IL RITORNO DI GIOLITTI

Il 1920 è forse l’anno in cui vengono al pettine tutti i nodi cruciali della politica italiana. È l’anno che segna una pausa significativa nel processo di involuzione politica del movimento socialista.

Almeno agli inizi dell’anno sembra esserci qualche novità in casa socialista. Sembra attenuarsi il processo di radicalizzazione della politica della maggioranza, e da ciò deriva una maggiore influenza dei riformisti nelle scelte politiche del partito. Tant’è che Claudio Treves non esitò a parlare di “resipiscenza” della tendenza estremista. Un momento veramente interessante fu quello in cui si manifestò questa “resipiscenza” (purtroppo di natura temporanea): vale a dire in occasione della riunione del Consiglio nazionale del PSI, che ha luogo il 13 e il 14 gennaio. Vi partecipano i rappresentanti di tutte le federazioni, oltre ai parlamentari e alla direzione.

Lo stesso Serrati appare più possibilista, entrando in contrasto aperto con Nicola Bombacci, che vi rappresenta le posizioni dell’ala massimalista-astensionistica. In questo stesso Consiglio, il delegato di Torino Umberto Terracini solleva la questione sulla quale discute da qualche tempo il gruppo che fa capo a Gramsci e all'”Ordine Nuovo“: il problema dei Consigli di fabbrica, che il gruppo considera come i “soviet” dell’Italia, i possibili organismi politici del potere operaio.

Per la verità, c’è una grande confusione in proposito. Perfino Bombacci giunge a negarne il carattere politico, considerandoli solo come organismi di natura economico-sindacale, una sorta di nuova versione delle già esistenti Commissioni interne. Comunque, il Consiglio nazionale decide, con la mozione conclusiva, di assumere una posizione interlocutoria, deliberando di aprire una discussione su questo tema tra le masse operaie e gli organismi di classe. Non appare estraneo a questa sostanziale tregua il cambiamento che si verifica in quel mesi nell’atteggiamento della Terza Internazionale comunista che, nella risoluzione del 4 agosto, riconosceva la legittimità delle istituzioni parlamentari, assumendo una strategia partecipativa (decisione che influirà sull’abbandono dell’astensionismo da parte del gruppo comunista del PSI) e predicava la coesistenza tra società comuniste e borghesi.

Nella primavera, la situazione economica e quella sociale appaiono inasprite per l’aumento dei prezzi e le conseguenti ondate speculative che il governo Nitti non è in grado di controllare, e che portano alla agitazione di numerose categorie sindacali, tra le quali in prima fila quelle dei ferrovieri e quella dei postelegrafonici. Ed è proprio la vertenza di questi ultimi che offre il destro a socialisti e popolari per provocare la caduta del governo, votando insieme alla Camera un ordine del giorno che chiede l’esame di questa vertenza, il 1° maggio. Le gelosie e i risentimenti per i vecchi contrasti impediscono al PSI di sostenere o di mostrare interesse per un tentativo di Ivanoe Bonomi di comporre un ministero che sia espressione di uno schieramento compatto delle sinistre. Cosicché è Nitti che resta ancora a presiedere il governo: ma solo per breve tempo, poiché di nuovo il 4 giugno cade, questa volta perché la Camera considera un’espropriazione delle proprie competenze il provvedimento del governo che abolisce il prezzo politico del pane. Ancora una volta socialisti e popolari, divisi da tante polemiche, si uniscono nel voto per far cadere il governo.

È il momento atteso da Giolitti per tornare alla guida dell’esecutivo. Si è molto discusso e molto si discuterà sulla mancata partecipazione dei socialisti, o comunque dei riformisti e di Turati in particolare, alla iniziativa della costituzione del gabinetto guidato dall’uomo di Dronero. Ma per accedere al potere, egli dovette mettere molta acqua nel vino rosso del discorso dronerese: soprattutto tentò di ammorbidire la destra anche estrema con notevoli concessioni in politica internazionale, che ai nazionalisti e allo stesso Mussolini parvero un passo in avanti rispetto alle posizioni dell’odiato Nitti.

In un certo senso, Giolitti tentò di ripetere l’operazione del 1911, quando cercò di controbilanciare l’adesione alla politica di espansione coloniale della destra col riformismo che l’aveva visto convergere sul piano sociale e istituzionale con i socialisti. Il gioco non gli era riuscito allora, non gli sarebbe riuscito neppure nella situazione ben più difficile e deteriorata seguita al conflitto bellico.

