SCORTE AI MINIMI TERMINI E RAFFINAZIONE IMPOTENTE DIETRO L’IMPENNATA DELLA BENZINA

di Salvatore Carollo – Steffetta Quotidiana |

Le riflessioni controcorrente

In questa riflessione contro corrente, con il consueto stile dissacratore, Salvatore Carollo spiega come mai la benzina “sembra proiettata a toccare picchi mai visti nella storia moderna del petrolio”. Da un lato, “le scorte commerciali mondiali di benzina presso i sistemi di raffinazione sono ai minimi livelli degli ultimi 10 anni” ed è impensabile che possano essere ricostituite in tempi utili per la campagna estiva. Dall’altro, la crisi del sistema di raffinazione italiano espone il fianco a problemi di approvvigionamento che vanno oltre i confini nazionali e hanno un impatto non solo sui prezzi della benzina, ma anche su quelli a monte di Brent e Wti.

L’estate sta arrivando e la benzina sta salendo. Sembra il titolo di una canzone, ma purtroppo non lo è. È invece la fotografia di un’altra crisi annunciata e ricercata in tutti i modi possibili dai paesi industrializzati, con in testa la “verde” Europa e la “non curante” Italia.

Prendiamo alcuni dati certi pubblicati dalle principali fonti di informazione mondiali (Aie, Opec, Eia). La domanda mondiale di petrolio (o meglio di prodotti finiti) si aggira leggermente al di sopra di 100 milioni di barili/giorno. Per soddisfare questa domanda occorre produrre petrolio greggio al ritmo di almeno 100 milioni di barili/giorno. E questo, in qualche modo sta succedendo. Non stiamo affrontando una crisi di offerta di petrolio (inteso come materia prima) a livello mondiale.

Il problema che abbiamo davanti è che nessuno di noi usa il petrolio per i propri consumi. Nelle macchine mettiamo benzina o gasolio e negli aerei mettiamo jet fuel.

Sembra una affermazione banale, lapalissiana, ma, purtroppo, i grandi analisti del mercato petrolifero sembrano ignorare questa elementare verità e parlano dei grandi sistemi e delle dinamiche geopolitiche che influenzano o potrebbero influenzare la produzione della materia prima chiamata petrolio greggio. Discussioni assolutamente brillanti ed interessanti, ma che non spiegano perché la benzina sta andando alle stelle e sembra proiettata a toccare picchi mai visti nella storia moderna del petrolio. Ripeto, in una situazione in cui c’è ampia disponibilità di petrolio greggio e non si può derivare l’aumento del prezzo della benzina da uno shortage di petrolio. Se mai è il contrario. L’alto prezzo dei prodotti spinge in alto quello del petrolio greggio.

È come se avessimo una diga con un lago pieno d’acqua, ma senza una sufficiente capacità di trasporto dell’acqua per farla arrivare in città. Avremmo eccesso di acqua a monte e siccità a valle. Invocare la mancanza di pioggia a causa dei cambiamenti climatici sarebbe solo ridicolo.

Le scorte commerciali mondiali di benzina presso i sistemi di raffinazione sono ai minimi livelli degli ultimi 10 anni e non c’è nessuna prospettiva che possano essere ricostituite in tempi utili per la campagna estiva. Bisognerebbe disporre di una capacità di raffinazione che semplicemente non c’è (più).

I dati più recenti ci informano che la capacità di raffinazione mondiale disponibile si aggira fra 83 e 85 milioni di barili/giorno, evidenziando uno shortage rispetto alla domanda globale di prodotti fra 15 e 17 milioni di barili/giorno. In particolare, i paesi Ocse hanno perso 2 milioni di barili/giorno di capacità nel corso degli ultimi cinque anni. Ciò vuol dire che il petrolio che viene trasformato in prodotti finiti è soltanto 83-85 milioni di barili/giorno. Il resto rimane allo stato di materia grezza nelle scorte sparse in giro per il mondo. Le scorte galleggianti o viaggianti su navi petroliere sono altissime.

Altro che disquisire sugli effetti della crisi in Medio Oriente o sui pensieri reconditi dei paesi Opec.

La richiesta da parte di molti politici e governati rivolta all’Opec ed all’Arabia Saudita di aumentare la produzione di greggio, è fuorviante, solo un modo di deviare l’attenzione della pubblica opinione dalle loro precise responsabilità.

Disporre di capacità di raffinazione in cui trasformare il petrolio greggio nei prodotti finiti che servono al proprio mercato nazionale non è e non può essere una responsabilità dei paesi produttori, ma è una scelta strategica ed economica di ogni singolo paese.

L’Italia è stata per decenni il principale paese raffinatore d’Europa ed esportatore di benzina e gasolio verso i mercati redditizi del Nord Europa e del Nord America. Eravamo uno dei quattro hub petroliferi del mondo, insieme a Rotterdam, Houston e Singapore. Eravamo decisivi nel determinare il prezzo dei prodotti petroliferi e potevamo garantirci i rifornimenti al più basso prezzo possibile. Ai fautori dell’Italia hub del gas suggerisco di studiare questo periodo storico in cui l’Italia sapeva cosa e come fare per essere un hub di qualcosa.

Tutto questo ormai è storia. Il nostro sistema di raffinazione è in crisi profonda. Non si registrano più investimenti significativi (a parte la manutenzione minima degli impianti esistenti) per garantire l’adeguamento alle nuove richieste di qualità dei mercati più redditizi. Ma di questo nessuno vuole parlare. Ci si attacca alle statistiche in cui si mostra l’esistenza di un’ampia disponibilità di impianti senza informazioni sulla loro vetusta età e prospettiva di durata.

