Guardato da lontano, il primo maggio è una grande protesta. Il proletariato dice alla borghesia: è da un secolo che i tuoi «Diritti dell’uomo» han proclamato che eguaglianza, libertà, proprietà, resistenza all’oppressione, proporzionalità delle imposte, controllo ai pubblici affari sono diritti imprescrittibili d’ogni cittadino. E mai come ora fummo schiavi, spropriati, avviliti, reietti nelle cariche, mai fu così acuta la lotta delle classi, e le imposte, a confessione dei tuoi economisti, non pesano, in ultima analisi, che sui nullabbienti.

Ci dicesti che la grande industria era un benefìcio comune, che eravamo ignoranti a pigliarcela colle macchine che ci gettavano sul lastrico: e mai come ora infuriano le crisi, la disoccupazione, e gli operai furono posti al dilemma di limosinare o rubare. […]

Guardato più da vicino, nel suo significato preciso, il primo maggio significa protezione dei diritti del lavoro: otto ore di lavoro, otto ore di sonno, otto di riposo e d’istruzione e – aggiungono gli inglesi – otto scellini al giorno. Pretesa che in Italia oggi parrebbe una follia! È possibile, in tesi generica, la riduzione ad otto ore di lavoro?

Coi progressi dell’industria meccanica moderna che produce in un’ora quel che un tempo si produceva in una settimana, sarebbe possibile la giornata di due ore. Basterebbe fosse posto un po’ di ordine in questo immenso disordine borghese; sopprimere la caterva innumerevole della burocrazia, dell’esercito, dei ricchi oziosi, di tutti i mangiapane a tradimento, non occupati ad altro che a divorare il comun retaggio.

Ma stiamo sul terreno dell’oggi! Marx definisce la lotta per la limitazione della giornata di lavoro una secolare querra civile che si combatte da tre secoli per la civiltà.

Bisogna comprendere il meccanismo della produzione moderna. È chiaro che nell’economia a schiavi la lotta per le otto ore non è possibile. Lo schiavo lavorava poco, il padrone lo trattava bene come si tratta un bove o un cavallo che, se muore, costa dei quattrini a sostituirlo. Nel medio evo non c’erano quasi salariati, non c’era proletariato, non c’era possibilità di crisi. Gli operai inglesi, due secoli fa, avevano la giornata di otto ore e lavoravano quattro giorni alla settimana. Allora viceversa, facevansi leggi per prolungare la giornata di lavoro e limitare le mercedi.

La grande industria rivoluzionò tutto questo. Il capitalista non ebbe più che uno scopo: produrre ad oltranza, non della merce ma del profitto netto. Curioso gergo questo del capitale! Si chiama profitto netto ed è il più sporco che si potesse inventare. […]

Or dunque il profitto netto non si ottiene che col sopralavoro, col lavoro non pagato. Se il capitalista pagasse tutto il prodotto del lavoro è chiaro che nulla resterebbe per lui. Egli dovrebbe mettersi a lavorare per vivere. Ciò è essenzialmente contrario al principio borghese, il quale proclama la moralità del lavoro degli altri.

Il sopralavoro voi lo vedete ad occhio nudo nella mezzadria per esempio. Qui è evidente che il mezzadro lavora tre giorni per sé e tre giorni per il padrone. Nel lavoro delle industrie è meno palese, ma il fenomeno è sempre lo stesso.

L’interesse del proprietario è aumentare quanto più può la giornata di lavoro e scemare la mercede. L’interesse del lavoratore è diminuire la giornata e aumentare la mercede. Questo è ciò che si chiama l’armonia degli interessi, la solidarietà fra lavoro e capitale. […]

Il paese che prima ottenne ed applicò seriamente la legge delle otto ore è l’Australia. Ivi, ogni 21 aprile si celebra quella data memoranda. E gli effetti superano le migliori previsioni. Nell’Italia del Popolo di ieri avete tutti potuto leggere quel che ne dice il Rae, un economista tutt’altro che eterodosso. Nessun danno ne ebbe la produzione, gran vantaggio i lavoratori. Per effetto delle otto ore crebbe una classe di operai che per le qualità morali e l’intelligenza sorpassa ogni ramo della razza anglo-sassone e di cui al mondo non s’è mai vista l’uguale per l’amore alla vita, il buon umore, il benessere.

Malgrado tutto ciò, si fanno alle otto ore obiezioni parte serie, parte ridicole.

