L’ACCORDO CON GIOLITTI

Giolitti, per prendere tempo e far maturare gli avvenimenti, “passò la mano” al suo luogotenente Fortis, il cui governo realizzò la statizzazione delle Ferrovie: e questo fu un avvenimento che favorì il reinserimento dei socialisti nel dialogo con le forze democratico-liberali. Paradossalmente questa operazione non si realizzò con Giolitti, né a favore di Giolitti. Bensì in occasione della costituzione del governo presieduto da Sidney Sonnino, un uomo politico molto più conservatore di Giolitti, contro il quale c’era stata un’improvvisa rivolta di una parte della sua stessa maggioranza.

Tornato Giolitti al potere nel giugno del 1906, s’inaugura quel suo lungo ministero che durerà sino alla fine del 1909, che permise di conseguire utili risultati all’azione dei socialisti, specie sul terreno dei diritti di libertà e della legislazione sociale. Due avvenimenti contrassegnarono la vita del movimento socialista in quel biennio: la nascita della Confederazione generale del lavoro, guidata da Rinaldo Rigola, e alleata del partito, cui sarà legata con un patto formale nel 1917; si opera un riavvicinamento all’interno del PSI tra i riformisti e gli “integralisti” di Ferri. Quest’ultima corrente prevale nel IX congresso che si svolge a Roma, dal 7 al 10 ottobre 1906 grazie all’appoggio che alla mozione degli “integralisti” dettero i riformisti. Furono 26.947 i voti a questa mozione, contro i 5278 dei “sindacalisti rivoluzionari” e i 1101 voti ad una mozione di “rivoluzionari intransigenti” di Lerda. Una notevole quota fu raggiunta dagli astenuti (757).

Un anno dopo, nel luglio del 1907, l’ala “sindacalista rivoluzionaria“, sempre più minoritaria nel sindacato e nel partito, decide la scissione e inizia un avventuroso percorso politico che condurrà molti esponenti e militanti nelle fila del movimento fascista.

Turati riconquista il partito nel successivo congresso, il X, che si tiene a Firenze dal 19 al 22 settembre 1908. E una concentrazione di riformisti e di ex integralisti, con l’appoggio della Confederazione generale del lavoro, che riporta la maggioranza dei voti. L’ordine del giorno “concordato“, sottoscritto da Modigliani, contro i 6520 di Morgari e i 6001 degli “intransigenti“.

Tra l’altro, il documento della maggioranza conteneva, oltre alla richiesta di ampliamento della legislazione sociale, quella di abolizione del dazio del grano e l’opposizione ad ogni aumento delle spese militari.

Il congresso approvava all’unanimità un ordine del giorno di Gaetano Salvemini per l’introduzione del suffragio universale, esteso anche ai lavoratori analfabeti che nel Mezzogiorno erano la maggioranza. Questa misura, insieme con la richiesta di abolizione del dazio sul grano (con la quale i socialisti si allineavano alle posizioni antiprotezionistiche della cultura liberale) rappresentavano due provvedimenti ritenuti indilazionabili per la modernizzazione delle regioni meridionali, e per dare, con l’estensione del suffragio, una rappresentanza politica alle masse contadine che non avevano diritto al voto.

Intanto, però, s’approfondisce la divergenza tra una parte ‘dei riformisti che fanno riferimento a Bissolati e a Bonomi, che, richiamandosi a Bernstein, spingono alle estreme conseguenze la posizione revisionistica, fino a contestare la stessa legittimità del partito a rappresentare gli interessi della classe lavoratrice, e la parte della corrente che con Turati e Modigliani ha assunto la guida del PSI e del gruppo parlamentare, sostenuta dai socialisti della CGL. A Modigliani si riconduce anche Salvemini che insiste sulla esigenza di abbandonare la visione protettiva delle fasce operaie più forti e organizzate del Nord, per rivolgere l’azione socialista maggiormente a favore dei “cafoni” delle regioni meridionali.

Nell’XI congresso, che si svolge a Milano dal 21 al 25 ottobre 1910, è Turati che tiene la relazione generale, nella quale traccia un quadro approfondito dell’azione riformista del primo decennio del secolo e della sua ispirazione culturale e ideale.

