze di quella scelta. Il riconoscimento delle vere ragioni che avevano condotto il PCI ad organizzarsi in coerenza con i suoi principi leninisti, adeguandoli alla concreta realtà della situazione italiana, doveva derivare al PSIUP proprio dai tentativi di egemonizzazione che l’apparato comunista intraprendeva nei suoi confronti.

Questi tentativi, oltre a rivelare l’intento del PCI di giungere a monopolizzare intorno alla sua politica lo schieramento della sinistra in Italia, erano rivelatori della natura antidemocratica dell’apparato comunista, e della “doppiezza” che comincia allora a delinearsi nel Partito comunista italiano tra le enunciazioni formali di fedeltà ai principi di democrazia e di autonomia, e la sua prassi politica, che si muove in senso del tutto contraddittorio con questi principi. Peraltro, la decisione del comitato centrale del PSIUP, non fa affatto cessare questi tentativi. Essi, invece, si intensificano.

Togliatti, parlando a Torino, il 2 novembre, polemizzava contro il gruppo della Critica Sociale, accusandolo di ostacolare il processo di unificazione organica. Il leader comunista non risparmiava nella sua critica la stessa maggioranza del PSIUP, dichiarando che essa aveva ceduto alle pressioni del gruppo di Critica Sociale, affermando la inattualità della fusione. Il segretario del PCI giungeva a minacciare la direzione del PSIUP che ove essa non si fosse adoperata per una rapida maturazione delle condizioni della fusione, il partito avrebbe indetto un’agitazione nelle fabbriche per denunciare al proletariato le “manovre” socialiste per sabotare l’unità operaia.

L’intimazione di Togliatti fu ripetuta da centinaia di oratori comunisti nelle piazze di tutta Italia; e ribadita da Longo in un articolo sull'”Unità”, e nella relazione al congresso nazionale del Partito comunista. Essi, a riprova dell’efficacia del metodo intimidatorio adottato, indicarono negli avvenuti accordi elettorali con la formula del “blocco” realizzati tra socialisti e comunisti nelle elezioni amministrative, l’avvio alla unificazione organica dei due partiti, da essi considerata in via di maturazione, nonostante la decisione negativa del comitato centrale del PSIUP. Il Partito comunista aveva infatti rapidamente avvertito il pericolo, per le sue pretese egemoniche, della riaffermazione autonomistica contenuta nella risoluzione del comitato centrale socialista, alla quale era seguita una ripresa organizzativa del PSIUP.

Il gruppo dirigente comunista, forte del suo apparato, correva ai ripari, tentando di rovesciare i termini della questione: addossando cioè al PSIUP la responsabilità della mancata unificazione proletaria che ricadeva invece esclusivamente sul PCI, il quale aveva dimostrato di non essersi affatto svincolato da una concezione ideologica e politica di carattere totalitario, che non offriva nessuna garanzia democratica per una eventuale fusione tra i due partiti.