Le obiezioni più serie, almeno in apparenza, sono le seguenti: minor lavoro, dunque minor salario, -se salario uguale o maggiore, merci più costose – quindi danno pel capitalista e vantaggio illusorio pel lavoratore che dovrà pagare più caro le sussistenze. Inoltre la concorrenza estera ucciderà le nostre industrie, quindi crisi, disoccupazione, nuovi ribassi del salario, ecc. ecc.

I fautori passionati delle otto ore sostengono che il tempo più breve fa il lavoro più intensivo e quindi più produttivo. Il lavoro a cottimo dimostra come l’operaio possa produrre in minor tempo una somma di lavoro maggiore della normale. I salari non caleranno perché l’orario più breve costringerà ad impiegare i disoccupati scemando l’offerta del lavoro (veramente questi due argomenti in parte si elidono a vicenda). E quanto alla concorrenza estera, vi si provvede con leggi internazionali. In codeste osservazioni vi è del vero e dell’esagerato. Il lavoro più breve è più intensivo nei lavori a mano; non lo è, o ben poco, nei lavori la cui celerità è determinata, dalla macchina.

Per questi l’orario più breve obbligherebbe a reclutare i disoccupati e quindi rialzerebbe i salari. Ma ogni qualvolta si rialzano i salari o si abbreviano gli orari, il capitale se ne rifà, imprimendo maggiore sviluppo alle macchine o inventandone di nuove. Molte invenzioni meccaniche non ebbero altra cagione. Per cui il vantaggio degli operai, perché sia duraturo, dev’essere mantenuto dalla compattezza della resistenza. Certo è che i paesi, come l’Inghilterra l’America e l’Austria dove le giornate sono più brevi, sono anche più ricchi, hanno operai più abili e salari più alti. E lo sviluppo del meccanismo rovina solo i piccoli industriali, affrettando l’evoluzione del sistema di produzione verso il collettivismo. […]

Ma i massimi vantaggi delle otto ore sono nel campo morale. È per questa via indiretta che esse conducono alla redenzione economica. Ed è per questo che son tanto temute. «Il lavoro è un freno», diceva Guizot, e il lavoro troppo lungo prostra, deprime, inebetisce. Esso è il migliore dei carabinieri. Colle otto ore guadagna l’igiene. I congressi degli igienisti le reclamano infatti ad alta voce.

Gli avversari insinuano che l’operaio meno occupato frequenterà le osterie. Ma a Melbourne chi protestò contro la legge furono gli osti per l’appunto, ed è naturale. L’organismo non esaurito non ha bisogno di prendere ad usura dall’alcool il ristoro che gli è necessario.

Colle otto ore risorge la famiglia, che il capitalismo ha distrutto. Colle otto ore s’instaura la vera democrazia, perché rimane al popolo il tempo per l’istruzione e pel controllo dei pubblici affari. Senza di esse la democrazia è vano nome. Onde il primo dovere della parte sinceramente democratica sarebbe di conseguire, mercé un’attiva instancabile propaganda, questa primissima di tutte le riforme. […]

Con le otto ore il proletariato militante fa un passo gigantesco.

Per esse potrà provvedere seriamente a sviluppare la solidarietà che gli è necessaria nella sua grande battaglia. Oggi, troppo esauriti, disertate spesso le riunioni in cui si discutono i vostri interessi e vi si apre lo spirito al concetto della vostra missione storica. Colle otto ore sarà tutta un’umanità nuova che aggiungesi all’umanità. Che importa, di fronte a così grande risultato, se anche qualche tisica industria, tenuta su dall’olio di merluzzo delle concessioni governative e delle dogane, dovesse soccombere?

Questo, dunque, il significato socialista delle “otto ore.”

da una raccolta di Nicolino Corrado

Tratto da: Filippo Turati, “L’orario di lavoro delle 8 ore. Relazione e disegno di legge approvati dal Consiglio superiore del lavoro nel luglio 1919”, Treves, 1920.

Il 15 marzo 1923 il disegno di legge sugli orari, presentato da Turati, viene recepito dal Regio Decreto Legge n° 692, che stabilisce le 8 ore giornaliere di lavoro e le 48 ore settimanali, oltre a prevedere 12 ore di straordinario, da effettuarsi previa comunicazione all’Ispettorato del lavoro. Tale decreto viene convertito dalla legge 17 aprile 1925, n° 473 ed è tuttora in vigore in attesa di essere sostituito dalla nuova legge sugli orari. Il successivo avvento del regime fascista svuotò l’impianto normativo ideato da Turati.