Egli sostiene in modo lucidissimo che l’evoluzione della società aveva condotto al superamento del concetto marxista Stato per cui la “vera azione socialista” nasceva da “questa revisione del marxismo primitivo“. “Il proletariato si riconosce – egli aggiungeva – come uno dei massimi fattori del progresso economico”. Il socialismo “mescolandosi al presente” con l’azione riformatrice non poteva tralignare nel radicalismo o nel laburismo, se non si perdevano di vista le finalità generali. In questo modo, concludeva Turati, “ogni passo in avanti, e se pur breve, sulle presegnate direttive, varrà sempre meglio delle iperboliche promesse, scritte nel presagi. La riforma, così intesa, è la rivoluzione senza il bluff. È la rivoluzione in cammino“.

In questo congresso fa il suo esordio oratorio Mussolini, che critica tutto e tutti, liquidando come contrastanti col fine della rivoluzione riforme, azione parlamentare, suffragio universale. Curiosità storica: Mussolini dedica il finale del suo discorso al “cliché ” della patria, “nel nome del quale si pompa il sangue alla miseria del proletariato“. Turati prevale con 13.000 voti contro i 5928 voti che vanno alla mozione “rivoluzionaria” di Lazzari. Il documento della “sinistra riformista” di Modigliani raccoglie però 4547 voti.

In questo congresso si verificava la suddivisione della componente riformista in tre tronconi: a quello guidato da Turati, che riesce a vincere nelle votazioni finali riuscendo ad assorbire, momentaneamente, la dissidenza del secondo troncone di Bonomi, Bissolati e Cabrini (i quali nei loro interventi giungono a prospettare la formazione di un “partito del lavoro” che sostituisca il PSI) si contrappone il terzo troncone costituito dalla “sinistra riformista“, nata dalla separazione del gruppo che fa capo a Modigliani, Morgari e Salvemini.

Era il germe di una futura separazione, che porterà fuori del PSI uomini come Bissolati e Bonomi, i quali avevano fortemente contribuito, tanto nel piano politico e organizzativo, quanto nel piano teorico, alla crescita del partito.

Alle elezioni del marzo 1909 i socialisti salgono a 42 deputati. Costa viene eletto alla vicepresidenza della Camera. Nella nuova Assemblea, emerge il problema delle spese militari. I socialisti dicono di no alla richiesta di uno stanziamento aggiuntivo di mezzo miliardo, trovandosi da soli all’opposizione, con una linea dettata dagli ideali pacifisti.

Dimessosi Giolitti nel dicembre 1909 – a seguito del rifiuto della Camera al suo progetto di riforma fiscale giudicato insufficiente dai socialisti ma, in realtà, per sottrarsi alla scelta dei gruppi da favorire con le Convenzioni marittime da parte dello Stato – dopo un altro breve governo di stampo conservatore presieduto dal Sonnino, era Luigi Luzzati che formava il nuovo ministero, includendovi i radicali Sacchi e Credano, ottenendo il voto favorevole dei socialisti.

Il voto socialista fu motivato dalla promessa del nuovo governo di allargare il suffragio, di finanziare le cooperative agricole in gravi difficoltà economiche, di ampliare la legislazione sociale con l’istituzione, tra l’altro, della Cassa di maternità per le lavoratrici (marzo 1910). Ma il consenso socialista fu ritirato alla fine dell’anno, a ragione del comportamento del governo sulla questione delle cooperative agricole, che fu di ostilità nei confronti delle cooperative socialiste della Romagna.

All’atto della costituzione del suo nuovo governo nel marzo 1911, Giolitti aveva offerto un ministero a Bissolati, che si fece ricevere dal re, ma poi rifiutò. “Partecipazione al potere? – commentò Turati -. Si dovrebbe forse; non si può certamente“. I socialisti votarono tuttavia la fiducia mentre i conservatori la rifiutarono. Il governo presentava ben presto il progetto per il monopolio statale dell’assicurazione sulla vita, con la creazione dell’Istituto nazionale delle assicurazioni.

Di fronte all’opposizione conservatrice la forza parlamentare socialista fu decisiva. Veniva votata la legge sulla ispezione del lavoro e veniva inoltre riconosciuta al sindacato ferrovieri la rappresentanza legale del personale di fronte alla direzione dell’azienda.

Nel giugno 1912, sempre con il voto socialista, veniva approvata la più importante legge dell’epoca giolittiana: la legge elettorale che estendeva il diritto di voto agli alfabetizzati con 21 anni compiuti; agli analfabeti con 30 anni compiuti e a tutti coloro di qualsivoglia età che avessero assolto il servizio militare. Essa concedeva altresì quella indennità ai deputati che i socialisti avevano chiesto fin dal loro ingresso alla Camera. I socialisti avanzavano questa richiesta perché rappresentavano ceti sociali meno abbienti: i loro eletti si trovavano in difficoltà ad esercitare un mandato parlamentare che era stato fino allora del tutto gratuito. Tanto è vero che già al IV congresso nazionale nel 1896 avevano preso la decisione di stabilire un fondo di L. 350 mensili per ciascun deputato, che doveva rilasciare un riconoscimento annuale delle spese sostenute.