Bisogna tuttavia sfatare la credenza che il PSI, pur in mano ai massimalisti, abbia avuto nei confronti del nuovo governo una posizione di ostilità e di intransigenza. Se da parte sua Turati non accolse l’invito a far parte di esso, nonostante le calorose pressioni dello statista piemontese, pure egli riuscì ad influenzare l’azione parlamentare del partito, che fece numerose volte da sponda alle proposte e alle iniziative giolittiane in materia di politica economica e sociale. Nonostante la dichiarazione di indisponibilità e di sfiducia nei confronti del quinto governo Giolitti, non venne a mancare il voto favorevole dei socialisti che permise l’approvazione della legge sulla nominatività dei titoli; di quella sull’aumento della tassa sugli autoveicoli; sugli aumenti delle tasse di successione e sulle donazioni.

Giolitti, che con il Trattato di Rapallo ha risolto felicemente la questione adriatica, scaccia D’Annunzio da Fiume, senza che nazionalisti e fascisti vadano molto più in là di qualche protesta. È il suo solito gioco politico: un colpo al cerchio, un altro alla botte. Allo stesso modo non interviene per arginare la violenza fascista, con l’esistenza della quale sembra voler controbilanciare la forza del sovversivismo massimalistico dei socialisti; ma non interviene nemmeno nel corso della questione sociale più scottante dell’anno 1920: l’occupazione delle fabbriche.

Tra il 1918 e il 1920 c’erano stati migliaia di scioperi nell’agricoltura e nell’industria, rivolti ad ottenere incrementi salariali. Il numero degli organizzati nei sindacati s’era enormemente moltiplicato: dai 500.000 iscritti dell’anteguerra, s’era passati a circa 4.000.000. Se le condizioni economiche e sociali erano tali da inasprire i conflitti di lavoro, e tali da rendere infuocato il clima delle agitazioni, tuttavia la tendenza riformista e gradualista, grandemente indebolita nel PSI e nello stesso gruppo parlamentare, manteneva un sostanziale controllo dell’organizzazione sindacale. Il che impediva quell’estrema radicalizzazione della lotta sociale, che pure era ventilata dalle tendenze più estreme della sinistra e della destra.

L’occupazione delle fabbriche rappresentò una cartina di tornasole per la situazione che si era creata. Secondo Nenni, appunto, “la lotta proletaria del dopoguerra ebbe il suo punto culminante in Italia durante l’occupazione delle fabbriche. Questo fu il più grande movimento sindacale non soltanto in Italia, ma nella Europa intera“.

Nell’agosto-settembre del 1919, dopo settanta giorni di sciopero, la FIOM (la Federazione italiana operai metalmeccanici) aveva ottenuto un contratto collettivo di lavoro, che era da considerare il migliore d’Europa. L’applicazione del contratto, però, determinò un nuovo contrasto tra operai ed imprenditori: questi ultimi si rifiutavano di accettare una richiesta di revisione dei salari, avanzata in conformità delle norme contrattuali. Il 21 agosto inizia l’agitazione. Otto giorni dopo, di fronte ad una minaccia di serrata da parte degli industriali, le organizzazioni sindacali danno l’ordine di occupare le fabbriche, un ordine che viene eseguito dagli operai, non dai tecnici e dagli impiegati. Il governo, fallita una mediazione del ministro del Lavoro, che altri non era se non l’ex sindacalista rivoluzionario Arturo Labriola, decide di dichiararsi neutrale nel conflitto, secondo la vecchia linea giolittiana. Al momento dell’occupazione partecipa oltre mezzo milione di operai: la questione diviene di interesse nazionale. E ad essa vengono date diverse interpretazioni politiche.

La tendenza comunista di “Ordine Nuovo” vede in essa l’avvio di un processo di costituzione di un potere rivoluzionario che deve portare alle forme auspicate della democrazia dei Consigli operai. Torino rappresenta per essa il laboratorio in cui si verificano le possibilità di questo corso rivoluzionario. Per i riformisti – e per la maggioranza della CGL – la lotta riveste un carattere squisitamente economico e sindacale, ed in tali ambiti deve restare. Per i massimalisti, essa non è altro che l’episodio più importante di un movimento agitatorio che fa crescere la tensione rivoluzionaria, anche se nessuno di essi sa e dice come, e in che cosa, dovrebbe sfociare questo movimento.

Per la borghesia, per l’estrema destra essa e un gravissimo segnale d’allarme: una specie di prova generale della rivoluzione bolscevica, espropriatrice dei diritti di proprietà. “Ogni fabbrica – scrive l'”Avanti!” – è un fortilizio rivoluzionario. Sono distribuite le armi, una severa disciplina di guerra regna, generalmente, negli stabilimenti, gli incidenti ed i casi di violenza sono pochi e sporadici. La tensione nel Paese cresce di ora in ora. L’ora della rivoluzione sembra che stia per scoccare”. Così Arfé puntualizza la situazione.

