LA SVOLTA IMPOSSIBILE

di Ernesto Galli della Loggia |

Tra il 1988 e 1991, nel triennio in cui tutto venne giù – in cui proprio la storia, questo supremo feticcio dell’idolatria marxista, presentò brutalmente i suoi conti al comunismo – molti pensarono che al partito italiano che aveva quel nome si offriva una via soltanto per cercare di non disperdere interamente la propria esperienza: per sperare di conservare la compattezza del proprio organismo e non vedere il proprio passato disfarsi senza lasciare traccia. La via era quella di svolgere a ritroso il filo della propria storia per riandare al suo inizio e quindi ripercorrerne lo svolgimento: ma tentando di trovare un filo diverso per tessere una tela anch’essa diversa in vista di un abito interamente nuovo. Un filo diverso da quello che era effettivamente stato: dunque ipotetico rispetto al modo in cui le cose erano andate, ma non gratuito: dal momento che quel filo avrebbe pur sempre potuto essere tessuto di materiali non certo immaginari bensì con uomini esi- stiti davvero e fatti realmente accaduti.

Bisognava perciò non buttare via tutto, perché certamente non tutto era da buttare: ma piuttosto conservare quanto doveva essere conservato organizzandolo sotto un’altra insegna e disponendolo in un’altra direzione. E quale se non quella del socialismo? Quale se non quella del riformismo socialdemocratico? Non c’è dubbio che in astratto sarebbe stata questa la via più ovvia, per non dire anche quella con ogni probabilità più produttiva di risultati politici. Con una tale premessa, infatti, sarebbe stata nelle cose, a scadenza più o meno ravvicinata, l’ipotesi di una riunificazione dei due tronconi della sinistra italiana, e Partito socialista e Partito comunista avrebbero potuto ragionevolmente aspirare, insieme, a rappresentare almeno un terzo dell’elettorato: essendo così nelle condizioni, altrettanto ragionevolmente, di porre la propria candidatura al governo del paese.

Peccato però che siffatti auspici non tenessero conto di un fatto: e cioè che l’identità degli organismi storici – parlo dell’identità degli organismi storici veri, non di quelli spuri come certi partiti della recente scena italiana – non è un assemblaggio di pezzi scomponibile e ricomponibile a piacere (che razza di organismi sarebbero altrimenti?), bensì è un insieme.

E non solo la loro identità in buona parte è già nella loro nascita, ma essa poi si sviluppa e resta sempre come qualcosa di indissolubilmente coeso, come qualcosa in cui ogni parte è legata alle altre in un tutto: sicché se si toglie quella, anche il tutto si dissolve e con esso si dissolve anche la sua identità.

L’identificazione con la storia rappresentò fin dall’inizio la pietra angolare nella psicologia del militante comunista.

Ora, per dirla molto in breve e quasi a mo’ di premessa di quanto sto per sostenere in queste righe, il comunismo non era stato un’eresia del socialismo. Era stato un suo nemico, sorto con il preciso proposito di farne piazza pulita. L’identità del Pci era stata segnata alla nascita da due caratteri decisivi.

Da un lato l’obbedienza a Mosca, la quale aveva teleguidato (ormai lo sappiamo bene grazie alle memorie dei suoi emissari) la scissione di Livorno. Dall’altro la ferma volontà, per l’appunto, di far fuori i socialisti e il loro partito in omaggio al forsennato egemonismo con cui Lenin, dopo avere eliminato in Russia qualunque forza della sinistra che non fosse la sua, mirava a replicare dovunque la medesima linea d’azione.

Eliminare i socialisti dalla scena, prendere il loro posto nel rapporto con le masse lavoratici e per far ciò non esitare a servirsi della più selvaggia aggressività verbale fu il primo compito assegnato dalla casa madre ai partiti comunisti.

Questi due aspetti rimasero sostanzialmente inalterati nel corso dei decenni seguenti. A poco o a nulla, se non a produrre montagne di raffinate esegesi storiografiche destinate alla critica demolitrice dei topi, servirono tutte le tesi di Lione, le svolte, i fronti uniti, i fronti popolari, i distinguo, le prese di distanza e le dichiarazioni sulla fine della spinta propulsiva che si successero da quel fatale 1921 al 1989. Ci sarà ben stata una ragione se fino all’ultimo, come attestano gli archivi, dall’Unione sovietica arrivarono al Pci fondi cospicui senza che mai essi fossero rispediti al mittente. Allo stesso modo – si ricordi quanto accadde nella stagione craxiana – fino all’ultimo l’atteggiamento dei comunisti verso il Partito socialista fu di avversione e disprezzo.