Il XII congresso (Modena, 15-18 ottobre 1911), tenutosi a solo un anno di distanza dal precedente, è certamente uno dei più drammatici di quegli anni. Esso si svolge sotto il segno dell’impresa libica avviata da Giolitti, alla quale s’era opposta la maggioranza dei socialisti, e con essi la Confederazione generale del lavoro, che promuove lo sciopero generale del mese di settembre, un mese prima del congresso. L’impresa libica divide però i socialisti e fa precipitare la crisi del riformismo, di cui s’erano manifestati già i prodromi a Milano.

La crisi del rapporto con Giolitti

Contro l’avventura libica di Giolitti si schierò la stragrande maggioranza dei socialisti, anche se un nugolo di deputati si dissociò dal partito e assunse una posizione favorevole all’intervento (Bissolati, Ferri, Bonomi, Podrecca e Arturo Labriola).

Un grande sciopero generale venne indetto dalla Confederazione del lavoro nel settembre del 1911.

L’impresa libica, radicalizzando i sentimenti popolari, ridava fiato all’ala rivoluzionaria che al XIII congresso, che si svolge a Reggio Emilia dal 7 al 10 luglio 1912, conquista la maggioranza del PSI. Per bocca di Mussolini, si chiede l’espulsione dell’ala bissolatiana. La mozione riceve 12.556 voti; mentre una mozione riformista di semplice biasimo ne ottiene 5633. Altri 3250 voti confluiscono su una mozione presentata da Modigliani che dichiara Bissolati, Bonomi e gli altri “essersi posti fuori del partito“.

Il rovesciamento della linea politica del partito portò Lazzari alla segreteria e Mussolini alla direzione dell'”Avanti!”. Gli espulsi formarono un partito riformista autonomo, che però se raccoglierà consensi elettorali, non sarà in grado di darsi una struttura organica e permanente. Alle elezioni del 1913, le prime che si svolgono con il suffragio allargato, secondo la nuova legge, essi avranno 26 deputati, mentre il PSI ne eleggerà 53.

La legge elettorale realizzava, seppure non ancora compiutamente, l’obiettivo socialista dell’universalità del voto, almeno di quello maschile, estendendo la platea elettorale a circa 8 milioni e mezzo di elettori. Il successo socialista nasceva tuttavia da una concomitanza con gli interessi del gruppo giolittiano, e, con esso, di una forte frazione della borghesia italiana. Infatti Giolitti si riprometteva, con la riforma e l’apertura verso il PSI, di bilanciare le reazioni all’impresa libica, con la quale aveva senza alcun dubbio accontentato interessi capitalistici e l’opinione pubblica di destra.

Inoltre, Giolitti si adoperava per indurre un’altra grande forza sociale, quella cattolica, a entrare nel gioco politico, fronteggiando la costante ascesa socialista e sostenendo il suo potere. Si trattò di un passaggio cruciale, che determinò insieme l’apogeo e l’inizio della fine della potenza politica giolittiana.

Con la regia di Giolitti, si riuscì ad istituire una fitta rete di accordi locali tra candidati liberali, quasi tutti a lui fedeli, e gruppi di elettori cattolici che li sostenevano, in cambio dell’impegno che i candidati assumevano di rispettare, una volta eletti, i punti indicati in una circolare diramata dal conte Gentiloni, presidente dell’Unione elettorale cattolica. I candidati s’impegnavano, specificamente, a opporsi ad ogni proposta di legge diretta a “turbare la pace religiosa della nazione“; a garantire l’insegnamento privato; ad opporsi al divorzio; a realizzare il principio dell’istruzione religiosa nelle scuole comunali. A seguito di quest’accordo – enfaticamente definito “Patto Gentiloni” – le autorità ecclesiastiche sospesero il “non expedit” in 330 dei 508 collegi in cui era suddiviso il corpo elettorale. Il sostegno del voto cattolico fu determinante per la elezione della maggior parte dei 304 liberali che entrarono alla Camera.

Il sostegno determinante del voto cattolico, che fu influente specialmente nel Mezzogiorno, finì alla lunga per sottrarre gran parte di quei deputati, che ne avevano usufruito, al controllo di Giolitti: essi finirono per rispondere più alle associazioni cattoliche che li avevano aiutati ad essere eletti che al prestigioso capo liberale.