La direzione del PSI ritiene che il movimento ha ormai un carattere politico, e pertanto ne rivendica la guida, probabilmente per trasformarlo in un momento insurrezionale. Di fronte all’opposizione della Confederazione del lavoro, in realtà non insiste, forse perché consapevole della insensatezza della richiesta, avanzata, ci sembra di capire più per fare onore alla propria identità “rivoluzionaria” che per convinzione politica.

La questione delle fabbriche si conclude con l’istituzione di una commissione mista di sindacalisti, industriali ed esperti governativi incaricata di formulare un progetto di legge per il controllo operaio della produzione. Ciò dopo che Giolitti, in una riunione delle rappresentanze delle due parti, convocata a Torino il 15 settembre, di fronte all’intransigenza padronale, minacciò, nel caso in cui la Confederazione degli industriali avesse perseverato nel rifiutare l’accordo, di imporre il controllo operaio con una legge che lui stesso avrebbe presentato in Parlamento. La soluzione concordata risultò soddisfacente per gli operai metallurgici, che la ratificarono con un referendum.

Risultò soddisfacente anche per i riformisti che con Prampolini non mancarono di rimarcare l’importanza del principio limitativo della proprietà privata industriale, che costituiva il fatto nuovo della conclusione concordata. Fu accolta con soddisfazione, come un successo, anche da Gramsci e dall'”Ordine Nuovo”. Fece invece storcere il naso a Serrati e ai suoi, che vedevano nell’accordo il pericolo di un rilassamento della tensione “rivoluzionaria” e dello spirito classista degli operai.

Concludendo il suo saggio Il governo Giolitti e l’occupazione delle fabbriche, Carlo Vallauri osserva: “Il comportamento del governo in quelle circostanze è l’ultima occasione che si presenta allo Stato liberale di dimostrare la capacità di sviluppare e assorbire il movimento democratico, e questa funzione Giolitti e i suoi collaboratori svolgono con senso preciso delle loro responsabilità, nella convinzione appunto che lo Stato lìberale si salvi in quanto sappia interpretare le esigenze delle masse popolari”, aggiungendo che “sono i gruppi politici che si contendono la direzione della società a intendere la necessità di salvaguardare le condizioni di sviluppo e preferiscono lottare direttamente rifiutando l’intermediazione dello Stato: si lanciano sulla strada della radicalizzazione della lotta politica“.

La questione politica era anche un’altra. La vera questione politica che si evidenziava (e che Serrati probabilmente intravedeva, temendone le possibili conseguenze) era che Giolitti si era esposto in questa vertenza in modo addirittura audace, e superando ogni limite rispetto ai propri comportamenti politici precedenti. Egli non solo aveva assicurato la neutralità del governo nel conflitto, respingendo tra l’altro le ripetute richieste di far intervenire l’esercito a tutela dei diritti di proprietà degli industriali, rompendo la sua tradizionale linea di neutralità, egli si era addirittura spostato dalla parte dei lavoratori, sostenendo la validità di un principio che andava bene anche ai comunisti di “Ordine Nuovo”, e minacciando di imporlo di propria iniziativa agli industriali riluttanti.

Nella riunione del 15 settembre, a Torino, quando s’era scontrato con gli industriali, aveva abbandonato la posizione super partes che aveva tenuto per un quarto di secolo. S’era esposto, e non soltanto con frasi retoriche, come nel discorso di Dronero, su un problema che investiva non questioni rivendicative, ma questioni di principio riguardanti l’esercizio pieno del diritto di proprietà, proponendone la limitazione a fini sociali. Giolitti era giunto a dichiarare: “Bisogna concedere ai lavoratori il diritto di sapere, di apprendere, di elevarsi in modo da essere in grado di assumere la loro parte di responsabilità nella direzione delle fabbriche“. E su questa base aveva redatto il decreto che reintegrava gli operai nel loro posto di lavoro e formulava la proposta per la formazione della Commissione paritetica, con 6 rappresentanti per ciascuna delle parti. Che la posizione di Giolitti, oltre che del tutto nuova sul piano sociale, fosse mirata in senso politico a gettare un ponte verso i socialisti, è dimostrato anche dal fatto che egli in ogni fase della vertenza sull’occupazione delle fabbriche escluse deliberatamente dalle trattative la rappresentanza del sindacato cattolico, la CIL. Era un’occasione favorevolissima, addirittura inaspettata, per un tentativo rivolto ad allacciare un rapporto positivo con il presidente del Consiglio, che tra l’altro stava per raccogliere un buon successo in politica estera, con il Trattato di Rapallo che verrà stipulato il 12 novembre; e sul piano della politica economica e finanziaria con la riduzione del disavanzo del bilancio dello Stato.

