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Bisognerà fare a meno degli stereotipi sui tedeschi per comprendere cosa succede alla Spd. La crisi inedita spiegherebbe l’incertezza, non lo sgomento dei vertici del partito. Non serve neppure ribaltare lo stereotipo: «Sono rigidi, non sanno come cavarsela».
L’analisi politica non può essere aneddotica da stabilimento balneare riminese.
Alla base di tutto, le politiche degli ultimi 15 anni, a cominciare dalle riforme del mercato del lavoro di Schröder, hanno alienato alla Spd quasi metà dell’elettorato. Inutile negarlo: non fossero state riforme socialmente devastanti non si capirebbe come il paese vincitore per eccellenza si trovi strattonato tra protesta sociale e instabilità governativa. Risultato: la Spd è al 20%, e ciò comporta non solo la riflessione in atto nel partito ma una sua ridottissima portata politica.
Esso non è, come ai tempi del 40%, un partito cardine alla pari con Angela Merkel ma, per il momento, solo il più grande dei partiti coalizionali. Una navigazione in acque inesplorate, con l’aggiunta che tornare oggi ad essere partner minore della Cdu-Csu significherebbe confermare questa letale discesa di status. Anche perché nel frattempo, come è ovvio, davanti la prospettiva sarebbe quella di ogni odierno governo di grande coalizione imprigionato (a differenza degli anni 1960 di Brandt) nella sola prospettiva di disciplinare le classi medie e operaie nella propria netta sensazione di declino.
Alla lunga, come si vede, né i partiti democristiani né la socialdemocrazia se ne giovano, ed oggi infatti, a differenza del 2005, anche questa soluzione avrebbe, al Bundestag e nel paese, margini ridottissimi.
Eppure le forze che spingono in quella direzione sono molte. I governi di minoranza sono lontani dalla pratica costituzionale e politica tedesca: se non andiamo errati se ne è verificato solo uno, temporaneamente, ed in un governo regionale di Land.
E poi alla presidenza della Repubblica c’è un socialdemocratico, Steinmeier, che è l’incarnazione della «grande coalizione». Egli non considera, semplicemente, altra politica degna che quella del governo, privando la Socialdemocrazia ancora di più di ciò che costituiva il proprio equilibrio ideologico e politico fra critica del sistema a sua gestione. L’altro aspetto riguarda la leadership di Schulz, molto debole e priva di reale stima nel resto della classe dirigente.
Nella sostanza, gli si imputa di essere portato anche lui alla Grande Coalizione, semplicemente perché le elezioni tra pochi mesi sarebbero la sua fine come capo del partito. Non è solo una questione di note limitatezze personali, ma del fatto che oggi un leader della Spd non è più la proiezione collettiva di un grande movimento, ed è dunque appeso alle contingenze. Egli così non può affrontarle partendo da una posizione al di sopra di esse, cioè con maggiore forza negoziale. Del resto, due giorni fa anche il gruppo parlamentare del partito ha espresso alla sua presidente Andrea Nahles la paura di perdere il seggio in caso di elezioni imminenti.
Anche qui, agli osservatori e lettori italiani è bene far notare come le differenze antropologiche a nostro sfavore sono spesso smentite, e non servono a comprendere le cose.
Tutto riconduce appunto al ridimensionamento storico attuale della Spd a partito coalizionale che, peraltro, non ha lavorato ad alternative possibili, non solo di partner di governo (la Linke e i Verdi non sarebbe comunque bastevoli per una maggioranza di sinistra) ma proprio di schema. Un equilibrio meno angusto sarebbe per esempio possibile solo con uno schema «scandinavo» (tecnicamente: parlamentarismo negativo): un governo di minoranza Cdu-Csu tollerato dalla Spd, che accettando o rifiutando singoli provvedimenti potrebbe rigenerarsi intanto ricostruendo profilo e funzione.
E ritrovando gradualmente l’essenza della Socialdemocrazia: l’equilibrio fra distinzione (di rappresentanza, di ideologia e di politiche) e compromesso (all’opposizione o al governo è secondario). Un’altra grande coalizione sarebbe invece il peggio per tutti: l’indistinzione che rafforza la nuova destra, in Germania ed in Europa.
Fonte: Il Manifesto del 24 nov. 2017
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