Avversione e disprezzo che per chi sapeva intendere questo genere di cose avevano il sapore evidentissimo di qualcosa che non apparteneva al normale contrasto della lotta politica, sia pure aspra quanto si vuole, bensì venivamo da assai più lontano. Venivano da un’opposta visione del mondo e da un’opposta scala di valori, venivano da un non mai deposto senso di superiorità intrecciato di arroganza nei confronti di chi era ritenuto ormai fuori dalla storia che conta. Agli occhi degli eredi di Lenin i socialisti rappresenteranno sempre una sorta di ectoplasma, una presenza ad ogni effetto secondaria e destinata a spegnersi: perciò manipolabile e utilizzabile a piacere.

Del resto era proprio questo che aveva segnato in modo indelebile l’identità del Partito comunista e di tutto quanto aveva quel nome: la convinzione di essere uno strumento della storia. Il solo in grado di conoscere il suo senso di marcia e dunque il suo unico interprete autorizzato. Era questo che aveva costituito fin dall’inizio l’anima e la vera energia animatrice dell’identità comunista. Gli altri, le altre forze politiche, appartenevano alla cronaca: fungibili di nome e di fatto rappresentavano pure sovrastrutture ideologiche della società borghese, votate prima o poi ad essere spazzate via. Laddove i comunisti invece erano la storia, e come tali predestinati all’avvenire. Si badi, non si trattava di parole: si trattava piuttosto di una straordinaria idea-forza. Ora è noto che solo se si è animati da una idea simile si arriva a giudicare l’impegno politico come la massima realizzazione possibile dell’essere umano: solo a questa condizione si possono fare grandi cose, si può giungere perfino a sacrificare la propria vita. È viceversa per chi è cultore del dubbio, per chi riguardo il fine della storia ammette di saperne poco o nulla, è per costoro che vanno bene i comizi, le elezioni, e tutta l’altra roba della routine politica democratica.

L’identificazione con la storia – e quindi con la rivoluzione d’ottobre, prima presunta verifica della fondatezza di tale identificazione – rappresentò fin dall’inizio la pietra angolare nella psicologia del militante comunista. Essa significava un vincolo fortissimo, di portata quasi trascendente, con il partito e la sua causa, con i propri compagni: e pertanto anche la premessa decisiva del mondo morale e del rapporto con la politica dei tanti compagni di base e dei tanti quadri che specialmente a partire dal 1944 costituirono l’ossatura del Pci. Il nerbo della sua capillare presenza sul territorio, della sua capacità di rappresentare gli interessi diffusi, di animare e gestire il conflitto sociale, di organizzare e governare le amministrazioni locali: insomma il nerbo della capacità del partito di divenire una parte così importante di quello che si definisce il tessuto democratico del paese. Una compagine di militanti e di quadri, di uomini e donne perlopiù scevri d’interesse personale, disposti per la causa a sacrificare tempo, energie e risorse.

Quando dopo l’’89 si giunse al fatale appuntamento con la storia, si vide come in complesso questi stessi intellettuali comunisti non si mostrassero per nulla favorevoli a un riorientamento del loro partito in senso socialdemocratico.

Ora, quando s’immagina la possibilità per il Pci di sopravvivere alla fine del comunismo tramutandosi in una parte di una sinistra socialdemocratica, non si può che immaginare prima di tutto la possibilità per una tale sinistra di contare precisamente su questo importante patrimonio umano. Adoperandolo, se così si può dire, non più per la causa ormai fuori gioco del comunismo ma per quella della democrazia, Dio sa quanto bisognosa di avere dalla sua, in un paese come l’Italia, uomini e donne del tipo che si è appena tratteggiato. Ma è proprio questo che all’indomani dell’89-91 invece non accadde. Infatti, prima ancora che il vertice del Pci definisse per il partito un nuovo volto ideologico-politico, una nuova collocazione e nuove alleanze, iniziò un’inarrestabile ancorché silenziosa emorragia di militanti. Per la ragione che si è detta: perché l’identità non è un assemblaggio di pezzi scomponibile e ricomponibile a piacere. È un insieme in cui tutto si tiene. E quindi, una volta incrinata e andata poi in pezzi sotto le macerie del muro di Berlino l’immaginata identificazione con la storia e con le sue immaginate promesse, una volta andata in pezzi la premessa emotivamente decisiva all’origine dell’impegno, del rigore e dell’abnegazione con cui tale impegno era vissuto, tutto quanto si trovò improvvisamente privo di fondamento e di significato. Migliaia e migliaia di vite spese nella militanza videro improvvisamente sbriciolarsi il loro senso nella più amara disillusione. Difficile, davvero difficile, pensare che avrebbero mai potuto riconvertirsi a un nuovo impegno per la causa della socialdemocrazia.

