LA CONCEZIONE MORANDIANA DEL PARTITO DI MASSA PER LA POLITICA UNITARIA

Nel presentare con il titolo Ragioni ed obiettivi della nostra politica unitaria la relazione svolta da Rodolfo Morandi al convegno giovanile di Modena nell’aprile 1950, i curatori del volume di scritti morandiani Partito e classe hanno voluto ricordare che “il convegno di Modena ebbe una grande importanza nella storia del PSI e segnò una svolta sul piano organizzativo come sul piano ideologico”; e ciò perché “vi fu dichiarata“, come disse Morandi, “l’assunzione senza riserve alcune del leninismo come interpretazione e sviluppo del marxismo”.

In quella sede infatti Rodolfo Morandi volle esporre non solo ai giovani socialisti, ma a tutto il partito, le basi ideologiche sulle quali intendeva fondare la sua opera di edificazione di un partito di massa al servizio della politica unitaria, dopo la conquista della direzione del partito da parte della “sinistra“.

Per la prima volta, in uno scritto o discorso di Morandi, appare una così netta adesione al leninismo, inteso come ideologia del movimento operaio nel suo insieme, come ispirazione dell’iniziativa organizzativa alla quale Morandi si accingeva, una volta riconquistate le leve del lavoro di organizzazione del PSI, che egli aveva voluto abbandonare subito dopo il congresso di Firenze del 1946.

In effetti, ciò che importa a Morandi e al gruppo dirigente che ha conquistato la direzione del partito, non è tanto l’assunzione del marxismo-leninismo come ideologia del PSI, poiché la funzione di guida della lotta di classe è da essi considerata come delegata al Partito comunista, quanto lo stimolo attivistico che tale collocazione nell’ambito dell’unità di classe dovrebbe suscitare nei quadri e nell’organizzazione del partito.

La professione di fede leninista di Morandi è in realtà una professione a carattere strumentale, in quanto dall’assunzione del marxismo-leninismo Morandi attendeva una galvanizzazione organizzativa ed attivistica del partito, che le vicende degli anni precedenti avevano pressoché annullato.

Abbiamo visto infatti in quali condizioni si presentava il PSI dopo le scissioni e la sconfitta del fronte. Morandi non esita ad attribuire la crisi organizzativa e strutturale del partito alle scissioni, mentre riferendosi al congresso dell’Astoria, che sancì la tattica del Fronte democratico popolare, afferma: “Si rifletta bene a ciò che per la prima volta consapevolmente si faceva, di elevarlo da una pura sensibilità elettoralistica a una coscienza di massa. E davvero un tale sforzo per quanto arrischiato risultasse rispetto alla forza di coesione del partito, non è risultato vano, come oggi constatiamo”.

Partendo da queste premesse, Morandi giunge a esaltare l’unita d’azione come l’elemento stimolante della ripresa organizzativa: “La via che si aprono le federazioni che accrescono la massa degli iscritti, le piccole federazioni meridionali che rinascono è quella di una crescente attivazione di massa, di un concorso senza restrizioni alle lotte, ciò che le porta di per sé a sviluppare su di un piano costruttivo l’unità d’azione, praticandola come condotta unitaria della comune guida di azione delle masse popolari“.

La relazione definiva l’unita di classe in questi termini: “Rispetto al Partito comunista, rispetto a un partito della classe operaia, come noi siamo, una politica unitaria si definirà semmai sul piano delle identità e non sul piano delle differenze“.

Il ragionamento politico appare insufficientemente motivato; ma la sua tesi prende vigore quando conclusivamente egli accerta che “la nostra politica d’unita è l’azione, intervento, partecipazione alla lotta, che in un più vasto ambito della vita nazionale si combatte per la costruzione del socialismo“.

Il partito dunque deve assumere una funzione unitaria nello schieramento popolare, la cui guida è però nelle mani del PCI.

Ma per questo compito, Morandi avverte “che non è un partito debole, minato dalla sfiducia in se medesimo, che può osare un’azione unitaria conseguente. Solo un partito che abbia eliminato il seme della divisione nel suo interno, un partito capace di stroncare qualsiasi tentativo di riprodurre nel suo seno situazioni degenerative, un partito che abbia sbaragliato i personalismi, le clientele e le cricche, sradicato il malcostume del giuoco sulle due scacchiere dei dirigenti, un partito che non si consumi in se stesso, ma che sia in grado di protendersi verso l’esterno, un partito che si accresca di forze e si rinvigorisca nelle strutture, un partito che elevi incessantemente il grado di protendersi verso l’esterno, un partito che si accresca di forze e si rinvigorisca nelle strutture, un partito che elevi incessantemente il grado della sua combattività, può a tale obiettivo dirigersi“.

