L’ITALIANO DELLA POLITICA TRA PRIMA E SECONDA REPUBBLICA: CONCLUSIONI

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “G. D’ANNUNZIO”

CHIETI – PESCARA

DIPARTIMENTO DI LETTERE, ARTI E SCIENZE SOCIALI

CORSO DI LAUREA IN FILOLOGIA, LINGUISTICA E TRADIZIONI LETTERARIE

L’ITALIANO DELLA POLITICA TRA PRIMA E SECONDA REPUBBLICA

RELATORE CORRELATORE

Chiar.mo Prof. Emiliano Picchiorri Chiar.ma Prof.ssa Maria Teresa Giusti

LAUREANDO

Dario Lorè

Matricola n. 3171312

ANNO ACCADEMICO 2016/2017

 

[avatar user=”Dario Lore” size=”thumbnail” align=”left” /] di Dario Lorè

Alla fine di questo lavoro, per l’ampiezza e la complessità del materiale analizzato, è giusto fare delle considerazioni. Il linguaggio utilizzato nell’ambiente politico in questi ultimi anni è direttamente condizionato dalle trasformazioni che la politica sta subendo, trasformazioni dalle mille sfaccettature, la maggior parte delle quali destano preoccupazione. Questa ricerca ne è la dimostrazione in ogni suo aspetto.

E allora viene spontaneo farsi delle domande: è in crisi la democrazia? È in atto un irrimediabile deterioramento dei regimi democratici, tale da lasciare presagire un triste futuro, una fine irreversibile? È sempre più accentuato il contrasto tra democrazia e demagogia, perché si fa un uso spropositato, individuale e personalistico della prima a tal punto da derivare nella seconda. <<La democrazia non gode nel mondo di ottima salute, e del resto non l’ha mai goduta anche in passato, ma non è sull’orlo della tomba>>[1]. Una riflessione di Bobbio ci aiuta a non insistere su accenti negativi; realistica e disincantata, e insieme animata da una grande passione civile, sortisce piuttosto esiti di vigile ottimismo e di pacata speranza. È possibile <<rendersi conto delle contraddizioni in cui versa una società democratica senza smarrirvisi, riconoscere i suoi vizi congeniti senza scoraggiarsi e senza perdere ogni illusione nella possibilità di migliorarla>>.

A tutto questo va appunto accostata l’importanza del linguaggio, perché attraverso la sua forza è capace di veicolare il progetto democratico. Qui abbiamo principalmente osservato le differenze occorse tra la Prima e la Seconda Repubblica. In questa differenza si è rilevato il fulcro della ricerca, segnalando a tratti involuzioni e a tratti evoluzioni della lingua, a riprova del fatto che il progresso non sempre porta con sé venti di positività. Più e più volte negli ultimi anni la grammatica italiana si è vista “mancata di rispetto” – se così si può dire – da parte di numerosi uomini politici.

Nonostante tutto, oggi, grazie alla rete, lo spazio della parola si è allargato a dismisura. Questo consente a ogni parola, specie se furbamente falsa, di raggiungere in pochissimo tempo un numero di persone impensabile fino a poco tempo fa. È anche così che le parole stanno paralizzando la politica. I demagoghi, però, c’erano anche quando l’agorà non era quella planetaria di Internet, ma solo una piazza della polis di Atene. <<E già all’epoca si poneva la questione della parresìa su cui>>, come ricorda Antonelli, <<si è soffermato anche Michel Foucault in una serie di conferenze tenute a Berkeley nel 1983. La parresìa (parola che appare per la prima volta in Europide) è una sorta di libertà di parola a cui è strettamente legata la nozione di verità. O almeno di sincerità: l’etica di parresìa prevede che ciascuno dica ciò che effettivamente pensa, ciò che effettivamente crede vero>>[2]. Questa trova il suo limite e la sua negazione nella retorica. Come spiegava bene Lorella Cedroni, <<la pratica della parresìa nell’antica Grecia a un certo punto si altera, rivelandosi, così, pericolosa per la democrazia: se ciascun cittadino può dire la sua e tutte le opinioni si equivalgono avendo pari dignità, l’accesso alla verità diventa problematico e, a volte, definitivamente precluso. Sorge allora l’esigenza di stabilire chi è titolato a esprimere la verità, avendo le capacità cognitive per discernere il vero dal falso>>[3].