La situazione contingente che garantisce margini di raffinazione altissimi (a causa della mancanza di prodotti sui mercati mondiali) allontana nel tempo il momento della chiusura di molti degli impianti esistenti. Eppure, stiamo vedendo che si procede a ridurre la capacità esistente in modo surrettizio, chiamando la chiusura in modo diverso, ovvero come trasformazione in bio-raffineria. In realtà, si fermano tutti gli impianti di una raffineria, lasciando operativi solo uno o due impianti minori per processare delle biomasse.

Non si dice però che questa “trasformazione” ha finora comportato la scomparsa di 15 milioni di tonnellate di capacità a fronte degli 1,5 milioni di tonnellate di bio-raffineria rimasti, con una riduzione netta di 13,5 milioni di tonnellate, perse per sempre.

Impianti di altissima tecnologia, fermatisi a causa di incidenti, non sono stati più riattivati, come l’impianto Est di Sannazzaro che, fermatosi il 1° dicembre 2016, non è stato ancora riattivato. Non solo, ma nell’ultima presentazione del piano strategico, il 14 marzo scorso, il Ceo Eni, Claudio Descalzi, ha detto che sta pensando a “riconvertire la raffineria di Sannazzaro in bioraffineria”. Il che, tradotto in italiano, vuol dire la perdita di altri 10 milioni di tonnellate di capacità e la chiusura della più sofisticata raffineria italiana e cuore del sistema di approvvigionamento della pianura padana e dell’hinterland industriale di Milano e Torino. Un vero disastro nazionale.

Tutto questo non sembra interessare i politici, gli analisti e i giornalisti di questo paese. Piace sbizzarrirsi sulle filosofie riguardanti le strategie dell’Opec o addirittura disquisire sulle connessioni fra crisi israelo-palestinese ed il prezzo del petrolio, derivando le variazioni del prezzo della benzina da questi scenari geopolitici. Dimenticando che la benzina si ottiene in raffineria e non dai paesi produttori di petrolio e che se non si dispone di sufficiente capacità di raffinazione, semplicemente la benzina non c’è. Ed allora bisogna importarla dai mercati internazionali pagandola ai prezzi alti a cui la spinge la competizione con tutti gli altri paesi che non ne hanno o non ne hanno a sufficienza.

Tuttavia, alcune cose sono cambiate nel panorama della raffinazione nazionale. In peggio, naturalmente. Parliamo del silenzio assordante che copre la vendita dei due gioielli rimasti della raffinazione italiana, la Isab di Priolo (Siracusa) e la Saras di Sarroch (Sardegna) alle due maggiori società di trading internazionali, rispettivamente Trafigura (partner di Goi Energy) e Vitol.

Nel primo caso si è trattato di una vendita imposta alla Lukoil, azienda privata russa non sottoposta a nessuna sanzione e che continua ad operare senza restrizione anche negli Stati Uniti. È rimasto un mistero perché solo in Italia era diventato obbligatorio fare uscire una azienda privata russa, non sottoposta a sanzioni o restrizioni, dalla proprietà di un complesso industriale strategico per l’approvvigionamento del mercato italiano e vendere ad una società leader del trading, ma estranea al mondo della raffinazione.

La Lukoil rimane una società petrolifera integrata che fino ad allora si faceva e avrebbe continuato a farsi carico dello sviluppo industriale della raffineria per i prossimi anni. Trafigura, per la natura del suo business e della sua mission, sfrutterà il momento contingente di mancanza di prodotti petroliferi sul mercato mondiale, massimizzerà i suoi guadagni e, di sicuro, non si preoccuperà dello sviluppo strategico della raffineria nel medio lungo termine.

Caso analogo quella della raffineria Saras, che, pur essendo stata proprietà della famiglia Moratti, nel corso dei decenni ha sempre collaborato con Eni fornendo un supporto essenziale al sistema di approvvigionamento nazionale fino a poter essere considerata in passato una componente integrata del sistema pubblico di raffinazione.

La vendita a Vitol è avvenuta nel silenzio assordante di tutti i soggetti che in Italia si occupano di energia, persino dei vari intellettuali che ci inondano di analisi super dettagliate dei benefici derivanti dal passaggio dal mercato protetto a quello “libero”, senza però mai specificare l’indirizzo di dove si trovi in Italia questo mercato libero.

Due eventi singoli all’interno di un quadro complessivo drammaticamente preoccupante. Le due società di trading potrebbero pure lasciare parte dei prodotti nel mercato italiano, ma solo al prezzo dei mercati più redditizi del mondo. Se l’Italia avrà bisogno di benzina e gasolio prodotti da Saras o da Priolo, dovrà pagarli al prezzo più alto al mondo in quel momento. E sta già succedendo.

Occorre una riflessione più approfondita che ci faccia capire se siamo di fronte ad una de-responsabilizzazione collettiva o se è prevalsa una visione sul futuro dell’energia nazionale che si ritiene possa fare a meno del petrolio (come si è pensato di poter fare con il gas russo).

Colpisce, infatti, la fuga dell’Eni dalla raffinazione. Viene da pensare che a livello nazionale si sia deciso di abbandonare il petrolio, così come è avvenuto e sta avvenendo per altri settori industriali una volta ritenuti strategici (Alitalia, Fiat, Ilva, ecc).

La prossima estate il prezzo della benzina salirà ancora e la situazione dei conti nazionali non permetterà neanche di intervenire sulle accise per cercare di limitare l’impatto sociale sui consumatori.

Non ci rimarrà che fare del populismo spicciolo contro i paesi Opec e l’Arabia Saudita o cercare di convincere i consumatori dei legami inesistenti fra le crisi in Medio Oriente o in Ucraina ed il prezzo della benzina. Ma guai a dire che abbiamo adottato una politica energetica suicida e che stiamo continuando a distruggere il nostro sistema di raffinazione nazionale, nell’indifferenza generale.