GLI EFFETTI DEL “COMPROMESSO RIFORMISTA”

Con il congresso di Ancona del 1914 poteva dirsi conclusa quella fase, di grande importanza storica, nella quale l’ala riformista socialista aveva guidato, sia pure con alterne vicende, il partito, riuscendo a realizzare alcuni obiettivi fondamentali tra quelli indicati dal programma “minimo” varato da Imola all’inizio del secolo. Questa fase aveva coinciso con una forte espansione organizzativa ed elettorale del PSI.

Momenti fondamentali di questa politica erano stati quelli in cui, pur tra tante contraddizioni, il PSI era riuscito a trovare punti di congiunzione con quelle forze della democrazia liberale, guidate da Giolitti, da cui erano sortiti effetti benefici e positivi per tutto il sistema sociale e politico nazionale. Quello che potrebbe essere definito il “compromesso riformista” si sviluppa praticamente lungo l’arco di un quindicennio e in gran parte coincide con la guida del governo da parte di Giolitti. Basti pensare all’attuazione, nel 1902, della legge sul lavoro dei fanciulli e delle donne, che costituisce una pietra miliare nella storia dell’evoluzione sociale in Italia. Essa fu, in un certo senso, il segnale d’avvio di un ciclo politico che, pur nelle sue intermittenze, presentò uno sviluppo unitario e sostanzialmente organico. Già prima di quella legge il movimento dei lavoratori Italiani aveva tratto notevoli vantaggi dal dialogo e dalle convergenze tra dirigenza riformista socialista e democrazia liberale. Fin dall’epoca dei Fasci siciliani apparve evidente la differenza tra la politica giolittiana e quella repressiva di Crispi, Di Rudinì, Pelloux e Saracco.

L’atteggiamento di Giolitti nei confronti delle controversie del lavoro fu democratico e fattivo. Egli affermò il principio della neutralità tra padroni e lavoratori nei conflitti di lavoro, anche i più aspri, da parte dello Stato, che non doveva intervenire a sostegno di una delle parti in conflitto. Principio che sfatava la veridicità del dogma marxista, per cui lo Stato costituiva comunque la protezione giuridica degli interessi della borghesia. E ciò favoriva il revisionismo teorico dei riformisti, e, di conseguenza, il loro positivo pragmatismo politico. Non sempre questo principio fu applicato: e molte violazioni ad esso si registrarono nelle campagne e nel Mezzogiorno, dando voce alla protesta di esponenti politici e di intellettuali come Salvemini. In effetti, la politica giolittiana trovava più facili condizioni di attuazione nelle aree più evolute economicamente e socialmente del paese, che non in quelle più sfortunate e nelle quali la borghesia era più debole e insieme più miope politicamente. Al di là di questa contraddizione, non di poco conto, l’effetto determinante che il “compromesso riformista” ebbe sulle possibilità di espansione della forza organizzata dei lavoratori e di garanzia dei loro diritti individuali e collettivi, si evidenzia proprio negli anni dell’accantonamento di Giolitti, dopo lo scandalo della Banca Romana: gli anni della repressione autoritaria, fino ai fatti del 1898 e gli inizi del secolo.

Il governo Zanardelli con Giolitti agli Interni segnò il vero punto di svolta. La differenza nello stile di comportamento con i governi precedenti risultò subito in maniera trasparente. “Gli scioperi del 1901 e del 1902 furono il banco di prova della politica democratica che il ministero si era impegnato ad adottare. La prova fu superata in maniera brillante: veramente l’Italia aveva voltato pagina e la politica repressiva dell’ultimo scorcio dell’Ottocento era solo un brutto ricordo“. Questa volta trovò riscontro sul piano legislativo: i socialisti ottennero importanti concessioni: oltre alla legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, l’aumento degli stipendi ai ferrovieri, il riconoscimento legale delle associazioni operaie e delle leghe contadine, le provvidenze per i poveri colpiti da pellagra e da malaria ecc… Il “pacchetto” di provvedimenti realizzati in quel biennio servì a Turati, Bissolati e compagni per tenere a bada le correnti di “sinistra” nel partito, fino al congresso di Imola, dove tra le due “anime” socialiste si addivenne ad una unità del tutto fittizia, ma che permise il varo di quel programma “minimo” che rappresentò il punto di riferimento del PSI in tutto il periodo successivo, fino al 1914.

Sull’onda di questa positiva collaborazione – che non si concretizzava tuttavia nell’appoggio al governo – Giolitti aveva assunto l’iniziativa delle dimissioni da ministro degli Interni, per varare una coalizione governativa da lui presieduta, con la partecipazione dei socialisti, o con il loro sostegno. Non ottenne né l’una, ne l’altra, perché i riformisti non potevano assumersi la responsabilità di una rottura clamorosa con le altre tendenze del partito, che avrebbe potuto condurre ad una lacerazione probabilmente insanabile.

Non per questo il dialogo e la collaborazione ebbero a cessare. I socialisti assecondarono in Parlamento tutte quelle iniziative legislative di stampo riformistico che il gabinetto presieduto da Giolitti propose, dalla sanità alla giustizia, all’istruzione e per favorire un’evoluzione delle regioni meridionali, fino a che l’ala sindacalista rivoluzionaria alleata con quella massimalista non prevalse nel congresso di Bologna del 1904, ed impose lo sciopero generale nel settembre dello stesso anno. Lo sciopero si rivelò un fallimento e preluse a nuove elezioni, dalle quali i socialisti uscirono indeboliti, come i radicali: non fu Giolitti a beneficiarne, la situazione gli era sfuggita dalle mani, e paradossalmente i deputati socialisti concessero a Sonnino quell’appoggio al governo che non avevano mai concesso a Giolitti.

Successivi momenti di incontro si realizzarono dopo il congresso di Roma del 1906, con l’inserimento nel programma di governo da parte di Giolitti di provvedimenti richiesti dai socialisti (miglioramenti salariali, provvidenze per le regioni meridionali, conversione della rendita, oltre al riconoscimento della giustezza delle critiche dei socialisti per lo scandalo delle commesse alla Società Terni), e, nel 1912, in occasione del varo della legge elettorale che estendeva ampiamente il suffragio, con il riconoscimento dell’indennità a parlamentari e con il monopolio delle assicurazioni sulla vita.

Nel frattempo s’era inserito nel dialogo un nuovo interlocutore: la Confederazione generale del lavoro che, legata da un patto di solidarietà e d’azione comune con il PSI, e in particolare con la sua ala riformista, sapeva farsi valere dal governo, e ottenere oltre a riforme normative essenziali, anche benefici concreti come ad esempio cospicue sovvenzioni alle cooperative.

Compromesso, dunque: perché mai si trattò di alleanza, e soprattutto di una alleanza organica, quale sarebbe stata suggellata da una partecipazione socialista al governo. Giolitti, com’è noto, l’aveva proposta ripetutamente, ma non sappiamo quanto realmente auspicata, sia dai leader riformisti sia, successivamente, da Bissolati dopo la divisione dell’ala riformista.

Compromesso anche, però, perché entrambe le parti, pur coincidendo nella valutazione di una svolta democratica dopo il 1900, e sulla necessità di avviare un processo di modernizzazione del paese, conservarono obiettivi e ispirazioni diversi o addirittura opposti tra di loro, come diversi erano i referenti sociali, spesso in conflitto tra di loro, seppero scrivere insieme un capitolo di civiltà e di tolleranza, dal quale furono favorite entrambe, e con loro tutta l’Italia.