Qualunque sia il giudizio sulla posizione ideologica e politica di Morandi non si può non riconoscere che nella posizione di allora, con un Partito socialista stremato dalle lotte intestine, dalle scissioni, dalle sconfitte elettorali, povero di quadri, con una classe dirigente divisa e sfiduciata, l’appello per l’edificazione di un “partito serio, oltre che forte“, indubbiamente recava con sé una carica galvanizzatrice ed animatrice dei pochi quadri giovani che il PSI ancora riusciva a reclutare. È con questi quadri in gran parte provenienti da una piccola borghesia intellettuale o delle giovani leve operaie in cerca di occupazione, e frustrate in questa loro esigenza dall’alto grado di disoccupazione esistente nel paese, che Morandi si appresta alla costituzione dell’apparato centrale e periferico del partito. A questi quadri, esasperati dalla condizione di disagio sociale del dopoguerra, la politica frontista della lotta “muro contro muro” offre una versione più moderna dell’antico massimalismo.

La differenza che salta subito agli occhi, tra l’apparato di Morandi e quello che Basso aveva tentato di costituire nel ’47-48, è in ciò: che mentre l’apparato di Basso era stato costituito con l’unico scopo di sottrarre il partito alle forze autonomistiche, per ancorarlo a una visione “unitaria” (verso la quale la sola riserva che Basso manteneva era una riserva di natura ideologica che rendeva ancor più ambigua la sostanziale strumentalizzazione della funzione politica del PSI a quella del Partito comunista), l’apparato “morandiano” una volta conquistato il partito, si proietta effettivamente nell’azione esterna, imprimendo alle vecchie strutture del PSI un dinamismo vitale che ne irrobustisce l’impalcatura organizzativa e dà un senso politico nuovo alla stessa politica “unitaria“.

L’apparato di Basso era il frutto di una visione ideologica statica, riprodotta in una situazione storico-politica estremamente confusa e contraddittoria: e destinato a sparire nel vuoto lasciato dalla politica di Basso dopo la sconfitta del Fronte.

L’apparato di Morandi è il frutto invece di una reale condizione socio-politica della lotta sociale del nostro paese. Esso riuscirà, nei limiti di una concezione ideologica e di una prassi politica discutibili nella loro sostanza, a dare al PSI la prima, elementare ossatura di partito moderno.

Il “centralismo democratico”

La struttura organizzata dal partito, basata sul centralismo delle decisioni, sull’organizzazione capillare, e sul rapporto rigido tra gli organismi centrali e gli organismi di base, e affidata all’apparato dei funzionari. Centro dell’azione organizzativa del partito è l’ufficio organizzazione affiancato da una commissione centrale di organizzazione con “attribuzioni di studio e di ordinamento“. Essa si compone dei responsabili nazionali del lavoro femminile e del lavoro giovanile, dei dirigenti degli uffici più strettamente connessi con l’ufficio organizzazione, nonché di elementi scelti tra i responsabili regionali e tra gli ispettori centrali.

Le funzioni della commissione centrale di organizzazione vengono così definite: “Compito assegnatole è di convogliare e di elaborare le informazioni di cui dispongono i vari servizi, per procedere sulla base di questi dati di conoscenze, permanentemente aggiornati, allo studio e alla impostazione delle questioni di natura organizzativa, che hanno portata più ampia e rivestono un interesse generale“.

Ferma restando la struttura sezionale e federale del vecchio partito, le innovazioni introdotte da Morandi riguardano l’organizzazione capillare e l’articolazione organizzativa della federazione nell’ambito della provincia. Si giunge così alla “adozione generale del nucleo come stadio organizzativo sottoposto alla sezione“; mentre “campo di esperienze più varie resterà l’organizzazione delle zone nell’ambito delle federazioni“.

Si tenta inoltre l’introduzione di organismi regionali (esperienza riuscita solo in alcune zone dal partito, in Emilia, in Toscana, in Sardegna e in poche altre regioni), con il compito di “mediare utilmente i rapporti tra la direzione nazionale e gli organismi provinciali, sotto l’aspetto preciso di integrare gli organi centrali, sì da renderli al massimo grado operanti nei compiti direttivi che essi hanno”.

Struttura del partito e articolazione funzionale

Tutta l’impostazione morandiana della struttura del partito è basata sul principio dell’articolazione funzionale, che nega ogni autonomia di base, sia a livello di NAS, sia a livello di federazione che di sezione.

Nella sua relazione al convegno di organizzazione, Morandi ebbe a polemizzare aspramente con “una singolare concezione delle federazioni, che deriva da una mentalità radicatasi in una fase nettamente superata del -processo -di formazione dei grandi partiti di massa, quando l’organizzazione si sostanziava di interessi locali ed aveva essenzialmente finalità elettorali“. L’organizzazione regionale non e dunque diretta a coordinare e collegare l’iniziativa delle federazioni, ma a trasmettere gli impulsi direzionali dal centro alla periferia. L’organizzazione regionale deve sorgere da una necessità funzionale, per “le difficoltà che si incontrano nell’intrattenere rapporti diretti con un centinaio di federazioni. Praticamente riesce impossibile dal centro, non dico corrispondere alle particolari caratteristiche delle singole federazioni, ma anche adeguare le direttive che si impartiscono alle effettive capacita che la maggior parte delle stesse possono avere di tradurle in atto“.