E allora guai a considerare la tecnologia – Internet, i social network, gli smartphone – come qualcosa di negativo in sé. Si finirebbe col perpetuare quell’atteggiamento apocalittico troppo spesso assunto da una parte degli intellettuali italiani. E invece non bisogna fare l’errore storico che fece la sinistra demonizzando la televisione, in base a quell’atteggiamento di odio verso la novità che anche Pasolini aveva ereditato dalla scuola di Francoforte: <<la televisione emana da sé qualcosa di spaventoso>>[4]. Un atteggiamento che è durato per tutto il Novecento (ancora negli anni novanta, Bobbio sosteneva che la televisione era <<naturaliter di destra>>[5]) e ha finito col preparare il terreno all’avvento di Berlusconi.

Lo stesso rischia di succedere ora con Internet e il movimento di Grillo. Nella mistica grillista si avverte la continuazione di quella mitologia che ha accompagnato la rete al momento della sua apparizione. È questa la sensazione di Giuseppe Antonelli che, personalmente, mi sento di condividere dopo aver scandagliato con attenzione le reti sociali e lo sproporzionato utilizzo fattone dai nostri politici. Quella della rivoluzione digitale come rivoluzione non solo culturale e antropologica, ma anche politica. Una visione utopica e totalizzante di cui ultimamente ha fatto argomento di ricerca Evgeny Morozov in un libro intitolato Internet non salverà il mondo.

La rete non è né di destra né di sinistra: la rete è solo un mezzo. E il mezzo non è il messaggio né tantomeno il linguaggio. Bisogna reagire a questo determinismo tecnologico, cominciando col ripensare daccapo l’uno e l’altro. Partendo non dalle esigenze comunicative della rete, non dai dettami del marketing politico o dai risultati dell’ultimo sondaggio, ma dall’analisi della realtà. Prima il messaggio e poi il linguaggio.

In un dibattito del 1968, l’onorevole Malagodi esprimeva <<l’augurio che il nuovo governo possa agire per servire esclusivamente gli interessi obiettivi dell’Italia e non in vista della realizzazione di forme politiche eventuali e future delle quali è difficile oggi immaginare e valutare il contenuto concreto>>[6]. Con quella tipica “formula incantatoria” volutamente indecifrabile i liberali negavano fiducia al centrosinistra. Niente di più distante dallo stile politico attuale, tutto frasi brevi, enunciati diretti e <<vaffa>>, privo di sfumature e omologato sì, ma verso l’urlo e non verso i mezzi toni. Quella che Eco definiva <<pericolosa vacuità>> non viene più declinata per via di concettosità astratte, ma per via di una pseudo concretezza solo in apparenza più accessibile. Innumerevoli gli esempi: <<Dobbiamo creare competenze nella scuola e ripartire dalla capacità italiana di fare le cose>> (Renzi), <<Noi riteniamo che uno Stato moderno civile debba assolutamente trovare il modo di dare ai cittadini quanto a loro manca per passare una vita dignitosa>> (Berlusconi), <<Io non voglio che le pensioni ce le paghino gli immigrati che alla fine non pagheranno niente>> (Salvini), <<L’emigrazione? Bisogna affrontare questo tema con la volontà di risolverlo>> (Di Maio).

Applausi! Vacuità più casereccia che in passato. Ma che cosa è cambiato ancora in cinquant’anni nel discorso politico? La “formula incantatoria” degli uni non convive più con l’argomentazione persuasiva ma con la formula stregonesca degli altri. Uguale e (neanche tanto) contraria alla prima. Un finale – se così possiamo dire, ma ci si augura che non lo sia – già prospetto anche da Baumann. La <<pericolosa vacuità>> di Eco, infatti, possiamo riscontrarla anche nella <<società liquida e sotto assedio>>.

 

 

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