In quel momento insomma si spezzò il nucleo del togliattismo, quello che era stato il suo vero capolavoro politico. Questo capolavoro, come è stato detto più volte, consistette nel costruire un partito di massa indirizzato ad un’azione politica quotidiana di tipo riformatore – dunque inseribile e inserita a pieno titolo nel quadro di istituzioni democratico-parlamentari – ma convincendo i suoi membri che ciò serviva a realizzare il “socialismo” (la “via italiana” per l’appunto) e che dunque in tal modo quel partito restava nel solco aperto dalla rivoluzione del ’17, fedele comunque al suo lascito e al suo obiettivo di operare una frattura senza ritorno rispetto alla società capitalistica. Il legame fino all’ultimo esibito con l’U- nione sovietica (si ricordi come fu salutato Gorbaciov, “un compagno che finalmente la pensa proprio come noi”), il suo continuo fiancheggiamento di fatto sulla scena internazionale, e naturalmente il nome stesso del partito erano la prova che le cose stavano proprio così.

Ma questa giustapposizione profondamente contraddittoria di comunismo e democrazia – questa sovrapposizione artificiosa di un mito della rottura (con relativa disponibilità in suo nome al sacrificio di sé) su una pratica democratico-compromissoria – difficilmente poteva reggere l’urto della realtà. Venire a sapere in modo irrefutabile che il ’17 non aveva voluto dire nulla di ciò che si era detto e che era stato creduto per decenni, dover prendere atto che quanto in Russia era stato fatto a partire da quella data adesso finiva senza lasciare dietro di sé che penuria e repressione all’interno e sopraffazione imperiale all’esterno (pur tenendo conto della vittoria dell’Armata Rossa su Hitler), tutto ciò non poteva non produrre un autentico 8 settembre politico, un triste e generalizzato “tutti a casa”.

Tra le varie casematte che la costruzione togliattiana del “partito nuovo” aveva provveduto a edificare una di particolare importanza – il cui crollo io credo sia stato uno degli elementi che rese impossibile riorientare il Pci in senso socialdemocratico – fu quella rappresentata dalla cultura. Tanto più fu grave il suo venir meno in quanto il ruolo della cultura, dei libri e delle idee per chi voglia fare politica non era mai stata tenuto in gran conto dalla tradizione socialista nazionale: che non a caso non aveva mai annoverato nelle sue fila un gran numero di intellettuali. Viceversa, come si sa, il riconoscimento di quel ruolo aveva costituito un tratto tra i più significativi di quel gruppo di brillanti giovani studenti e laureati torinesi, capeggiati da Antonio Gramsci, che insieme a una piccola schiera di proletari “coscienti ed evoluti” aveva contribuito a suo tempo alla nascita del comunismo italiano.

Gli “intellettuali comunisti” (una gamma assai eterogenea che andava dal giornalista e dal funzionario editoriale al regista cinematografico, allo scrittore famoso e al docente universitario di gran nome: peraltro aventi in genere con il comunismo quasi tutti ben poco a che fare) erano serviti al Pci togliattiano a due scopi soprattutto. Da un lato a dare al partito un’importante vernice e di rispettabilità e di prestigio in specie agli occhi del mondo borghese, e dall’altro lato a rappresentare con la loro voce pubblica, comunque favorevole al punto di vista del loro partito, altrettanti canali di diffusione e di accreditamento di quel punto di vista, dei suoi presupposti e dei suoi valori: in tal modo conseguendo una preziosa opera di legittimazione, specie tenuto conto del ruolo ricoperto proprio dagli intellettuali in settori cruciali come quello dell’istruzione, dei media, dello spettacolo, della comunicazione in genere.