L’allargamento del suffragio di per se stesso conferiva un potere maggiore alle strutture organizzate dalle associazioni, capaci di influire su larghi strati della cittadinanza. Giolitti aveva intuito questo fenomeno ed aveva operato per l’estensione del suffragio per mettere in campo i cattolici contro i socialisti. Ma finì per perdere il controllo dei gruppi parlamentari che per quindici anni erano stati alla base della sua personale egemonia nel Parlamento e nel governo.

D’altronde egli era perfettamente cosciente che l’impresa libica, che segnava l’inizio di un nuovo periodo coloniale dell’Italia, avrebbe determinato necessariamente una crisi nei suoi rapporti con i socialisti. Allo stesso tempo egli si rendeva conto che l’intesa elettorale con i cattolici (che tra l’altro elessero 30 loro rappresentanti) si prestava facilmente all’accusa di snaturare il carattere liberale e laico dello schieramento parlamentare a lui amico, prestando così il fianco alle reazioni dell’opinione pubblica democratica. Tant’è che nelle sue Memorie egli fa le veci di chi non era neppure a conoscenza dell’accordo, quando scrive poche parole a proposito di quell’avvenimento: “Gli elementi che facevano capo al partito clericale esercitarono una maggiore influenza in numerosi collegi“.

Lo scontro, nel Parlamento e nel paese, sulla guerra di Libia e le vicende connesse al cosiddetto “Patto Gentiloni” scavarono rapidamente un fossato tra Giolitti e i socialisti, tanto più che, avendo perduto i riformisti la guida del partito, all’uomo di Dronero erano venuti a mancare gli interlocutori. Questi non poterono essere i riformisti che erano usciti dal PSI, che avevano ben presto dimostrato di avere scarsa influenza e poco seguito tra le masse.

Come i riformisti avevano perso il partito, in breve tempo Giolitti, da parte sua, fu costretto a lasciare in altre mani la direzione del paese.

La crisi provocata dalle polemiche sul Patto Gentiloni, se fa perdere a Giolitti la guida del governo, accentuò l’estremizzazione del PSI, ormai ipnotizzato dalla campagna di stampa di Mussolini dalle colonne dell'”Avanti!”.

Ad Ancona, nel XIV congresso che ivi si tiene dal 26 al 29 aprile 1914, i “rivoluzionari” ottengono una schiacciante vittoria. Il loro documento risultò vincente con 22.591 voti, di contro gli 8584 dell’ordine del giorno presentato da Mazzoni per i riformisti, e i 3214 di quello di Modigliani. Il congresso decretò, inoltre, l’espulsione degli aderenti alla Massoneria.

Per una singolare concomitanza sono alcuni di questi avvenimenti – l’opposizione socialista alla guerra di Libia e l’espulsione di Bissolati e degli altri riformisti a Reggio Emilia – ad attirare l’attenzione di Lenin. Lenin era stato in Italia nel 1908 e nel 1910, a Capri, per incontrarvi Gorkij. Ma soltanto in questa fase comincia ad interessarsi organicamente ai problemi Italiani, scrivendo note di commento ad essi e seguendo attentamente l'”Avanti!” mussoliniano.

Lenin annetteva grande importanza al fatto che “gli opportunisti, con Bissolati alla testa, erano stati allontanati dal partito” e che mentre “gli operai della maggior parte dei paesi europei sono stati ingannati dall’unità fittizia degli opportunisti e dei rivoluzionari, l’Italia è una felice eccezione, un paese dove, in questo momento, non c’è un simile inganno“.

L’interesse di Lenin si manifesterà ancor di più in seguito, alle soglie del conflitto mondiale. Ma va detto che Lenin non era del tutto sconosciuto in Italia, essendo stato citato, già dal 1902, in uno scritto di Achille Loria, l’economista socialista che aveva goduto di grande prestigio, e non poche volte dall'”Avanti!” e da altre pubblicazioni del PSI, mentre la “Critica Sociale” aveva pubblicato un scritto di Rosa Luxemburg, polemico nei suoi confronti.

Gli interventi di Lenin sulla situazione italiana si intensificheranno negli anni successivi, negli anni cioè della prima i guerra mondiale e del dopoguerra, sviluppando quei temi che caratterizzavano il suo pensiero già nel primo decennio del secolo, e di cui qualche eco era giunta anche in Italia.