I socialisti non seppero coglierla, quest’occasione. Anzi, la maggioranza del PSI era del tutto lontana dal porsi questo problema. Turati e i riformisti (che si riuniscono in convegno a Reggio Emilia, nell’ottobre) non sono in grado di influire sulle scelte del partito, pur avendo dalla loro i sindacati.

Ancor oggi, esaminando la possibilità concreta di un’alleanza con Giolitti, ci si domanda se non sarebbe stato meglio per essi rompere gli indugi ed uscire dal partito. Ponendosi un quesito di tal genere, occorre però fare i conti con la particolare personalità del leader dei riformisti. Pur tormentato da mille dubbi, Turati non ebbe mai la tentazione di abbandonare il partito, dove ormai era in nettissima minoranza. “Questo uomo – ebbe a dire un suo discepolo, Nino Mazzoni – è stato sempre fanciullescamente innamorato del suo partito“.

Scriveva già nel 1924 Alessandro Levi, in un suo “medaglione” del capo riformista: “Turati è rimasto fedele al partito – capitano in difficili ore, in certe altre adattandosi, con singolare abnegazione, a rientrare nei ranghi di semplice soldato – per non abbandonare la colonna in marcia, per salvare dai precipizi gli illusi, per segnare agli sbandati la strada. Egli aveva additato ai bissolatiani, nel 1912, i pericoli di certe scorciatoie, che avrebbero loro fatto perdere il contatto con la carovana ascendente a fatica. “Forse non è questa la via; certo, questa non è l’ora!” aveva detto nel triste commiato, e, contro le cercate solidarietà dei dissidenti, contro le punzecchiature degli estremisti, aveva affermato, per sé e per i suoi, il diritto, “il dovere” di rimanere nel partito.

Vi rimaneva anche in quell’agitato periodo – dal 1919 al 1922, quando i massimalisti imposero la scissione degli unitari -nel quale il proletariato, ubriacato dall’alcol della violenza, che tanti, dai bakuninisti a Mussolini, gli avevano propinato anche davanti alla guerra… minacciava assai più a parole che a fatti di sconvolgere la società. E vi rimaneva appunto per questo: perché soltanto restando nelle sue fila, esposto ai colpi dei comuni nemici, egli poteva acquistarsi il diritto di compiere intero il suo dovere di socialista, di difendere dall’assalto della gente nuova l’antico patrimonio ideale, per tenerne alto il vessillo.

Non solo non si riuscì in questo modo a sfruttare sul piano politico il successo (che indubbiamente tale era, e tale appare alla luce dell’analisi storica) dell’occupazione delle fabbriche. Si determinò addirittura una situazione paradossale: difatti, l’incertezza e il senso di impotenza politica che emersero con chiarezza in quell’autunno del 1920, provocò un moto di riflusso. “La classe operaia si fece prendere dallo scoramento: calarono gli iscritti ai sindacati e gli scioperi, diminuì l’impegno politico, mentre il fronte padronale incominciava ad attrezzarsi per la rivincita“.

Addirittura i parlamentari socialisti si guardarono bene dall’insistere alla Camera perché fosse posto in discussione, per essere approvato, lo stesso progetto di legge sul controllo operaio che, sulla scorta delle indicazioni fornite dalla Commissione paritetica, Giolitti aveva presentato.

Mentre il PSI si arrovellava nella sua impotenza, incapace di scegliere tra una politica di avventura rivoluzionaria, della quale – ammesso che fosse stata auspicabile – non c’era nessuna premessa e nessuna possibilità, aumentavano dappertutto le avversioni nei suoi confronti. In tutte le classi sociali, ormai, non solo nelle fila della borghesia industriale ed agraria, ma nello stesso popolo minuto, nella piccola borghesia, tra i commercianti, tra i reduci, tra i disoccupati, tra gli intellettuali frustrati.

E, dopo il campanello d’allarme dell’occupazione delle fabbriche, i nemici dei socialisti s’andavano organizzando sempre di più sul terreno della violenza e dello scontro fisico, pronti ad impedire che l’occasione creatasi nell’agosto-settembre del 1920 potesse ripresentarsi. I fascisti di Mussolini trovarono in quelle settimane, in quei mesi sempre più concrete solidarietà, e si apprestavano a giocare un ruolo decisivo, consapevoli che il PSI non era riuscito a sfruttare il successo di quella occasione irripetibile, e che ormai stavano per trovarsi in un vicolo cieco.

C’è una regola ricorrente nel gioco del calcio, che sembra valere anche in politica. Quando si spreca l’occasione favorevole per segnare, è sempre la squadra avversaria, subito dopo, a capovolgere la situazione e a riuscire ad andare a rete.