Sarebbe sbagliato tuttavia pensare al ruolo degli intellettuali vicini al partito come a un ruolo rimasto sempre e solo pas- sivo, in una prospettiva per così dire esclusivamente di tipo propagandistico. Con il passare del tempo accadde infatti che anche il ruolo politico degli intellettuali crescesse e si autonomizzasse, grazie specialmente alla progressiva terziarizzazione e scolarizzazione della società, grazie all’ingente crescita quantitativa del ceto dei colti (ad esempio gli addetti al settore dell’istruzione), e per l’effetto di tali mutamenti all’interno del Pci stesso nella composizione dei suoi iscritti e del suo elettorato. E così, a partire dagli anni ’70 accadde sempre di più che decine e decine di migliaia di studenti e docenti della Cgil scuola, di impiegati, di professionisti, orientassero le proprie scelte politiche sulla base delle opinioni espresse nel dibattito giornalistico-culturale di sinistra, dibattito nel quale gli intellettuali comunisti (per comodità userò anche io questa denominazione generica, del resto adoperata abitualmente dallo stesso Pci) erano naturalmente la stragrande maggioranza.

Tutto pur di non dirsi socialdemocratici. Con il bel risultato – sia per la democrazia che per la sinistra – che da trent’anni è sotto gli occhi di tutti.

Ora però, quando dopo il 1989 si giunse al fatale appuntamento con la storia, si vide come in complesso questi stessi intellettuali comunisti non si mostrassero per nulla favorevoli a un riorientamento del loro partito in senso socialdemocratico. All’opposto, emerse in piena luce nella maggior parte di loro quella vocazione al radicalismo ostile alla democrazia liberale e al riformismo, quella viscerale propensione al “non possumus” moralistico, che avevano variamente contraddistinto tutta la loro vicenda novecentesca: dal vocianesimo in poi, attraverso il nazionalismo, il gobettismo, il fascismo, l’azionismo, il gramscismo, il dossettismo, e infine il sessantottismo goscista.

Il Pci aveva rappresentato la casa ideale dove coltivare questa vocazione. Una vocazione a suo modo aristocratica e insieme populista (le due cose sono tutt’altro che contraddittorie), consistente nell’essere contro ma stando al tempo stesso dalla parte dei più e godendo del loro seguito. Alla stragrande mag- gioranza di quegli intellettuali la prospettiva di abbandonare il “comunismo” per divenire socialdemocratici, lungi dall’apparire come una presa d’atto della realtà, apparve invece un tradimento dell’ideale, un opportunismo senz’anima, una resa vile all’esistente. E così per mesi e mesi fu tutto un profluvio da parte loro di epicedi struggenti, di nostalgie edificanti, di rievocazioni delle passate grandezze, oltre che di inevitabili disquisizioni sul caso singolarissimo di un partito comunista che mai e poi mai, però – si sosteneva – aveva avuto qualcosa a che fare con il comunismo. Ciò che naturalmente non mancò di produrre il suo effetto sull’intera compagine del partito. La quale tra l’altro – non bisogna mai dimenticarlo – da un trentennio di predicazione sarcastico-denigratoria contro le miserie del saragattismo era appena passata a un decennio di accuse sprezzanti e violentissime contro il partito socialista di Craxi.

Insomma, una situazione complessiva che non si presentava proprio come il miglior viatico perché il Pci potesse mai ripensare la propria vicenda e decidere di muovere verso i lidi della socialdemocrazia. Dal terremoto abbattutosi sulla sua storia uscivano infatti assai gravemente lesionati due muri di sostegno essenziali che avevano tenuto in piedi la costruzione del partito: da un lato il mito dell’Ottobre, premessa necessaria del consenso di larga parte della sua base e del suo carattere improntato a disciplina , devozione e disinteresse; dall’altro il profondo radicamento nel ceto colto e intellettuale, ormai divenuto   parte così significativa della sua identità italiana.

Qualunque iniziativa di svolta del gruppo dirigente doveva dunque fare i conti in partenza con questi due gravi handicap. C’era un terzo problema assai imbarazzante. Consisteva nel fatto che muoversi in direzione socialdemocratica significava per forza trovarsi alle prese con Bettino Craxi, avere a che fare con lui, dover in qualche modo regolare i conti con lui e con il suo partito. Entrambi i quali tuttavia, come ho già ricordato, erano stati oggetto per anni, e proprio da parte dei comunisti, di una violentissima campagna di accuse, una più pesante dell’altra. Come se non bastasse, si era trattato di un’aspra contrapposizione frontale nella quale aveva impegnato tutto se stesso Enrico Berlinguer, ricavandone non solo presso gli iscritti ma in tutta una vasta area della sinistra un accrescimento notevolissimo del suo già grande prestigio e della sua già larga popolarità. Delle difficoltà rappresentate da questo insieme di fattori sapeva qualcosa lo sparuto gruppo di esponenti del Pci, i cosiddetti “miglioristi”, i quali avevano cercato nonostante tutto di mantenere in qualche modo un rapporto non conflittuale con i socialisti. Ma lo avevano pagato con la propria sostanziale emarginazione e con il continuo sospetto di “collusione col nemico”.

È evidente insomma che stando così le cose per procedere nella direzione di una scelta socialdemocratica e per superare i numerosi ostacoli anzidetti ci sarebbe voluto non solo un gruppo dirigente ferreamente compatto e deciso, ma anche la guida di un leader dalla tempra ferrea e al tempo stesso duttile, una personalità di levatura e prestigio indiscussi. Sfortunatamente, tutto quello che la storia riuscì ad offrire fu invece Achille Occhetto. E per il resto i D’Alema, i Petruccioli, i Reichlin: dirigenti tutti più o meno esperti, ma tutti privi della capacità di visione e del carisma necessari per un’operazione oggettivamente assai difficile di trasformazione/traghettamento di portata storica. La quale oltre tutto – e questo naturalmente è il punto che mi sembra decisivo – non era in alcun modo in sintonia con la cultura e i trascorsi politici di coloro che avrebbero dovuto condurla.

Il gruppo dirigente dell’ultimo Pci era infatti formato di persone che come sinceri fautori di un indirizzo socialdemocratico avevano ben poca credibilità: agli occhi innanzi tutto della stessa base degli iscritti. Il che non solo, seppure avessero voluto muoversi in quella direzione, rendeva loro difficile riuscire ad essere davvero convincenti, ma colorava di un’inevitabile vernice di opportunismo qualsivoglia operazione cosmetica dell’identità del partito, compiuta a tempo ormai scaduto. Nei lunghi anni della loro milizia comunista nessuno di quei dirigenti, infatti, aveva mai manifestato alcuna simpatia in tal senso (anzi erano cresciuti con l’idea che una tale simpatia fosse una cosa di per sé negativa). Così come del resto nessuno di loro aveva mai preso realmente le distanze dall’Unione sovietica al di là del “dico e non dico”, del “qui lo dico e qui lo nego” che era stata la linea del partito una volta finito il tempo del completo asservimento alla casa madre.

Si trattava infine di un gruppo dirigente che in base alla propria esperienza quotidiana nel Pci era poco allenato al tipo di battaglia politica che avrebbe richiesto una svolta come quella di cui stiamo parlando. Al di là di un’attività pubblica in qualità di rappresentanti del partito e di sua “voce” (in occasione di elezioni, agitazioni, attività parlamentari e simili), la vita politica di cui essi avevano perlopiù esperienza era quella per così dire di corridoio, negli organi direttivi o intorno ad essi, nelle direzioni, nelle segreterie, nei comitati centrali, molto influenzata dall’appartenenza a questa o a quella cordata. Un’ attività politica tutta interna al partito, scandita da cooptazioni o rimozioni riservatamente decise al vertice. espressa con un’oratoria quasi sempre allusiva fatta di citazioni opportunamente calibrate, di omaggi di maniera, di attacchi a nuora perché intendesse la suocera. Anche il successo del singolo dirigente nelle elezioni politiche era qualcosa che dipendeva assai più dalla designazione del collegio giusto ad opera del partito stesso piuttosto che dalla sua capacità personale di ottenere seguito e consenso.

Difficile – anzi impossibile, diciamolo pure – che un simile personale politico potesse improvvisamente mutare registro e impegnarsi in una battaglia a viso aperto, mettendosi interamente in gioco con la passione e l’altezza dei toni che le circostanze avrebbero richiesto: tra l’altro a favore di una causa, quella del socialismo democratico, che gli era profondamente estranea. E difatti, come si sa, la strada scelta fu un’altra, fu la strada del compromesso: dirsi “democratici” per dichiarare di non essere più comunisti, ma “di sinistra” per far capire che in certo modo e in certa misura si era ancora in quel campo, anche se non si sarebbe stati mai in grado d’indicare in che modo e a quale titolo. Tutto insomma pur di non dirsi socialdemocratici. Con il bel risultato – sia per la democrazia che per la sinistra – che da trent’anni è sotto gli occhi di tutti.